Il sole si è appena sollevato, e anche io.
Sono in ritardo, come accade spesso da quando ho scoperto che l’essere umano può anche procrastinare gli eventi, senza necessariamente scatenare un’invasione aliena. Avranno altro da fare quei controversi mostri dalle orecchie buffe, piuttosto che tenere sotto controllo il mio letto disfatto ed il piano cottura, in attesa che torni del suo colore originario. Al ritorno la casa sarà ancora in piedi, e anche io, che nel frattempo avrò conquistato un po’ di sano menefreghismo: per certi versi, e relegato ad alcuni contesti, è assolutamente indispensabile. Oggi entro prima in ufficio, c’è una riunione; farò comunque in modo di arrivare in tempo utile per non offendere la parola puntualità.
Stamattina “la rotonda del male” è più ingombra del solito e temo che il traffico mi inghiottirà, ma la mia curiosità vince su tutto e dirigo comunque lo sguardo nelle macchine altrui: c’è un padre nervoso e un bimbo che piange, forse non vuole andare a scuola; c’è una madre dall’aspetto trascurato con una ragazzina troppo truccata per le prime luci del mattino: non stacca gli occhi dallo schermo del suo telefonino e sarà in chat con la persona per la quale ha esagerato con il rimmel; ci sono marito e moglie che litigano – per futili motivi, immagino – e poi LUI. E’ solo in auto e ha uno sguardo impenetrabile: potremmo almeno percorrere una strada diversa per andare a lavoro… no, la sorte su questo versante non mi ha mostrato benevolenza.
Da quando le nostre scrivanie sono adiacenti, mi secca andare in ufficio. Trascorrerei tutte le giornate al mare, come -immagino- altri cinque, sei miliardi di persone. Non devo essere così originale, e non ho mai avuto la pretesa di esserlo: anche la banalità ha il suo fascino. Pertanto, oggi siederò comunque al mio posto e appena ne avrò l’occasione mostrerò le spalle a chi non ha voluto o non ha potuto farmi entrare nella sua vita; poi passerò innanzi, come in tutte le situazioni che impongono di cercare una strada alternativa.
Uso raramente la bilancia, ma i passanti del jeans mi ricordano che non sono più così esile. Pazienza, esclamo. Mi piaccio di più così, e sembra che anche gli altri condividano questa mia convinzione. Forse perché ho meno rughe e il volto appare più disteso – ho solo ricominciato a dormire – o forse perché i chili in più trasmettono allegria. Concato lo cantava in tempi non sospetti e mia sorella ne calcava il ritornello con una certa tendenziosità già quando eravamo ragazzine: ancora una volta aveva ragione. Mi soffermo a pensare ai paradossi quotidiani: la mia apoteosi di magrezza è coincisa con la mia maggiore pesantezza; oggi invece, che continuo a creare nuovi buchi alle cinture, mi sento, dopo un tempo infinito, leggera.
Calvino esaltò la leggerezza, rifuggendo l’assimilazione del suo concetto a quello di superficialità, e inoltre specificò: è l’assenza di macigni sul cuore. Come contraddire un autore di tale fama? Impossibile. Però… suvvia, siamo realisti: chi è che non reca macigni sul cuore? Forse le persone leggere sono quelle che fermano il moto perpetuo dei macigni, impediscono loro di rotolare e li pongono in un angolo ben visibile, per ricordarne l’esistenza, nel bene e nel male. I macigni si ingrandiscono lungo la via, ma nascono come granelli di sabbia; è spesso il nostro agire che contribuisce a deformarli. Per il resto la leggerezza non è superficie, concordo: potrei difatti essere un dive-master se non odiassi le bombole, le pinne e le seconde pelli. Sono dei pesi anche quelli, e io non voglio più intralci. Dive-master della terra invece suona meglio e mi riesce più congeniale.
Alla macchinetta del caffè quindi, oggi come ieri, chiederò a Luca come sta, e quando andrà in Olanda a far visita al piccolo Phil. Lo ascolterò nelle sue critiche piene di amarezza alla moglie, che gli impedisce di vedere il figlio abbastanza quanto un padre vorrebbe, e scorgerò di nuovo i suoi occhi riempirsi di lacrime al pensiero di una famiglia persa ancor prima di costituirsi. Mi fermerò anche con Clara, che chiede sempre: “Eva, hai un minuto?”. A casa sua il dialogo è inesistente e soffre di solitudine, perciò già dopo le prime battute si trasforma, in genere, in un rubinetto dalla guarnizione logora.
“Tipi da evitare” dicono in ufficio, ma io voglio essere diversa, voglio essere la pecora nera. Prima di andare in Islanda – confesso – credevo esistesse solo nelle illustrazioni di Andrea Valente. Aveva un suo fascino quella pecora che aveva viaggiato dalle montagne del Trentino al carcere di Nisida per insegnare ai ragazzi il valore incontestabile dell’utopia. Quel sogno che ci impone di continuare a cercare caparbiamente un lato positivo, pur nella apparente negatività. Un segno di speranza dunque, che non ho mai considerato nell’accezione negativa che gli attribuisce la lingua italiana. Chi è curioso sa che solo l’ignoranza iniziale degli allevatori la disprezzò; era rara invece, e dunque preziosa. Contraddizioni dei detti popolari, che se da un lato affondano le radici nella saggezza degli anziani, dall’altro si nutrono di pregiudizi. La mosca bianca, ladra di Dna e distruttrice di interi raccolti, ne è un’ulteriore conferma.
Scoprire che il personaggio tanto amato da ragazzina esiste davvero, non lo ha tuttavia privato ai miei occhi della sua unicità; come una pecora nera ascolterò, pertanto, la profusione di parole che mi investe, assumendo per un attimo le sembianze di una pattumiera. La ruota gira: in questo turno tocca a me essere riempita e non ha importanza alcuna che i destinatari dei miei rifiuti di ieri non coincidano con quelli che me li riversano addosso oggi. Se esiste una catena alimentare indispensabile alla sopravvivenza del pianeta, perché non crearne un’altra di tipo verbale, volta ad annientare le parole-spazzatura? Chi è più stabile emotivamente è giusto si prenda – per un lasso di tempo non perenne, ovvio – le preoccupazioni degli altri; prima o poi cambierà ancora ruolo, è la vita. Colui che non si presta mai a diventare rifiuto vive nell’igiene più totale, ma come farà a trovare un cestino quando gli occorrerà? Mentre la metamorfosi si compie nella mia testa e inizio a immaginarmi gocciolante di polemiche e ripugnanze di ogni tipo, m’imbatto davvero in Luca e Clara: hanno tante di quelle cose in comune che mi viene naturale consigliare loro di frequentarsi anche al di fuori di questo grigio ufficio; chissà se mi daranno retta mai: “Eva, non dire sciocchezze, abbiamo altro a cui pensare!” Perché, cosa c’è di più interessante dell’amore? Desisto.
Lui è già al suo posto, su un finto piedistallo come sempre, ma io non sono a disagio; sono arrivata puntuale ed esibisco con fierezza i cornetti che ho trovato il tempo di comprare. “C’è un motivo per questo fastidioso e assordante entusiasmo?” mi chiede; oggi però non ho voglia di rispondere. Sarei sgarbata e gli direi che l’allegria è contagiosa, ma solo per chi non rafforza il sistema immunitario a dismisura anche contro i sentimenti. Cosa voglio che ne sappia lui, che si sente Atlante pur senza averne le spalle?
La vita ieri mi ha sorpresa ancora, svelandomi un aspetto dei social che non conoscevo. Spesso mi trovo a riflettere sugli utenti di Facebook & co. e mi diverto a separare gli ossessivi compulsivi, che non hanno più neanche una goccia di tempo per la vita reale, dai guardoni finti disinteressati, che sanno tutto di tutti, e intanto non dicono niente di sé a nessuno. Per diversi motivi li catalogherei entrambi come soggetti evitabili. In serata invece, tornando a casa immersa nei miei pensieri, ho avvertito il suono di una notifica e ampliato i miei orizzonti: i social funzionano anche come riserva da cui attingere emozioni. Consentono di “rincontrare” persone sfuggite alla vista dopo decenni, e con uno scambio imprevisto ci trasportano lontano, accarezzandoci con l’idea che davvero l’improbabile possa diventare probabile. Sono illusioni il più delle volte, sia chiaro, e vanno vissute come tali, ma il cuore è un muscolo, e svegliarsi con l’organo indolenzito a causa dell’acido lattico ha un suo affascinante perché: ricorda i pericoli derivanti da una possibile atrofizzazione.
Tale scoperta mi mette in una condizione diversa oggi con Aldo: sei di passaggio, come me, come tutti gli altri, quindi perché perdere tempo prezioso a tentare di essere l’oggetto del tuo desiderio? Potremmo essere amici, magari. Qui c’è da coltivare speranze, non da raccogliere disillusioni. Ognuno ha le proprie, bastano e avanzano. Ad un amico tutto è concesso, a un futuribile compagno no. D’altronde, come dice sempre quel tizio in spiaggia quando parla della sua solitudine ormai acclarata senza celare del tutto l’amarezza: da adulti non si insegue più la perfezione, si è difatti consapevoli che non esiste; l’obiettivo è piuttosto quello di cercare, con lo stesso fervore con il quale Diogene nella sua botte rincorreva l’uomo semplice, una compatibilità di difetti. Concetto molto più abbordabile, purché non sfoci mai nell’accontentarsi.
Nella vita ho scelto più volte persone che mi depotenziavano: perché non amavano quello che amavo io, perché ero troppo espansiva o troppo pignola; troppo snob o troppo ingenua; troppo vanitosa, troppo low-profile, troppo maestrina o troppo alla ricerca di un animale da compagnia. Troppo leggera, troppo pesante, troppo indipendente, troppo sognatrice; troppo Alice, troppo loquace, troppo attaccata alla mamma, troppo malata. Ma io non sono mai stata troppo di niente. Ero e sono semplicemente me stessa. Un po’ pecora nera, un po’ mosca bianca, nei reali significati e non in quelli convenzionali: sono preziosa, ma posso anche diventare deleteria, come tutti quelli che vogliono fare, e pertanto sbagliano. Solo chi non agisce non sbaglia mai. Perciò, mentre mi accingo a salutare per sempre Aldo, mi concentro su ciò che il Fato vorrà riservarmi; se deciderà per il niente, farò in modo che questo niente diventi tutto e vada ad affiancarsi alle cose preziose che ho ricevuto sin dal mio primo vagito, e che sono molte di più di quelle che ogni essere umano speri di collezionare.
Domani andrò in campagna a cercare un’altra pecora nera; non può di certo esistere solo nell’isola che deriva il suo nome dal ghiaccio e che invece è fuoco in ogni dove. La troverò, la guarderò negli occhi e le chiederò un incantesimo: “Potenziami!”; a ben vedere, tutti meritiamo qualcuno che scorga la parte migliore e più nascosta di noi, la prenda tra le proprie braccia e la preservi, senza calpestarla mai. Altrimenti è più opportuno proseguire il viaggio da soli: non si è mai vista una pecora al guinzaglio.
4 risposte su “La pecora nera”
Immaginifico. Mi piace vedere questa storia come uno di quei disegni composti da una serie di “graffi” sul foglio, che messi insieme compongono l’affascinante fotografia di una personalità, un appassionato “This is Eva”.
La descrizione della giornata di Eva, a partire dall’uscita di casa, diventa solo il pretesto per una serrata raffica di affermazioni di principio, di dichiarazioni d’intenti, di scelte di campo. Eva rivendica con orgoglio la scelta di vivere controcorrente, da “pecora nera”: con la leggerezza di chi neutralizza i macigni sul cuore nella consapevolezza che non si possono eliminare, con il coraggio di teorizzare una “catena dell’ascolto” in cui prestare ascolto e solidarietà al prossimo sapendo che al bisogno ci sarà qualcun altro farà lo stesso con noi, con la saggezza, infine, di capire quando la ricerca non porta a nulla, ed allora occorre cambiare direzione senza troppi rimpianti.
Un’ultima osservazione: chi stabilisce la linea di confine fra “tanto” e “troppo” ? Talvolta il “tanto” è “troppo” solo per chi non riesce ad abbracciarlo.
E niente… ci sono le persone che leggono… e poi quelle che vedono e sentono ciò che leggono.
Grazie❤
:*
Lontani lontani… vicini vicini ❤