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Meglio soli?

“Ma questa tizia da quale pianeta proviene? Qualcuno le spieghi per favore che non è salutare rimuovere la tristezza e che bisogna smettere di rivolgere la parola a cani e porci. La conosco appena e sono qui in sua compagnia solo perché è discretamente attraente, ma sono entrato a pagare la bottiglia di vino che ha bevuto quasi per intero da sola, e la osservo di profilo parlare. Con chi – mi chiedo – se siamo usciti solo noi due? Temo di essere appena incappato nell’ennesima psicopatica, quando – perplesso – la raggiungo, e no, non parla da sola… un passante che abita nel palazzo di lato al nostro tavolino, uno dei tanti che costella il suolo pubblico di una città che non dorme mai, si è fermato a chiacchierare con lei e pare che, insieme al cane che ha al guinzaglio, penda dalle sue labbra. Non si conoscono, capisco dopo, ma sembrano amici secolari. Sento odore di pericolo, o forse di fastidio, ancora non ho ben chiaro cosa. Intanto andiamo via e sulla strada verso il motorino la bacio. Mi piace, è bella, e poi stasera non ho niente di meglio da fare”.

“Ma cosa turba esattamente questo tipo qua? Ha occhi profondissimi che mi hanno attratta subito, quella sera che mi ha travolta con una spallata e mi ha chiesto scusa un attimo dopo, con una naturale gentilezza che pare già aver dimenticato… Quanto è bello questo cane, diamine! Mi fissa da quasi un minuto e non risponde ai richiami del padrone, che è dunque costretto a uscire nuovamente dal portone già valicato. Segue la traiettoria dello sguardo di Ralph, lo sento chiamare, e si ferma. Mi chiede, incuriosito, che cane io abbia, solo che io non ne ho mai posseduto uno. Indugio su questo particolare che mi incuriosisce, e nel frattempo lui mi ha raggiunta. Ha uno sguardo che non so interpretare, d’altronde non lo conosco. Speriamo non sia un altro di quelli che profondono reprimende sulla mia attitudine a non considerare nessuno realmente un estraneo. Abbiamo riso tanto stasera, e ho scoperto che abbiamo una valanga di cose in comune, ma mi ha appena baciata con una strana indolenza: mica eri obbligato, mi verrebbe da dirgli.

A casa l’aglio e l’olio sfrigolano e io ho una fame da Ciclopi. Pongo a lato le sue avances e ci trasferiamo in cucina, ma deve essere permaloso perché noto un certo astio che inizia a far capolino nelle risposte. Non mi avevano mai porto un complimento e al contempo sottolineato che non c’era nulla da ringraziare perché il capo che indosso non l’ho di certo disegnato io. Forse gli ricordo qualcuno che deve averlo molestato da bambino: sembra stia in trincea, mica a casa mia. Boh. Mi sfuggono cose e non riesco a chiedergliele, come invece naturalmente farei”.

“Voglio vederla ancora, mi piace. Esco dalla mia comfort zone e la invito a cena. Scende di casa, e le prime parole che mi fuoriescono, mentre cerco di ingoiarle, sono dei complimenti. Provo a baciarla e lei si ritrae: un’altra incoerente. Arriviamo velocemente vicino al mare, che da sempre mi comunica tranquillità. Ha un buon eloquio e noto con piacere che l’intelligenza non le fa difetto, così, perso nelle nostre parole, tralascio la notizia comunicataci dal cameriere: ci sono delle pietanze fuori menu. E dimentico anche il primigenio motivo di questa location: lo spaghetto al riccio, il cui odore mi attraversa l’olfatto un attimo dopo aver ordinato le vongole. Quando me ne ricordo è troppo tardi e mi promettono un assaggio. Parte così il mio esperimento sociologico: vediamo se questo ragazzino, che si muove come un equilibrista tra i tavoli, è affidabile oppure no. I fatti contano, le parole poco. D’altronde, se ognuno di noi riattraversasse i propri rapporti togliendo l’audio ai discorsi e prestando fede solo alle azioni, finirebbe per conoscere molto meglio le persone che ha incontrato. Michela però non resiste. Parla sempre, parla troppo. Fa pressing sull’avversario, in quel modo che solo alle donne, neanche ai calciatori riesce, e POUFF… qualche minuto dopo il riccio è davanti a me. Non lo desidero più. Che vorrà dal mio bracciale, poi? Continua a infilarci la mano sotto, come quando si cerca di recuperare qualcosa dai meandri di un mobile che l’ha nascosta, e io sono preoccupato: si spezzerà. Ho messo in conto che prima o poi perderò o romperò una delle cose a cui tengo di più al mondo, ma non in questa maniera ridicola. Glielo dico, così la smette. Un attimo dopo ha già cambiato rotta e mi chiede d’istinto di andare da lei. Si vede che non ha grandi filtri tra il pensiero e l’azione, e questo è particolarmente spiazzante per uno come me, che pensa anche mentre canticchia a un concerto dell’ultimo sfigato di turno. D’altronde, tutte le volte che ho abbassato la guardia e mi sono trovato a un bivio, ho sbagliato direzione. Meglio continuare a ponderare, dunque.
In questa casa c’è gusto e Michela è accogliente, come il suo corpo. Ma non soffre il solletico e bisogna sempre diffidare delle persone che ne sono immuni. Fuggirò ancora una volta, un attimo dopo aver fumato la sigaretta defaticante che segue di buona norma il sesso”.

“Pietro mi ha invitata a cena. Ne sono felice perché è da tempo che una persona non mi viene a noia dopo le prime 48 ore. Certo, c’è Luca, ma con lui è diverso: non sarà mai totalmente mio. E il fascino del proibito non si sa bene da quale genesi provenga, magari è solo un fuoco che al primo pomeriggio di routine si spegne. Ho sceso le scale senza correre, ma desiderosa di non farlo aspettare, e ho trovato come al solito il pubblico schierato. Una donna single che sorride sempre alla mia età genera curiosità, o peggio ancora sospetti: che sia lesbica o magari una strega? Forse perciò non mi accorgo che Pietro prova a baciarmi sulle labbra. – Ti sei ritratta – esclamerà durante la cena con quel suo fare di sufficienza che vorrei estirpare come un’erbaccia infestante. Esiste qualcuno a cui piaccia l’acqua torbida? O tutti siamo naturalmente portati ad affondarci le mani dentro, nel tentativo di scuoterla, liberarla e farla tornare limpida? Mi chiedo, per un attimo altrove. Vorrei farlo felice e persuado – forse – il cameriere a riparare alla sua ordinazione inciampata in una dimenticanza, ma niente. Sbaglio ancora, perché compare di nuovo quello sguardo di rimprovero con cui mi ha redarguita per degli strattoni inferti ad un bracciale che indossa. Quel monile deve custodire lo stesso segreto che risiede in tutte le cose lasciatemi da mia madre. Mi allontano mentre salda il conto e vado al parcheggio. Mi raggiunge con una delle sue esclamazioni ironiche, che sono per me una poesia sussurrata senza seguire la metrica. E pensare che Dante scriveva sonetti secoli fa. Forse aveva ragione Luigi, quando, seccato per la sua galanteria incompresa, mi disse con riprensione che noi donne meritavamo la brutalità.

Casa mia è un guscio in cui si affacciano in pochissimi. Devo sentirmi al sicuro se lo apro, anche se con Pietro non capisco esattamente cosa determini questa sensazione. Con me fa sempre così: ammacca le cose, come Stitch; forse anche lui è un alieno e mi ricorda un po’ quei bambini adottati, di cui parla spesso Carla, che d’improvviso si ritrovano pieni di attenzione e non sanno di preciso come reagire. Il primo istinto è quello di tirare calci, come a dire: impara a conoscere il peggio di me; se ti piaccio anche così ti aprirò il mio cuore. Non devo averli parati bene però, quei calci, perché ancora una volta fugge via veloce. I miei denti lo attirano, e la mia voce pure, ma non abbastanza evidentemente, o forse ha solo paura che sconvolgano uno status quo faticosamente raggiunto. Non lo so”.

“Michela finalmente è partita. Da quella cena mi ha investito ogni giorno con una richiesta diversa. Pranzo, cena, caffè, picnic e similari. Non voglio vederla. Possibile che nessuna scusa sia risultata credibile? Per una settimana almeno non dovrò difendermi dagli attacchi, e potrò restare al sicuro. Mi scriverà e le risponderò, ma mi sembra di averle spiegato che “la sindrome dagli occhi bassi” non mi ha contagiato: detesto i telefoni. Non sono nati per la funzione che assolvono oggi, e io non voglio adeguarmi. A che pro dovrei? Ergo, ci sentiremo pochissimo. Non ricordo quando torna, ma sono abbastanza sicuro che io sarò già partito. Fortunate coincidenze. Perché ho risposto ci vediamo al ritorno? Non saprei. Come non so esattamente il motivo per cui, quando sarà la mia volta di tornare, fingerò di aver dimenticato che lei è in città. Cavolo, eccola qui di fronte: decenni a percorrere questa stessa strada, senza mai incorrere in imprevisti di tal fatta, e proprio ora… Me la cavo con una conversazione fitta e al contempo evasiva, ma Michela non è tipa da mollare, e d’improvviso mi ficca gli occhi negli occhi e chiede con candore: come stai? L’unica parola che mi viene naturale è: confuso. Di cosa poi? Avrà intuito subito che mi sto arrampicando sugli specchi. Ci congediamo e non le dico niente. So bene che non la chiamerò, chissà se lo ha capito anche lei”.

“Sono in un’isola di fronte alla culla dell’umanità e godo della mia immersione nella natura. Qui è tutto incredibilmente selvaggio e fa venire voglia di riconciliarsi col mondo intero. Pietro ha respinto tutti i miei tentativi di salutarlo. Desideravo affondare la mano in uno dei suoi adorabili ricci, ma ho mascherato questo desiderio con altri: guai a essere sinceri fino in fondo. Lo step successivo è un calcio in piena regola. Gli scrivo spesso e lui risponde a monosillabi, tanto che a volte devo cancellare i messaggi, come la più insicura delle mie allieve che consegna il compito all’ultima frazione di secondo, sperando che in quelle correzioni finali si annidi un contenuto eccelso. Sono tornata e non mi pare muoia dal desiderio di rivedermi: ora parto io, ci sentiamo al ritorno. Non è vero. Mi sembra imbarazzato quando ci incontriamo in una strada che percorro da quando ero alta poco più di Mammolo, e la conversazione che intratteniamo è piacevole, ma a tratti impacciata. Non ricordavo, non sapevo… Ora sai. Il passo è breve per rivedersi, ma mi giro per andare via e avverto chiaramente che alcune distanze possono diventare incolmabili. Parole versus azione”.

“Eccoli, altri due idioti. Ormai li riconosco a prima vista, sono troppi mesi che abito qua. Fingono disinvoltura e invece vorrebbero sprofondare. Hanno diviso un letto, affinità e sorrisi, ma si ritrovano ignari faccia a faccia e si salutano con un bacio fugace sulla guancia. Hanno amici diversi e per non farsi cogliere vulnerabili ostentano sicurezza, ma sono fragili come il talco, che nella scala di Mohs è il primo minerale a poter essere scalfito con le sole unghie. Mi generano tenerezza, certo, ma in misura maggiore rabbia. Hanno arti per corrersi incontro – beati loro! – e preferiscono l’immobilismo. Hanno labbra per dirsi tutto quello che vicendevolmente pensano – maledetti loro! – e le tengono serrate o le utilizzano per battute inadeguate che in giorni normali deriderebbero. Hanno occhi acutissimi – che meraviglia! – e li distolgono l’uno dall’altra; hanno ingegno da vendere, ma perdono tempo a creare conferenze sul nulla che mi fanno ragionevolmente dubitare delle mie prime impressioni. Ma io non sbaglio quasi mai: tanti, troppi come loro si sono avvicendati su questa spiaggia, e ormai l’intuizione mi si è affinata. Se guardo bene, indovino anche il motivo di tale impasse: deve risiedere in lui. Si comporta in maniera maldestra e lei pare infastidita, è difatti più solare: parla con tutti, si vede che è attratta dalle persone, e se potesse parlerebbe anche con me, che purtroppo non ho il dono della parola. Lui sembra uno di quelli che fanno finta di avere tutte le risposte, mentre lei gode dello spazio e del tempo che impiega a raggiungerle, qualunque esse siano. Vorrei andare a dirle di insistere perché ha lo sguardo di chi tutto può, anche se forse non mi crederebbe mai. E allora resto nel mio angolo e continuo ad osservare. Quando, salito dal mare, lui le schizza gocce d’acqua come i bambini capricciosi che scherzano per dissimulare l’inadeguatezza, scatto. Gli vado incontro, mi sembra il minimo dirgli due parole. Forse ha dimenticato come si fa con le donne. Mentre mi metto sull’attenti però, arriva Massimo e mi chiude: il vento spira troppo forte e potrei mettere in pericolo le persone. Stolto! Dimentica che il vero pericolo non deriva dalla corrente esterna, ma da quella interna a ciascuno di noi. Basterebbe solo trovare il modo di metterla a tacere e di trasformarla in una leggera brezza che ci scompigli i capelli dolcemente.

Poveri idioti, ripenso. Probabilmente hanno gli stessi gusti, amano il cinema e leggono, come quasi nessuno fa più. Sanno bastare a sé stessi, ma farebbero faville in due. Ascoltano artisti sconosciuti, completano le parole crociate in men che non si dica, e si sono senz’altro sfidati a quel gioco affascinante che ricorda alle persone di vivere, chiedendo loro quando è stata l’ultima volta che hanno fatto qualcosa per la prima volta.

E poi dicono che i ciocchi di legno siano meno vivi ed arguti di un essere umano!”.

4 risposte su “Meglio soli?”

Intrigante la scelta di mostrare le cose dai due punti di vista, fotografa i pensieri di entrambi e tratteggia perfettamente i personaggi.
L’ombrellone chiuso proietta sui due (e su chi legge) un’ombra di malinconia :
due persone hanno parlato a lungo piacevolmente, hanno condiviso risate, cibo e corpi, due anime si sono appena sfiorate, senza toccarsi davvero.
Il tutto descritto con leggerezza ed illuminato da una grazia che incanta.
Ho adorato molti passaggi, un esempio per tutti (ma è solo un esempio): “Lui sembra uno di quelli che fa finta di avere tutte le risposte, mentre lei gode dello spazio e del tempo che impiega a raggiungerle”.
Stupisce come tu dipinga scene intense e pensieri profondi con la leggerezza di una farfalla.

Si legge come un thriller , in apnea, alla ricerca della soluzione , fino alla fine. Il racconto è splendido, ai raggi X la diffidenza , le aspettative e le fragilità dell’ avvio di un rapporto. La leggerezza domina la profondità. Magnifico.

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