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“Lei è la mamma?”

“Lei è la mamma?”

La domanda mi arriva così, a bruciapelo, e io inizio a balbettare; me la rivolge un membro esterno agli esami di maturità di Riccardo. Ad occhio e croce ha la mia stessa età, ma uno stile completamente diverso dal mio; indossa abiti dai colori opachi che non rendono giustizia al suo sguardo vivido, il primo che incontro appena entro. Avverto subito sintonia.

Sono arrivata tardi; ero fuori città per una promessa importante da mantenere e tanto desiderio di non piantare delusioni al posto dei fiori. Coincidenze fortuite, che io avverto invece come influssi discesi dall’alto, mi hanno accompagnata e ho raggiunto il quartiere più caotico di una città già di per sé caotica, in un battibaleno. “Rinuncia, non troverai mai parcheggio lì a quell’ora!”. “Embè? Esistono i garage!”. Rispondo così al conoscente di turno con cui mi ostino a portare avanti conversazioni intrise di ottimismo in maniera unilaterale, e mi dirigo nei pressi dell’istituto.

In quell’istante due anziani signori entrano in auto e liberano un posto; alla guida c’è un uomo e non è lesto nella manovra, ma io non voglio tramettergli fretta; mi fermo ad osservare la coppia: assomigliano ai miei genitori e immagino che siano proprio loro, di ritorno dalla solita passeggiata mattutina per le commissioni innaffiate di caffè. Sento che non sono capitati qui per caso: il clima è desertico e loro non possono tollerare che io compia molteplici giri dell’isolato; sanno che l’aria condizionata in auto non funziona e che non ho avuto il tempo di ricaricare il gas. Cerco di agevolare la manovra, retrocedendo in maniera silenziosa, e mi riavvicino solo quando sono andati via.

La scalinata d’ingresso è a poche centinaia di metri e ogni volta che la valico penso che mi piacerebbe lavorare qui: è un liceo che parla di tradizioni sedimentate e al contempo di una pioggia incessante di critiche, ma io vorrei entrarci lo stesso, munita magari di un ombrello impermeabile all’aridità e alle maldicenze. Mentre percorro i larghissimi corridoi, vedo ragazzini che rosicchiano unghie; alcuni grondano sudore, mentre altri custodiscono tra le mani una sigaretta, desiderosi di accenderla. Qualcuno in particolare attira la mia attenzione, ha un lampo negli occhi che pare dica: “Ora tocca a me!”.

Nel mio messaggio benaugurante della sera precedente, ho dimenticato di chiedere a Riccardo la sua sezione: non la ricordo, ho un vuoto di memoria. Vado dai collaboratori che siedono al grande desk, dinanzi all’ingresso. Pronuncio la parola esami e la domanda mi raggiunge, immediata: “Di che sezione?”.

Ecco, mi sento “la madre” degenere, quella che arriva trafelata e in ritardo, quella che ha la memoria strapiena e non si sbriga a liberarne qualche porzione per lasciare spazio alle informazioni davvero necessarie. Il mio imbarazzo è lì, trasparente, e allora agisco nel modo a me più congeniale: ammetto la mia pecca, la confusione, chiedo aiuto. I collaboratori mi sorridono, apprezzano la dichiarazione di umiltà: “Solo questo so: di non sapere niente”, se non un nome ed un cognome. Allora riportano il telefono alla sua funzione originaria: cercano informazioni e le trovano in tempi record.

L’aula è sull’altro versante; corro, sono sicuramente in tempo, c’è qualcuno lassù che non mi permetterà di perdere questo momento! Attraverso le aule con lo sguardo; ne ho appena scavalcata una, ma il mio piede destro si ferma e mi blocco: ho intravisto in un angolo “L’urlo” di Munch; chi lo ha rubato stavolta deve averlo anche modificato: la bocca del protagonista si apre allo stesso modo, ma gli occhi… gli occhi sorridono, e con i suoi i miei. Non so se Riccardo vuole che entri: i ragazzi a 18 anni portano nell’animo mille tempeste e io le ho vissute tutte senza dimenticarne nessuna, non posso accedere senza ricevere il permesso. Scoprirò solo dopo di aver superato correndo, senza scorgerlo, suo padre, al quale è stato severamente proibito di assistere.

Il consenso che mi viene accordato mi riempie di gioia: so bene che si chiama COMPLICITÀ.

Riccardo è seduto dietro la candidata che sta conferendo e ha le mani lisce e affusolate, come immagino siano state quelle di sua madre; sono arricchite con anelli d’argento, a cui cambia continuamente posizione. È nervoso e mi commuovo al ricordo del bambino paffutello che mi faceva ridere nelle mattinate uggiose in cui neanche il caffè riusciva a riportare un raggio di sole. Chiedo scusa alla studentessa per averla distratta momentaneamente e mi vado a posizionare dietro di lui: lo bacio e gli sussurro: “Ti copro le spalle”. Sarà bravissimo, ma questo lo tengo per me perché so che detesta le frasi melense e in certi casi uno sguardo d’intesa vale più di centomila parole.

“Lei è la mamma?”. Il membro esterno si rivolge a me e io balbetto. “No, sono… sono… sono… una sua insegnante delle scuole medie.”

La donna mi sorride e torna al suo lavoro; Sara, che sta conferendo, riceve diverse domande, e allora capisco: insegna letteratura italiana anche lei, ama quello che amo io, forse perciò ci siamo piaciute subito. La studentessa è preparata, ma a diversi quesiti non trova risposte brillanti e il tempo scorre. All’uscita dirà ai compagni che è stata messa in difficoltà e che la professoressa ce l’aveva con lei? Spero di no; spero che non si accomuni alla massa, spero che dirà di aver ricevuto domande intelligenti e pertinenti e che la vita è così: ci lascia spesso e volentieri senza le giuste risposte; nella loro assenza si cresce, è questo il vero esame di maturità.

Ci accomodiamo mentre la commissione decide il voto della ragazza, e in corridoio posso finalmente abbracciare Riccardo: ormai in altezza mi sovrasta, e io sono emozionata più di lui. Dopo pochi attimi arriva il suo turno. Gli anelli smettono di passare da un dito all’altro e io penso che “il mio ragazzo” è diventato un domatore di ansia. Me lo immagino alle prese con una frusta e una gabbia, da cui fuoriescono migliaia di pensieri in forma di bestie feroci.

A settembre con i miei allievi più piccoli ho stilato una lista di parole vietate: “IO” per rifuggire l’egocentrismo dilatante; “SCHIFO” perché nessuna cosa al mondo merita un vocabolo così volgare e meschino; “TIPO” per contrastare la povertà verbale ormai sovrana, e “ANSIA”, una parola oggi abusata a cui addebitiamo ogni male oscuro.

Riccardo usa quest’ultima parola come stimolo, non come deterrente, e si muove con grande disinvoltura. Io mi commuovo non appena inizia a parlare e una lacrima scende, silenziosa; lui non la vede, è concentrato, ma lei sì, e ho l’impressione voglia chiedermi ancora: “Sicura che lei non è la mamma?”. Mentre procede spedito e io sobbalzo a qualche accento sbagliato, penso che sono fiera di lui: sta volteggiando insieme al suo percorso multidisciplinare organizzato all’impronta con una verve fuori dal comune, e riesce a strappare più volte risate genuine alla commissione intera. Lei non fa domande: è nell’angolo, e io le voglio da subito bene, non perché dubiti della preparazione di Riccardo, ma perché ho questo istinto di protezione verso di lui che non mi molla. Il silenzio della donna lo immagino provenire da una cavità profonda e spesso inesplorata, al cui ingresso c’è scritto EMPATIA.

Sono passati quaranta minuti e Riccardo si gira: l’emozione si è appena trasformata in siccità per le sue corde vocali e chiede acqua. Dietro ci sono i suoi amici, ma io sono la prima a scattare; mi lancio per i corridoi alla ricerca di un distributore automatico e quasi perdo il sandalo, eppure riesco a tornare in maniera così veloce che, una volta a casa, darò una sbirciatina al Guinness dei Primati. Non beve subito. Gli scappa un sorriso largo condito da un: ”Grazie, prof” e io vengo sommersa dall’emozione; penso che non esiste nessun altro posto al mondo dove potrei, dovrei e vorrei essere in questo momento. Qui, ad ammirare lo sguardo di questo ragazzo gentile, che sta per svenire disidratato, ma per bere attende comunque che arrivi una pausa, in modo da non interrompere il discorso.

L’esame è appena finito e ci dirigiamo verso l’uscita. Riccardo è in piedi, dinanzi allo scalone storico. Io e i suoi amici scattiamo delle immagini a futura memoria e d’un tratto mi raggiunge. Con la cura, la precisione e l’amore di un miniatore, rulla una sigaretta. Credo sia per lui, e invece me la porge. Non può sapere che sono una fumatrice anomala e aspiro nicotina solo nelle sere in cui sorseggio del vino con gli amici, ma non ha nessuna importanza, anzi, mi sembra quasi di desiderarla. Il suo gesto premuroso mi riporta a qualche mese fa, in una serata d’inverno in cui mi è venuto a trovare e abbiamo bevuto uno Spritz, chiacchierando di tutto con una confidenza che spesso non raggiungo neanche con i miei coetanei.

Ci avviamo verso l’auto; ho una riunione di chiusura attività tra due ore e un desiderio matto di una doccia, eppure starei fino a sera a sentirlo raccontare dei suoi progetti e dei suoi sogni.

Trovo il tempo di pranzare con papà, che si intenerisce ascoltando il racconto della mia mattinata. Pensavo di aver ereditato la lacrima facile da mamma, ma capisco solo ora che la sua elevazione al quadrato proviene da una duplice genesi.

Arrivo per miracolo puntuale al lavoro e sulle scale scopro che c’è un momento dedicato alle relazioni. La prima a dover conferire sono io e davanti a me si apre il nulla eterno. Ancora una volta nella mia vita UMANI battono CARTE 20 a 0. Faccio appello a tutte le risorse residue e Riccardo mi viene in sostegno. Ho appena pescato un’immagine stimolo; ho svolto io il lavoro su cui relazionare, ho memoria, ho estro: improvviserò. Parlo per due minuti pensando a lui. Alla felicità che mi ha sempre detto di trasmettergli; a quella che mi donano loro, i miei alunni, ogni giorno. Avere figli non vuol dire solo partorirli, ci sono mille modi di essere madre.

Dal microfono invoco la parola felicità: batto sul suo diritto a risiedere nei documenti scolastici, esattamente come per la prima volta nel 1776 entrò in un documento politico.

Applaudono tutti e mi accorgo all’improvviso che ho appena sostenuto gli esami di maturità per la terza volta.

Nel 1994, stamattina e ora.

Una domanda da lontano riecheggia: “Lei è la mamma?”.

E io rispondo a gran voce: “Sì!”.

6 risposte su ““Lei è la mamma?””

Intanto complimenti, si vive ogni rigo accanto ai protagonisti, le emozioni forti della maturità si ripropongono, anche se a me sembrano sopite per vari motivi, primo tra tutti che i miei insegnanti del liceo erano cosi poco appassionati; però riemerge con prepotenza il ricordo dell’unica insegnante che mi abbia davvero segnato, anzi da adulto posso affermare che abbia con forza contribuito a ciò che sono oggi, alla costruzione del mio pensiero politico, alla formazione del mio pensiero filosofico, che mi abbia insegnato a pensare; l’unica di cui abbia sentito la mancanza, che ho cercato e rivisto anche tanti anni dopo, perché c’è un filo invisibile che ci lega a quegli insegnati che fanno breccia in noi (gli riconosciamo l’indispensabilità come ad un genitore), quelli che invocano la felicità nei documenti scolastici o ci suggeriscono le parole vietate come strumento pratico per crescere come persone, e te li porti dentro per sempre, come accadrà a Riccardo. Leggendo, Oggi ripenso alla mia prof di lettere delle scuole medie! Grazie.

Grazie mille per il tuo commento. Tutte le volte che ne ricevo uno, penso a quanta bellezza ci sia nella scrittura, che sa evocare i ricordi in una quotidianità fatta spesso di monotonia e dimenticanze. Sono sicura che anche tu sei stato “un Riccardo” per la tua insegnante; felice di averti smosso così piacevolmente la memoria.
Tu hai smosso senz’altro la mia gioia di scrivere.
Un abbraccio.

Letto e riletto con gran piacere.
Ritmo perfetto, veloce e leggero, ma immaginifico e ricco di dettagli preziosi.
Non cedi a divagazioni: non c’è una sola parola superflua: le scene ed i personaggi, pur definiti con tratti essenziali, saltano fuori dalla pagina vividi che sembra di essere lì.
Due aspetti mi hanno colpito particolarmente.
Il primo è il tema centrale: l’amore per l’insegnamento che diventa amore materno. Il racconto è una dichiarazione d’amore per il tuo lavoro e per i ragazzi che ne sono destinatari.
In questo senso sei davvero “mamma”: assistiamo alle “gesta” di Riccardo attraverso la lente deformante di un affetto dal sapore fortemente materno, che tanto ricorda le mamme che assistono all’esame dei propri “adorati pargoli”.
Il secondo, a dispetto di una insicurezza che sospetto più esibita che reale, è la carta vincente cui fai appello nel finale, quella “felicità” che riesci a trasmettere nella tua relazione e che ti consente di improvvisare raccogliendo successo, affascinando, “intortando” l’uditorio.
Ma qui giocano anche carisma e fascinazione, che sono tue caratteristiche innate.
Riletto ancora alla ricerca di qualcosa che non funzionasse.
Inutilmente.

Si può parlare insieme di capacità di analisi ed emotività? Beh, ho sempre pensato che il duo costituisse un ossimoro, ma direi che il tuo commento demolisce questa mia convinzione.
Grazie mille a te, Paolo, per queste preziosissime parole.
In debito.

Per l’ennesima volta arrivi prima…di me (ma non mi dispiace, anzi..) di quelli che vorrebbero, di quelli che si “accorgono” della bellezza delle tue parole scritte e di quelli che fanno male a non leggerle. Mi manchi, ma mi conforta “sentire” i tuoi scritti..

Non arrivo prima degli altri su quasi niente, devi essere un caso disperato 🤣 non sono sicura di aver capito chi sei, ma certamente mi manchi anche tu, lo sento leggendo le tue parole. Grazie, carnal brother ❤️

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