Mi sono appena svegliata – o almeno così sembra – e una donna con gli occhi e i capelli color pece mi osserva dal pouf che si trova ai piedi del letto. Non sono spaventata perché ha un viso talmente familiare che mi sembra di conoscerla da sempre, e poi siede in maniera così disinvolta che questo batuffolo di ovatta gigante, color arancione, sembra essere stato fabbricato appositamente per farla accomodare. Per un attimo penso di non averlo comprato a Genova tanti anni fa, ma che sia arrivato a casa mia questa notte stessa con lei a bordo. Mi ricorda quelle fate che girano sulle scope nei cieli, e che i più chiamano streghe o befane, ma che nel mio immaginario sono sempre state buone, tranne quando mi alzavo per vedere se mi avevano lasciato dolciumi e mia sorella mi terrorizzava, dicendo che mi avrebbero colpita con la ramazza pur di non svelare la propria identità.
La donna alza il sopracciglio sinistro e mi guarda con complicità; ha le fossette alle guance e uno sguardo vispo che mi ricorda diari gonfi di fotografie, autografi rubati e interrogazioni, ma non riesco a darle una precisa collocazione. La me di molto tempo fa sbatterebbe la testa contro il muro nel tentativo di ricordare, la parete si creperebbe e riuscirei a posizionare la figura nel giusto contesto, ma fortunatamente sono cambiata. Non ho tutto questo futuro, e poi sono dettagli futili che non le fornirebbero una maggiore importanza di quella che le deriva da una naturale sensazione di intimità. Non dice niente, se non: “Vestiti, devo portarti assolutamente in un posto!”.
Come avevo immaginato, il pouf è magico e diventa all’improvviso un raggio di sole; in pochi minuti siamo in un luogo incollocabile, ma non possiamo essere andate lontano: abbiamo viaggiato poco!
Fuori c’è scritto solo EMODROMO. Il greco mi viene in soccorso e non chiedo nulla: ho la sensazione che questa donna sia il mio Virgilio e io la sua allieva disorientata, in procinto di entrare nella “foresta oscura”.
In un’altra delle mie infinite esistenze -penso- sarò stata un frullatore: tutte le volte che infilo qualche ingrediente nella mente infatti, questa comincia da subito a maciullarle e poi ne restano pezzettini sparsi ovunque.
Entro con un po’ di titubanza di gran lunga inferiore alla curiosità, e freno quel mio incontrollabile desiderio di domandare: “Perché?”. Sonia mi ha insegnato, ai tempi in cui studiavamo in biblioteca, che non esiste una spiegazione per tutte le cose, e se un settantenne pretende l’appellativo di “colonnello”, in mezzo a migliaia di libri polverosi, perché crede di essere stato a comando di un importante Reggimento militare, non riuscirò di certo io a convincerlo che non sia così. Colonnello sia, dunque. Sopprimo così la mia domanda e mi affretto a valicare l’ingresso: sembra quello di un anfiteatro romano e forse lo è. Ho smesso da tempo di dubitare dei miei occhi e quindi non mi sorprendo che ci siano decine di cuori in fila pronti a partire dal via in una pista dalla forma ventricolare.
La donna dagli occhi corvini mi lascia da sola e in un attimo si materializza allo start: ha uno strumento tra le mani che sembra un fischietto, ma il suono che emette non ha nulla a vedere con le apparenze, sembra il rumore di un’emozione, penso. Poi rifletto: che rumore effondono le emozioni? Questa domanda mi stordisce e perdo lo scatto iniziale. La pista è lunga e mi sembra di essere a una corsa di Formula Uno, anche solo per la velocità con la quale vengono compiuti i giri. Non faccio in tempo a decidere chi desidero sia il potenziale vincitore, che i cuori sono già al secondo giro, poi al terzo, e successivamente al quarto. Mi gira la testa e mi sembra di essere in un mondo fittizio, ma non mi trovo su un’isola artificiale e la luce è quella di un giorno primaverile.
Ora che osservo con attenzione i corridori, ne noto le ruote: mi ricordano le ramificazioni del cervello che ho visto sul libro di scienze; mi hanno sempre provocato un gran disgusto perché le immagino vischiose e piene di tranelli. Ai bordi dei pit stop si avvicendano un numero variabile di pit crew, ma non capisco da cosa sia determinata questa differenza. Siamo al trentanovesimo giro e la mia vista è attratta dagli ultimi quattro cuori. Sembrano pesanti e non si sono mai fermati. Questa corsa incessante dovrebbe garantire loro le prime posizioni, invece no: sono ultimi, e a larga distanza. La donna misteriosa ora è l’arbitro, e segue di volta in volta il percorso. E’ in tutti i punti della pista contemporaneamente, allora l’ubiquità esiste! Quanto l’ho desiderata prima di convincermi che appartenesse solo alle fiabe! Se aguzzo la vista, noto un altro particolare che non avevo colto: i quattro cuori sono stropicciati, sembrano abiti appena usciti dalla centrifuga e di loro impressiona l’imperfezione, l’asimmetria, il disordine, il caos allo stato puro. Gli altri concorrenti sono invece levigati, piatti, come alcune donne appena uscite dai centri estetici: così perfette da sembrare fasulle, senza espressione.
Siamo al cinquantasettesimo giro e non so di preciso quando la competizione terminerà, ma non riesco a distogliere lo sguardo dagli ultimi; pare vadano lentamente di proposito ed hanno accumulato un ritardo talmente cospicuo da essere ormai fuori gioco. La mia guida riprende quello strano strumento e sancisce la fine. Il vincitore è un cuore pallido, liscio come il BAM, le cui caratteristiche gli scienziati stanno ancora provando a spiegare. Sono un po’ delusa e mi sento tornata bambina davanti alla Tv: quel cuore ha appena rivoluzionato i miei cartoni animati preferiti e Dick Dastardly ha vinto sulla vettura 00. Sento il ghigno di Muttley e lo vedo, disonesto, stringere tra le mani la medaglia del suo classico refrain.
Donna dagli occhi neri, dove sei? “Fa’ qualcosa!”.
Allora ritorna. Deve conoscermi bene perché avverte che sono divorata dalle domande e inizia a spiegare, sebbene io non abbia proferito parola.
“I tuoi preferiti, i cuori stropicciati, sono i più simili al tuo. Sono quelli che non si sono fermati ai pit stop per svariati motivi: lì si cancellano i ricordi, per rendere più veloce la corsa; lì si demoliscono le emozioni, per eliminare le zavorre lungo il percorso; lì si “stirano” i dolori, affinchè il proprio involucro ritorni levigato e liscio, in cerca di una pace e di una serenità che non può esistere senza la passione; lì i corridori si preparano a vincere gare irreali per attrezzarsi ad una vita finta e priva di scossoni, in cerca di un’atarassia che è propria solo degli dei, delle statue o dei falchi, proprio come diceva Montale. Ti starai a questo punto chiedendo perché sono venuta da te oggi e ti abbia svelato l’esistenza dell’emodromo. Io non vivo più qui da tanto tempo. Sono dovunque, sono nell’aria. Ricordo bene però quanto ti affascinava la Gigante quando parlava dell’atarassia. Volavi lontano, non so precisamente dove. Provai a chiedertelo spesso, ma tu su questo volutamente tacevi. Sei stata male, e ti ho vista. Ti ho sentita più volte invocare quello stato che ritieni di grazia, ma che in realtà non è nient’altro che uno pseudo-mondo generato da un’alfa privativa. Privativa, ricordi? Ce lo ha insegnato lei, ci spiegò che sottrae qualcosa. Giurerei di averti vista a lungo cercare sui libri e su Internet, nonché chiedere a persone che non meritavano più il tuo cuore, di aiutarti a trovare un simbolo che la rappresentasse. Dicevi che volevi tatuarlo sul collo, sai… io sento alla perfezione: l’etere affina l’udito. Ebbene, volevo che capissi, e potevo riuscirci solo facendoti assistere a questa corsa.
Chi ha vinto oggi non ha più pieghe, le ha stirate tutte, è vero; sembra perfetto, di una perfezione quasi imbarazzante, ma non ha più memoria. Non ha più paura, quella sanissima emozione che ci spinge ad andare a vedere cosa ci sia sull’orlo del precipizio: che panorami perderesti da lassù! Il cuore che ha vinto non ha più dolori, hai ragione, e non appena uno nuovo lo raggiungerà si affretterà ad andare al pit stop. Lo cancellerà e sarà ancora primo; la sua esistenza si riempirà di coppe e trofei, di velocità e di podi, ma di tutti questi apparenti successi non conserverà memoria, né troverà gratificazione alcuna. Sarà piatto, come i vinili a 45 giri che hanno incisa una sola canzone e che, ascoltati sempre, prima o poi ti vengono a noia.
Volevo solo annunciarti che tu sei destinata a concorrere in questo emodromo. Arriverai ultima e quei quattro cuori che hai visto oggi saranno i tuoi migliori amici. Il tuo compagno, forse, è tra loro; lo scoprirai quando sarà il momento. Capirai così, all’improvviso, che solo apparentemente sono arrivati ultimi. In realtà, nel tuo e nel mio mondo, ogni minuto sono i veri vincitori.
Ora devo andare. Ciao, Manu”.
“Ciao, Francy. Chissà in che posizione è arrivato il cuore che correva quella notte. Io questo non lo so, ma i nostri sì, lo so bene anche io dove sono. Bello rivederti, mi sei mancata.”.
11 risposte su “L’emodromo”
Ho visto il tuo cuore…..GRANDE
Andremo entrambi di certo ad ingrossare le file degli ultimi. E meno male, aggiungerei😜❤
…semplicemente un vortice di emozioni, e in questo vortice non poteva mancare la donna dagli occhi corvini….❤️
Lei era il fulcro di tutti i vortici ❤️
Manù bella, quante verità! Più ti leggo e più mi convinco che “meglio così” !!
Tu sei l’emblema dei miei cuori preferiti, Mariomio, questo l’ho capito appena ti ho incontrato 😍 e sì, assolutamente “meglio così!” Le superfici troppo lisce le lasciamo volentieri agli altri, noi siamo crateri ❤
Dunque, stavolta non è facile!
Molto bello l’incipit, che unisce magia onirica e nitidezza da istantanea.
Delicati gli “indizi” che svelano a poco a poco il contesto in cui collocare la “misteriosa” guida spirituale del racconto, svelata nel finale.
Ma solo dopo un po’ arriva la vera magia di questo racconto: la gara dei cuori!
Se le emozioni fanno rumore, per circa trenta righe assistiamo ad un serrato fuoco pirotecnico!
Ancora una volta riesci a tenere insieme poesia e forza d’immagine.
Ma non solo, qui c’è una precisa scelta di campo, professi un preciso modo di vedere le cose, e lo descrivi con una “invenzione” poetica e completa.
Quasi in antitesi a quanto accade al ritratto di Dorian Gray, qui i vincenti solo levigati e perfetti, mentre i perdenti sono segnati, anche esteriormente: “i quattro cuori sono stropicciati, sembrano abiti appena usciti dalla centrifuga e di loro impressiona l’imperfezione, l’asimmetria, il disordine, il caos allo stato puro”.
Sono segnati dalla memoria, dalle emozioni, dal dolore, dalla vita.
Così, in un ribaltamento di posizioni quasi evangelico, i quattro “ultimi” si rivelano i veri vincenti.
Attenzione: vincenti, non vincitori, poiché nella piroetta che ribalta il verso ed il senso della classifica, la gara stessa perde ogni significato. Ai magnifici vincitori restano solo inutili coppe e trofei, mentre ai “rattoppati” vincenti sorride una vita pienamente vissuta e la consapevolezza della memoria.
Chi di noi non aspirerebbe ad essere fra gli ultimi?
Al risveglio dal sogno resta ancora un apprezzamento per il riferimento a Dastardly e Muttley, metafora che descrive col sorriso, ma con precisione un sentimento profondo di delusione che è solo apparentemente infantile.
Che dire: proprio brava!
Francy, che dire ? Sembra che il racconto lo abbia pensato tu… ti appartiene quasi più che a me. Che dici, vuoi fare il mio recensore a vita ? 😜 grazie mille! 💚
Questa storia sovrannaturale sprigiona una forza intima, che potrebbe turbare.
E mi ha turbato. La memoria (è?) del cuore.
Mi fa divagare, altrove.
Mi fa pensare che ci sono cuori troppo più vividi di altri.
Cuori che se feriti non vogliono cicatrici, battono sanguinanti in silenzio, devono, sono troppo puri.
Hanno un dono, mescolandosi contagiano gli altri cuori, i più lisci. Li permeano della loro linfa, allargandoli, allargandogli la vita, chissà fino a dove, fino a quando.
Complimenti, Davvero.
(..io ho avuto fortuna, ho accanto uno di questi cuori da metà della mia vita..)
Questa storia sovrannaturale sprigiona una forza intima, che potrebbe turbare. Mi ha turbato.
La memoria (è?) del cuore. Mi fa divagare, altrove.
Mi fa pensare che ci sono cuori troppo più vividi di altri.
Cuori che dopo una ferita non vogliono cicatrici, battono sanguinanti in silenzio, devono, sono troppo puri.
Hanno un dono, mescolandosi contagiano gli altri cuori, i più lisci.
Li permeano della loro linfa vitale, allargandoli, allargandogli la vita, chissà fino a dove, fino a quando.
Complimenti, Davvero.
(..io ho avuto fortuna, ho accanto uno di questi cuori da metà della mia vita..)
Grazie infinite, Leo. Un commento bellissimo. Felice per il cuore che ti accompagna e che sicuramente “allarga” la tua vita e anche quella degli altri. Oggi è un vero lusso. Un abbraccio.