“Ma perché, mi spieghi perché mi hai ferita?”
“Scusa, dici a me?”.
“Vedi qualcun altro qua intorno, scusa! Ci siamo solo io e te! Perdo sangue, hai intenzione di aiutarmi o anche tu vai di fretta come tutti ultimamente? Almeno riparate ai danni che commettete, maledizione!”
“Senti, capisco che tu sia nervosa, a tutti capitano le cattive giornate e sì, lo vedo anche io che stai sanguinando da una gamba, ma che posso fare, scusami… guardami: non ho le mani, come avrei potuto ferirti?”.
“Sempre a cercare scuse! Non fa niente, dai, capita, ma dimmi almeno come fare per arrivare al più vicino Pronto Soccorso!”.
“Non puoi! C’è una competizione di auto stamani in costiera, le strade son chiuse, conviene che torni verso casa tua!”.
“E tu come fai a sapere che non vivo qua? Ci siamo appena conosciuti!”.
“Nello stesso modo in cui ho potuto ferirti senza averne alcuna intenzione!”.
Poco convinta, risalgo in auto e sbatto la portiera. Sento un “Ahi”, ma ci presto poca attenzione, voglio arrivare presto: credo che la ferita richieda dei punti. In farmacia me lo confermano, e allora provo a raggiungere l’ospedale, ma lo sconosciuto aveva ragione: non è possibile. Allora tiro un sospiro, mi animo di coraggio e parto. Dovrebbe volerci all’incirca un’ora.
Arrivata in città, il medico del Pronto Soccorso bypassa i punti. È nervoso? Va di fretta anche lui? È una ferita da poco conto? Dal referto non pare, ma non pongo ulteriori domande. “Si strapperebbero, la pelle è troppo sottile”, mi bacchetta all’ultima, e desisto: d’altronde di mestiere non faccio la rubamestieri.
Torno a casa dolorante e cominciano dei giorni lunghi lunghi, in cui non so bene che fare con questo squarcio che sembra un’apertura in una galassia rossa. È domenica, che giorno da sfigati per farsi male, il giorno in cui anche il Signore riposa, il giorno di quelli che hanno i santi in Paradiso, il giorno… Ma dai, ho anche io i miei santi! Eccolo, il primo: Fabio, il chirurgo che non dorme mai.
“Una cura c’è”. “E allora perché fa così male?”.
“Lo capirai”, mi sembra che sussurri una voce: “Sappi attendere”.
Ora che ci penso, Fabio è solo il secondo, anzi no, il terzo, anzi no, il quarto santo di questa giornata! Ho visto i primi due tenermi compagnia al telefono a fasi alterne, in quelle curve che non finiscono mai. Il terzo raggiungere di corsa il Pronto Soccorso, quasi prima che arrivassi io. Ha in mano una pizzetta nel caso il mio codice verde dovesse diventare acromatico, e negli occhi un po’ di sana preoccupazione, che non diventa mai allarmismo. “Ok, un’altra. Niente paura, che vuoi che sia, abbiamo visto di peggio in questi ultimi anni!”.
Nei giorni si susseguono tanti santi: hanno le spoglie di una focaccia fatta con le proprie mani; quelle di un torroncino Strega o di mille contorni scelti con cura; si travestono di voci che ti fanno compagnia al telefono, di messaggi caldi in un inverno che stenta a diventare freddo; hanno la faccia del mio papà, felice come un bambino nel tornarsi a prendere cura di me. Hanno le sembianze di un telefono usato, che a me sembra il più nuovo tra i nuovi; di pacchi di medicine che non mi sono mai sembrate così curative; della connessione wifi che ha ridato la musica al mio fungo Sonos, che pareva essere diventato commestibile, privato delle note.
Hanno le fattezze di una donna piccola piccola, che fa con cura tutto quello che le dico mentre osserva scendere delle lacrime imprigionate: mette acqua, disinfetta, taglia, mi osserva senza mai dire una parola di troppo. C’è chi piange, si dispera, si lamenta, getta ingiurie: noi ci hanno rivestite col coraggio. Stringiamo strofinacci nelle labbra e canticchiamo tra i denti, soffrendo a nostro modo.
Non si parte a Capodanno: è arrivata l’ennesima tassa da pagare. Pazienza, coraggio!
La storia con Carlo non va, è agli sgoccioli. Pazienza, coraggio!
La mia ha superato anche gli sgoccioli. Pazienza, coraggio!
E poi si va: la ferita ora è pulita. A terra in bagno ci sono cadaveri di garze, bende, cerotti, saponi neutri, spugnette, cloredixina e acido ialuronico. La guerra è finita: abbiamo vinto noi. E mentre ripuliamo, io sto già pensando a cosa doverti preparare, donnina mia, perché tu sai, perché tu sei. Piccola piccola. Grande grande.
Mi guarda mentre smetto di zoppicare all’improvviso e mi avvio velocemente in cucina; so che mi vuole troppo bene per pensare che io sia Keyser Söze.
Spritziamo ingannando l’orticaria: che venga anche lei stasera, non ci sottometteremo di certo negandoci un piacere. Lo spritz è rosso, curerà anche l’anemia. Pazienza, coraggio!
È passata un’intera settimana e ancora non ho capito cosa voleva dire quello sconosciuto domenica scorsa. Oggi è lunedì e sto tornando a lavoro, sono felice, mi è sembrato di rivivere una parentesi Covid, quella che anche se la sciogli, l’equazione non si risolve mai.
Esco di corsa come sempre. Come sempre stracolma di libri, di pensieri per i ragazzi, dell’ombrello che stamani piove, degli spiccioli per il caffè.
“Allora non ci siamo spiegati proprio!”.
È quella stessa voce, la riconosco. “Ahi”, mi dice quando sbatto la portiera per ripartire.
“Scusa, ma che intendi? Ma chi ti conosce!”.
“Come sei stata questa settimana?”.
“Male, cioè… bene, cioè… male ma anche bene, non lo saprei dire con certezza. Ma tu chi sei?”.
“Visto che hai le idee confuse, ti dipano io la nebbia. Avevi bisogno di rallentare, ecco svelato il mistero. Non puoi fare tutto da sola, nessuno può. Per i primi giorni hai pensato che stessi perdendo tantissime cose, e invece le stavi ritrovando. Da quanto tempo non accendevi tante candele profumate per casa? Da quanto non ti concedevi il lusso di lavorare ai documenti di scuola, inframmezzandoli con una tisana, con un libro di poesie, con quella canzone di Allevi che ogni volta devi cercare perché non ricordi mai come si chiama?”.
“Tantissimo, non me lo ricordo più. E avevo perso, lo sai, l’abitudine di aiutare gli uccellini. Sì, aiutarli! A superare l’inverno. Quando ero piccola, mamma svuotava sul balcone le briciole e poi mi sgridava se arrivavo d’improvviso facendo baccano: gli uccellini infatti scappavano al più piccolo rumore e non tornavano più. Tutte queste sere ho mangiato smollicando il più possibile e ho sparpagliato le briciole sul balcone. Appena mi svegliavo, l’indomani, loro erano lì, ed io, silenziosissima, mi fermavo – sì, mi fermavo, che bella parola!- ad osservarli.
Era il mio momento di ricongiungimento al creato, il modo che mi ha lasciato lei per empatizzare con la natura, per fare del mio piccolo pezzo di mondo un piccolo pezzo migliore di mondo. Non lo facevo da un po’, hai ragione, torno sempre troppo stanca la sera. Ma aspetta un attimo, tu sei…”
“Sì, sono io, ti avevo detto che non ti avevo colpita di proposito quella mattina, io non ho mani. A ferirti invece sei stata proprio tu: mi hai tirata in maniera forte, distratta, maldestra, come tutte le persone che fanno le cose pensando già alla successiva. Senza amore, senza attenzione, senza cura. Io non ferisco le persone, loro sono già brave a farlo da sole, non hanno bisogno di una portiera.
Rallenta. Non aver bisogno di ferirti per farlo.
A più tardi”.
Grazie di cuore a tutti: questi giorni non sono ancora finiti e già mi sento stracolma di debiti, ma – mi risponderebbe qualcuno – l’amore è gratis. Grazie a lui, ancor di più.
4 risposte su “Rallenta”
No vabbè….adoroooooo
❤️
La tua risposta agli imprevisti mi da sempre tanta carica, e mi fa vedere il futuro a tinte rosa!!!!!!!ti voglio bene
Zoppicare e poi saltare…. È un attimo . Ti voglio tanto bene anche io ❤️