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Al posto giusto

Quando il papà di Mario ci ha lasciato, non ero con lui. Parlavo – strano a credersi – di Enea che fugge da Troia in fiamme e porta sulle spalle Anchise, ormai anziano. Ha una missione da compiere – fondare un impero – e prima che se stesso, pensa a trarre in salvo le persone che ama di più al mondo. Perde Creusa nel buio e nelle fiamme, ma salva suo padre, il passato, e Iulo, il futuro.
D’improvviso bussano alla porta dell’aula. È una persona mite e insieme rigorosa, dolce ed equilibrata: il Fato ha voluto donarmela quest’anno. Ha gli occhi velati di lacrime e il viso tirato. Non c’è bisogno di tante parole tra noi, sono più che superflue quando gli sguardi di alcune persone s’incontrano. Nella maniera delicata che le è innata, mi mette al corrente. Cosa fare? Cercare qualcosa da assegnare ai più piccoli, non perdere la calma, non piangere, ma al contempo fuggire il prima possibile al quinto livello e scegliere la cosa giusta da dire: com’è difficile in alcuni momenti! Lo faccio. Creo un’attività e gliela consegno. Saranno buoni. In questi mesi ho insegnato loro cos’è la fiducia e adesso me la restituiscono nelle vesti di un silenzio inaudito e un’osservazione delle regole fuori del comune, loro che a inizio anno le hanno evase quasi tutte. Sono molto cambiati. Forse è merito nostro o forse loro. Che importanza ha? Nessuna.
Ho il tempo di recarmi dove vorrei essere, e dove è giusto che stia. Mi lancio per le scale, e incrocio Mario in fuga dalla madre, ambasciatrice della notizia tanto temuta quanto odiata. È una foglia in autunno che sull’albero barcolla. Ungaretti non deve aver pensato solo ai soldati quando scrisse “quella” poesia. Forse qualche suo compagno aveva perso il padre da poco. Chissà.
Il mio alunno ha occhi blu come il mare, ma inondati di lacrime. Lo abbraccio forte. In questi momenti non esistono parole, ma è pur vero che tutti noi nasciamo programmati per qualcosa; nella mia mente devono aver instillato le parole ancor prima dei pensieri. Pronuncio frasi che non ricordo. Mario continua a tremare e lo accompagno dai suoi amici. Sapranno stargli vicino, loro. Non entra in classe con me. Deve respirare. In tempi maledetti come questi, l’ossigeno è divenuto ancora più vitale e qui non siamo nella foresta amazzonica. Lo lascio tra le braccia di Luca che ci ha raggiunti ed entro in aula. I ragazzi sono felici. Ridono, scherzano, giocano gioiosi a Kahoot in lingua inglese. Si paralizzano quando mi vedono, e dalle retrovie Daniela esclama con voce impaurita: “Perché sta piangendo, prof.?”. Faccio finta di non aver sentito e prendo tempo, sospiro. Poi capisco che tocca a me comunicare, come quando mamma a diciotto anni mi annunciò che Francesca non c’era più. Me lo disse così, con quello sguardo dolce che forse ho ereditato; lo sguardo di chi, se potesse, si teletrasporterebbe in un’altra dimensione, portando via sua figlia, leggera, con lei. Una dimensione dove il male non esiste.
Abbasso lo sguardo e poi lo rialzo. Non vedo i ragazzi; sono troppo occupata a cercare un modo indolore – esiste? – con il quale condividere la notizia. E allora lo dico: “Il padre di Mario non c’è piú”. C’è un annichilimento generale. Nessuno fiata, persino i ragazzi che hanno riso per tutto l’anno e che hanno collezionato rapporti disciplinari alla stregua di un incallito filatelista.
Mario rientra in classe e lo lascio in buone mani. Vorrei tanto restare, ma ci sono i più piccoli da accudire. Torno da loro e qualcuno ancora ingenuo mi chiede, tra lo sdegno malcelato degli altri, se e perchè io stia piangendo. Non rispondo.
Giovanni, che per stazza e bontà sembra la reincarnazione di Babbo Natale più che un collaboratore scolastico, mi regala dei preziosissimi minuti e suona in anticipo la campanella. Mi consentiranno di tornare velocemente al mio posto. Rientro e miro dritta alla meta. La classe è allagata di lacrime e i ragazzi stanno naufragando; qualcuno in maniera sobria, qualcun altro platealmente, qualcuno da solo, trascinato via da vecchi pensieri altrettanto molesti. Quando i dolori si sommano – si sa – arrecano ancora più sofferenza. “Hanno solo tredici anni, non è giusto!”, penso mentre mi dirigo verso Mario.
È in piedi nel giardino e guarda l’orizzonte in direzione del mare. Nessuno si avvicina. È così il dolore: crea una sorta di barriera attorno a noi; le persone ne hanno paura, ma io ora lo conosco meglio, ho le armi per affrontarlo. Appoggio dunque la mia testa sulla sua spalla e aspetto che parli. Il primo pensiero è per la madre. Forse crede di dover essere lui ora l’uomo di casa. Forse vorrebbe scappare. Forse pensa che domani si sveglierà e spererà di aver sognato tutto. “Non è possibile, amore mio. Ma sopravvivere si può, te lo prometto”.
Li guardo fuori scuola. Sono così stretti che non si capisce bene dove inizi uno e dove finisca l’altro. Mi si stringe il cuore e penso al contempo che non assistevo ad una scena così piena di amore da un’eternità.
La chiesa è gremita. Vedo una donna bellissima che piange e che resiste. Mi ricorda la dignità di mia sorella. Mario ha dormito da un amico, e anche ora siede ad un altro banco. Quanto siamo teneri quando in tutti i modi cerchiamo di allontanare il turbamento! Stolti. Non possiamo sapere – lo scopriremo solo dopo – che ci raggiungerà comunque, e che l’unico modo per sconfiggerlo è affrontarlo il prima possibile. Ma tredici anni sono tredici anni. Io non ho ancora capito come si vince questa battaglia, perché dovrebbe saperlo lui? Il suo papà era davvero bello: la foto sulla bara parla. Ora capisco da dove proviene quello sguardo malinconico e quella delicatezza di gesti e di toni che gli appartengono.
Sono fortunata. Sono seduta vicino alla stessa persona che mi ha comunicato la notizia, mi sento al sicuro quando sono vicino a lei. Recitiamo una preghiera mano nella mano e io so con certezza ancora una volta che amerò sempre di più le persone che preferiscono i fatti alle parole. Che non adducono milioni di scuse per non esserci, ma che semplicemente ci sono. Ti giri e te le ritrovi a fianco.
Il tabernacolo è stato chiuso e tra un poco ci saluteremo. Sento la presenza di mia madre più forte che mai; domani andrò a trovarla per chiederle di guidare Antonio nel suo viaggio verso l’infinito.
Dall’ambone si levano parole armoniose: mi fanno percepire la grandezza di un uomo che ho conosciuto solo attraverso i movimenti fragili di suo figlio.
I ragazzi sono pochi: ne conto uno, due, tre. Chissà perché non sono qui, glielo avevo raccomandato tanto.
Una volta a casa, scrivo a Manila. Non ho intenzione di rimproverarla per l’assenza. Vorrei solo assicurarmi non dimentichino che “oggi è finito il tempo della speranza, e deve iniziare quello della vicinanza”. La ragazza dalle mille risorse e gli occhi vispi e grandi da cerbiatto, mi riferisce della partita di Mario a cui parteciperanno nel pomeriggio, e di una pizza in serata. Immagino con speranza che tutti, in quella speciale occasione, lasceranno il cellulare a casa: le loro mani serviranno solo ad accarezzare il compagno ferito.
Sono molto stanca stasera e ho pacchi interi di temi da correggere. Il Covid ha spiazzato i miei programmi e sono in ritardo con le consegne. Tuttavia, non ho desiderio di vedere i miei amici, nè di lavorare. Chiamo papà con il senso di colpa di chi è adulto e un genitore lo ha ancora. Andiamo a cena fuori stasera. Come piace a noi. Chi dice che il sabato sera debba essere trascorso facendo baldoria? Magari era sabato anche il giorno in cui Anchise venne accolto sulle spalle di Enea.
Mario è in pizzeria con i suoi amici stasera, e io col mio papà in trattoria: direi che siamo tutti al posto giusto.
Sono le due e sto scrivendo ancora.
È tardi, ma ho fissi nella mente i suoi occhi color cobalto, velati di lacrime.
Domattina si parte presto. Quando tornerò dalla costiera, gli dirò che un angelo ha accolto Antonio, e che io sono perennemente in comunicazione con entrambi, così se avrà bisogno di sentirlo più vicino, non dovrà far altro che digitare il mio numero e chiedermi di lui. Dall’altra parte del telefono gli risponderanno tre voci: la mia, quella della mia mamma, e quella del suo papà.
Tutti, ancora una volta, al posto giusto.

2 risposte su “Al posto giusto”

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