Per una lunga frazione della mia vita ho amato profondamente il calcio. Non ho fratelli, e mi piaceva a quei tempi essere il figlio maschio di mio padre, con il quale mi trovavo spesso a discorrere, tra l’ignoranza generale di una famiglia composta da sole donne, delle regole del fuorigioco e di punizioni e penalty non concessi per umane distrazioni arbitrali. Allora esisteva solo la moviola post partita ed era quasi poetico protestare per quel fallo fuori o dentro l’area che, anche se conclamato, non avrebbe di certo cambiato il risultato di una partita.
Era l’epoca di “Tutto il calcio minuto per minuto”, della voce carezzevole di Bruno Pizzul e di quella, assai elegante e mai sopra le righe, di Carlo Nesti. Era il tempo in cui non si faceva fatica a memorizzare i nomi dei calciatori in campionato, perché di stranieri in squadra ne erano ammessi al massimo tre, e dunque lo sforzo era ragionevole e limitato. All’epoca ero romantica, come talvolta ancora sono, e il calcio mi pareva il gioco di squadra per antonomasia, io che ho sempre praticato la palla a volo e che di quest’ultima seguivo poco o niente. Il rettangolo verde, invece, mi stregava, e allo stesso tempo i suoi protagonisti. Chi mi conosceva bene a quel tempo sa che mi ero avvicinata al “gioco degli 11” esclusivamente per un vezzo di ragazzina; credevo seriamente di essere innamorata di Gianluca Vialli, dei suoi ricci fluenti e del suo modo di parlare, compìto e formalmente corretto, molto distante dai mugugni di tanti giocatori del tempo e -ahimè- contemporanei.
Ho sempre avuto una fissazione spiccata per le parole, e ad alcuni miei alunni che trascurano la scuola per ambire a diventare il Totti di turno, raccomando spesso: “Se diventerai famoso, ti prego di non dire mai nelle interviste che ero la tua insegnante di italiano, capito?”. “Ma perché, prof.?”. “Tu non dirlo e basta!”.
Erano anni in cui obbligavo il mio papà a macinare chilometri per questo o quell’allenamento; per questa o quella partita… quanta pazienza al volante mentre fastidiosissime sedicenni parlavano di “cose da uomini” e veneravano autografi destinati quanto prima alla teca perché innaffiati di pioggia. Tuttavia non gli ho mai sentito proferire una critica o un lamento; si divertiva, piuttosto, mio padre: martire ante-litteram.
Erano anni di radioline portatili, di telecronache solo ascoltate, e di attese lunghissime di quel momento in cui le orecchie avrebbero finalmente passato il testimone agli occhi. Per me il calcio era musica; era Italia’90; erano Gianna Nannini e Bennato; era l’opportunismo di Schillaci, la grazia del “principe”, l’infallibilità di Baresi, libero per ruolo e anche dagli avversari, che dribblava come non ho mai più visto fare a nessuno; era la faccia seria e al contempo delusa di Azeglio Vicini. Che ribrezzo pensare alla vincitrice di allora, quella Germania che ancora si chiamava Ovest, mentre il muro dei muri lasciava il posto alla speranza che non ne avremmo mai sollevato un altro. Quante illusioni davanti a quello schermo!
Oggi il calcio si chiama anche Qatar. Un minuscolo stato di cui negli anni ’90 probabilmente ignoravo persino l’esistenza. Un territorio poco più grande dell’Abruzzo, ma con uno dei Pil pro-capite più alti al mondo; un piccolo emirato ai cui fondi di investimento piace anche l’Italia, tanto da acquisirne il marchio Valentino, la compagnia di volo Meridiana e gli alberghi più sfarzosi della Costa Smeralda. Un paese minuscolo che viveva di ostriche e che possiede le sole cose oggi indispensabili -così pare- al mondo: il gas e il petrolio. Un puntino sulla carta geografica che organizza i mondiali di calcio e balza alle cronache per presunte tangenti volte ad ottenerne l’assegnazione; che col suo clima proibitivo sposta addirittura le stagioni, come se il riscaldamento globale non bastasse già di per sé; e che schiavizza, sottraendo loro finanche i passaporti, i lavoratori stranieri intenti a costruire i nuovi templi del calcio. Il risultato è eccezionale: uno stadio che prende la forma delle vele delle imbarcazioni atte a pescare le perle, o forse, più semplicemente, quella di una vagina. Sarà colpa della pareidolia, ma d’altronde come non celebrare la fecondità delle donne in un paese che esalta tutti i giorni i diritti umani femminili, negandoli in un “sistema di tutela maschile”? Vai con la fiera dei paradossi, e già che ci siamo: neghiamola la fascia coi colori dell’arcobaleno; violiamolo qualche altro diritto civile, perché solo quelli delle donne son pochi; calpestiamo i gusti sessuali e le minoranze, tanto abbiamo una scritta per tutte sul braccio: No discrimination, che tradotto significa letteralmente: Ipocrisia.
Con buona pace dei miei connazionali e dei tifosi del calcio italiano in ogni dove, dico con convinzione: sono felice che l’Italia sia la grande esclusa di questa competizione, che non partecipi. Temo sarebbe stata la prima a non indossare i colori dell’arcobaleno, e quanto imbarazzo avrei provato nel leggere sui bicipiti dei nostri calciatori: “Sposiamoci tutti, ma solo in chiesa però!”.
Amore e odio di quello che per me era una volta il calcio.
7 risposte su “Qatar 2022”
Quanta verità in queste parole sull’attuale calcio e…. quanta nostalgia per quegli anni ’90, in cui ero con te a parlare anche del “mio” amore Baggio!!
Tizy… prima ragazzine e ormai adulte… sognatrici mai disilluse! Ti abbraccio forte forte
Che bei ricordi, il diario -enciclopedia , il Guerin Sportivo, Luca!!!! Allora era ancora tutto più contenuto ,più degli anni precedenti ,ma sicuramente meno di quelli attuali!!! Siamo riusciti a rovinare anche uno sport che aggregava ed emozionava!!
I ricordi… quelli restano più vivi che mai!
Uah, Ale! Il Guerin Sportivo! Ti ricordi quando scrissi a Maurizio Mosca per insultarlo perchè aveva offeso Vialli? Follie follissime, ma dolcissime da ricordare ❤
l’Italia e il Quatar sono solo tappe della diffusione del grande imbroglio : presentare una faccia pulita da cui guai a sollevare il velo pietoso.
La bellezza nutre tutti i cuori ma quelli giovani , per fortuna , non hanno interesse a svelarla.
Qatar