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Fiabe

Riconversione

C’era una volta un velo. Era convinto di essere nato per proteggere le donne dalla malasorte e augurare loro un sorridente destino, tuttavia man mano che trascorrevano gli anni e viaggiava, iniziava a dubitare dei motivi della sua creazione. In principio era talmente leggero e sottile che lo chiamavano “tessuto di vento” ed era così orgoglioso di questo soprannome che iniziò a gongolarsi. Qualcuno pensò che fosse superbo; lui, invece, semplicemente amava assumere i colori delle fiamme e mostrarsi giallo, rosso, arancione, senza ritegno. Perché averne? “Perchéééé?! Non erano quelli, forse, i colori dell’imbarazzo, dell’ira, delle bugie?” lo rimproveravano gli altri indumenti, invidiosi.

Il velo non se ne curava tanto. Era bello, elegante e col passar del tempo divenne sempre più ornamentale, cingendo il capo delle sacerdotesse, delle imperatrici e delle spose. Fu ad un certo punto però che l’invidia prevalse e il mondo lo privò dei colori. “È destinato alle spose” – dicevano – “deve essere bianco, come la purezza, come la castità, come la Vergine”. Al velo dunque furono sottratte le fiamme. A lui non piaceva essere bianco, a dire il vero. Si sentiva più a suo agio sfiorando l’arcobaleno, era decisamente più in linea con il suo umore: sempre allegro, sempre propositivo. Ma non si lasciò turbare da quel destino avverso: niente doveva scalfire il suo messaggio originario. Continuava a sorridere a denti aperti, dunque. Lo si vedeva rigido solo quando spirava forte il vento, ma in quei casi, con un filo di voce sottile come la prima stoffa in cui era stato generato, consigliava alle donne di legarlo stretto, e in tal modo restava a loro avviluppato.

Un giorno una di loro, malauguratamente, non seguì il suo consiglio e il velo si snodò. Attraversò continenti, regioni e città, fino a toccarne una che si raccontava fosse la figlia dell’antica Persia, terra di leggende e di tessuti preziosi. Aveva viaggiato tanto però, troppo. Aveva strisciato per terra; era finito in fessure strettissime dalle quali si era miracolosamente salvato senza strapparsi, e le persone, a furia di tirarlo cercando di recuperarlo, lo avevano trasformato. Quando si fermò era nero e non si piaceva; pare che non si specchiasse neanche più, perché di tutti i colori del mondo il nero era quello che aveva sempre detestato. “Va d’accordo con ogni altra tinta, è vero, ma quanti presagi funesti e quante lacrime vedo nella porta delle immagini”.

Tale porta era un uscio sul mondo che il velo apriva con un soffio tutte le volte che non riusciva, con la sua sola inventiva, ad avere una rappresentazione della realtà. Fino a quel momento non gli si erano mai parate dinanzi immagini drammatiche, ma ciò che vide quel giorno lo impaurì. Si vergognava, certo, dell’aspetto che aveva, ma non era quello che lo turbava nel profondo. Avvertiva uno strano presentimento. Era come se in quel viaggio avesse perso il significato della propria genesi; sentiva di averne assunto un altro, ma non riusciva a indovinare quale. Chiese allora maggiori dettagli alla porta delle immagini, che gli restituì figure violente di guerre, di prepotenze, di usurpazioni. Nella porta vedeva sé stesso nelle mani di uomini con i volti cupi e seri, che con la forza costringevano donne impaurite e silenziose ad indossarlo. A chi non ubbidiva… “Basta, non voglio più guardare! Se sono così letale, scapperò. Andrò via, tornerò da dove sono venuto, scomparirò. Devo solo riprendere il mio viaggio e riapparire in posti dove posso essere di aiuto, non nuocere!”.

Fu così che si incamminò. Volava di nascosto, sotto le porte, attraverso le finestre. Diventava piccolo piccolo e quando passava accanto alle donne era fortunato: guardavano sempre da un’altra parte. Poi un giorno si ammalò; era troppo stanco e affaticato e aveva la febbre alta, doveva fermarsi. Si accasciò per terra senza volerlo e quando riprese conoscenza, disse fra sé e sé: “Ancora un pochino e riprenderò il mio viaggio”, ma una ragazza lo notò.

Era bella, di una bellezza mediterranea; si accompagnava ai genitori e al fratello. Era curiosa, tanto. E ribelle, tantissimo, lo dicevano i suoi occhi, neri come la pece. Mahsa raccolse il velo e lo indossò. Aveva capelli voluminosi e fluenti, che il velo non seppe e non volle contenere: perché mai coprire tanta bellezza? Aveva già dimenticato le immagini mostrategli dalla porta. Le si accomodò intorno al capo in maniera disordinata, capricciosa e bizzarra, se rapportata a quella delle donne intorno a lei. Fu in quel preciso istante che arrivarono degli uomini in divisa. La accusarono di non conoscere le regole di quella terra, di non essere realmente “fedele”, di non avere rispetto per i propri fratelli e per Allah. Mahsa era confusa: cosa aveva fatto di così grave? In fondo era in vacanza nella capitale, lei che veniva dalla provincia e voleva solo conoscere, vedere, toccare, ammirare i fasti di un antico regno. Le venne in mente quel poliziotto thailandese che, tanti anni prima, aveva sequestrato la macchina fotografica alla cugina perché aveva osato schernire una statua di Buddha acefala. Hadis aveva posizionato la propria testa sul corpo della statua: atto impensabile, abominio, sacrilegio: il militare le aveva aperto l’apparecchio e lasciato bruciare la pellicola, così da essere sicuro che l’offesa non si perpetuasse. Ma lei, a differenza della cugina, non aveva con sé macchine fotografiche; non c’erano pellicole da bruciare, non era Buddha il dio ferito. Si strinse il velo intorno a sé, rassegnata. “Meglio fare come dicono, seguirli al centro di detenzione – la sola parola mi mette angoscia –  e frequentare un’ora quel corso sul corretto posizionamento del hijab. Questa è polizia morale, già il nome mi mette a disagio, non sia mai che…  Ci sono altre donne, bene, non sono l’unica che sfoggia un abbigliamento inappropriato. Ci tratterranno poco, avranno famiglie a cui tornare, bambini da abbracciare…”

Mahsa però non uscì. I genitori la attendevano e anche il fratello, ma non arrivava mai. La polizia disse che era stata trasferita in ospedale perché aveva accusato un malore, una ragazza di ventidue anni in piena salute, che strano! Altre attese, altri tormenti, altre paure. Mahsa non tornò mai più. Il velo piangeva mentre le si stringeva al collo, cercando di coprirne i lividi. Avevano provato ad usarlo per farle del male, ma lui era divenuto rigido, compatto, inafferrabile. Allora avevano usato le mani, picchiando forte. Lui aveva tentato di librarsi in cielo e le guardie si erano spaventate; lo avevano perciò tagliato, spezzettato, distrutto. I suoi brandelli erano infine caduti sul corpo straziato della ragazza. “Ora così forse imparerà a usarlo bene, le servirà al cospetto di Allah!”, ridevano.

Il velo invece piangeva. Stava per lasciare questo mondo, ma fece in tempo ad aprire un’ultima volta la porta delle immagini: apparve Mahsa, viva, con una luce strana negli occhi e uno sguardo intrepido, sprezzante. Aveva il sorriso un po’ amaro delle persone che hanno perso qualcosa di prezioso, e in memoria di quel qualcosa intraprendono la più pericolosa delle battaglie. Le sue mani erano nere, come quelle di chi scava in miniere profondissime, e dalle cavità oscure di elementi insabbiati e preziosità nascoste, trae alla luce una pepita d’oro: la verità. Apparve allora, alle sue spalle, un’altra immagine. Il velo, nel suo residuo afflato di vita, osservò: vide tante donne che strappavano i suoi fratelli; le vide fiere e orgogliose di questo gesto; le vide rabbiose, le vide combattenti. Scorse i suoi fratelli volare via; ammirò le spose felici a volto scoperto; vide le donne, finalmente libere, incontrare lo sguardo di chi desideravano, e infine osservò tutti i veli raccolti davanti ad una fabbrica.

L’insegna recava la scritta: RICONVERSIONE. Si affacciò e capì: la religione non c’entrava nulla; i suoi fratelli erano in fila, felici di andare incontro al proprio destino. Si ricompose miracolosamente e si posizionò accanto a loro. Destinazione: annientamento e riconversione. Avrebbero perso la loro forma originaria, sarebbero scomparsi a favore di figure astratte, colorate, indefinibili, impalpabili, come talvolta riescono ad essere soltanto i sogni.

“Se smettiamo di desiderarla, non esisterà mai una realtà migliore. Tutti quelli che lottano per cercarla, la stanno già realizzando”, disse a gran voce il velo, mentre, a testa alta, si apprestava a fare il suo ingresso nella catena di montaggio.

6 risposte su “Riconversione”

Il mio commento?? Fiera di scriverlo: credo di essere una donna fortunata … perché un pezzetto di cuore della meravigliosa donna che scrive è anche mio❤️

Una storia meravigliosa, ma al tempo stesso toccante,che racconta una verità orribile,che noi spesso ignoriamo. Manu mi hai fatto venire i brividi!!!🧡🧡🧡🧡

Grazie, Tizy. Felice di averti fatto emozionare, oggi come ieri, e come domani ❤

Questa storia è bellissima, emana magia da ogni parola.
E’ magica la metamorfosi del velo nel tempo, e la metamorfosi del suo significato, fino a quello tragico dei nostri giorni.
E’ magia l’invenzione della “porta delle immagini” ed è toccante il racconto delle fine di Masha, impressionante per la delicatezza e la dolcezza con cui riesci a narrare le cose più truci senza che esse perdano tragicità e forza.
La frase finale: “Se smettiamo di desiderarla, non esisterà mai una realtà migliore. Tutti quelli che lottano per cercarla, la stanno già realizzando” merita una “standing ovation”: è bella, ben costruita ed esprime in due righi verità ed utopia, realismo e sogno, consapevolezza delle difficoltà e voglia di vivere con ottimismo e speranza.
Davvero Wonder Writer!

Francy… da quando ti conosco ho dovuto fare incetta, ancor di più, di fazzolettini. Grazie a te per essere uno dei miei più assidui lettori e soprattutto per non esimerti mai dalle critiche. Anche se per la delicatezza a te connaturata non le hai pubblicate, quelle valgono quanto i complimenti, anzi di più, perché – costruttive come le tue -forniscono una misura dell’autenticità delle persone e dei rapporti che ne derivano. Un abbraccio forte ❤

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