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Andiamo in bicicletta!

Sono appena rinato, ho 6 anni e sono poco più alto di una sedia bassa. Non so perché sia stato rispedito qui, devo essermi comportato male nella mia vita precedente se mi hanno obbligato a “riesistere”. Mi sono svegliato di soprassalto e, a piedi nudi, ho attraversato un lungo corridoio che mi ha portato in cucina: c’è una luce fortissima e fastidiosa al neon, che rende artificiale ogni cosa; chissà chi c’è in casa e perché la tiene accesa durante la notte. Deve essere una persona che ha paura del buio più di me che sono un bambino. Vado fuori ed esploro il balcone: è grande, spazioso e affaccia nel verde; com’è alto da qui… o sono io che sono troppo piccolo? Non sono abituato ad essere così; durante i miei ultimi giorni avevo un corpo molto più lungo e ora mi devo adattare, faccio fatica a reggere l’equilibrio e sono appena inciampato in un attrezzo abbandonato in un angolo. Un piccolo rigolo di sangue mi scorre per il ginocchio, ma non piango mica! Sono stato anche grande, mi fa strano tornare a essere un moccioso.

La ragazza che arriva è preoccupata, o almeno così sembra dalla velocità con cui è piombata qui; invece no, è solo arrabbiata e mi disinfetta senza neanche una carezza. Sento il suo livore scendere su di me, deve essere nervosa per qualcosa. Speriamo non sia la mia nuova mamma, ma solo una persona di passaggio, così non sarò costretto a vederla tutti i giorni. Il ginocchio ha smesso di sanguinare e rientro in cucina. È sorto il sole e finalmente vedo le cose con i loro veri colori. C’è in bella vista un mazzo di tulipani di legno, rossi come la cucina: sorridono, ma sembrano abbandonati. Chi ha detto che solo ai fiori veri occorre l’acqua?

Il mio nome è Francesco, un nome lungo lungo, di quelli importanti, che sa di signori anziani vestiti di bianco con le braccia aperte, di lupi ammansiti e di astri lucenti divenuti fratelli. Non c’è nessun altro in casa, e dunque credo che la mia paura sia già realtà: questa ragazza con i capelli biondi, dalla voce stridula e dai modi bruschi è mia madre. Chissà quanti anni ha; non ricorda neanche lontanamente la mia precedente: bruna, le fossette alle guance e gli occhi che sorridevano. Perché siamo soli? Ah, ecco, la porta. È un signore altissimo, sembra me negli ultimi ricordi, ma ha lo sguardo infastidito; viene verso di noi e mi accarezza i capelli, per poi lanciare un’occhiata di sufficienza a sua moglie, quasi a dirle: “Come vorrei che scomparissi!”. Speriamo non vada subito via, non mi sento al sicuro con lei. È agitata e parla del pranzo; dice che papà (sarà mio padre?) non le dà mai una mano in casa e che pensa solo a svignarsela… non ricordo bene cosa significhi questo termine; ero un uomo colto, questo lo so, ma devono avermi cancellato parte della memoria. Lei sta alzando la voce e io, di riflesso, vado a nascondermi sotto al letto. Sento sprazzi di conversazione. Lui l’ammonisce: l’ultima volta che hanno perso le staffe io ero con loro; ho iniziato a tossire in seguito alle urla, come se le sentissi scendere lungo la gola, e poi ho balbettato per due mesi, forse tre; ho faticato a lungo per ricominciare a parlare in maniera fluente. Lei si zittisce.

Oggi è già domani e sto svolgendo i compiti. Non riesco a scrivere bene le p in corsivo, e neanche il numero 7. Sono distratto e penso alle parole che cominciano con la p: me ne vengono in mente alcune, ma nessuna mi fa sorridere, tranne l’ultima. PRESTO. “Fai presto, hai capito che ti devi muovere, sembri un cretino!”. PAURA. La paura che sento appena sbaglio.

PANICO. La sensazione che provo quando alza la mano per sgridarmi. PRESUNZIONE. Magari crede di essere una buona madre.

PORTA. Il desiderio di sgattaiolare fuori insieme a quell’uomo che sembra buono, e correre via di qua.

PAZIENZA. Quella che ha la mia maestra, una signora dalle mani rugose ma delicate, i capelli corti sempre in ordine e profumati, lo sguardo triste e insieme profondamente dolce.

Lei mi fa alzare quando voglio, dice che i bimbi sono tele bianche, e se le colori con le tinte giuste prendono la forma di un’opera d’arte. Ieri ho riempito con lei una paginetta di numeri 7 perfetti, tutti morbidi nonostante le linee rigide, ed ero felice perché mamma mi controlla sempre i quaderni una volta a casa, e si irrita se trova qualcosa che non va. Oggi sarà felice dunque, c’è un BRAVISSIMO in bella mostra. Invece no; lo guarda con noncuranza e mi ordina di riempire un’altra pagina di 7. Ha lo sguardo severo e un tono cattivo: dice che sono seduto male. Mi mette dritto e a me fa male il piede, deve avermelo torto per assecondare la sua concezione di posizione perfetta. La maestra invece, quando mi vede stanco, mi lascia sedere come voglio, e dice che io sono iperfren… ipercon… ah, ipercinetico, ecco cosa dice alla sua collega dai capelli rossi. Se la guardo impensierito mi sorride: “Francy, perché fai quella faccia lì? Mica è una parolaccia! Guarda che gli esseri umani sono tutti diversi, e meno male! Ognuno impara alla propria maniera: le intelligenze sono multiple e tu hai la più esuberante di tutte! Quella dei bambini che imparano in movimento; quella di chi non conosce stasi; quella di chi ha bisogno di muoversi continuamente ma che non dà fastidio agli altri; quella che nelle passeggiate su e giù per la classe fonda la conoscenza! Ripetimi la filastrocca che avevo assegnato, dai! Certo che puoi camminare mentre la reciti: la memoria è tua, la conosci meglio di qualunque altro, solo tu sai il modo in cui può rendere al massimo!”.

Termino la poesia di Gianni Rodari e i miei compagni mi applaudono. Col pensiero divento un front-man che ha appena conquistato il palco, ma questa sensazione dura pochissimo; quasi nello stesso momento mi arriva infatti un ceffone perché sono distratto, e torno subito alla realtà! Ero per un attimo quel cantante con la faccia strana che c’era ieri in TV… Damiano mi pare si chiami, faceva ballare tutti, ma forse a mamma non piace. Dice che sono lento, TROPPO lento, che sono assente, TROPPO assente; che sono incapace o forse deficiente, e che vorrebbe capire perché a scuola scrivo bene le p, e i miei 7 non sembrano le gambe storte della signora del piano di sotto.

Non ha le gambe storte la signora del piano di sotto! Profuma di buono, come la mia maestra, e in ascensore mi chiede sempre qual è la cosa più bella che mi sia successa fino a quel momento. Dice che gli eventi piacevoli tendono a essere dimenticati più velocemente di quelli spiacevoli e che quindi dobbiamo esercitarci a ricordarli. Una volta siamo rimasti chiusi insieme in ascensore e mi sono spaventato tantissimo perché mamma mi raccomanda sempre di salire a piedi se non sono con lei, e allora ho iniziato a piangere: le avevo disubbidito. La signora si è seduta per terra e mi ha chiesto di imitarla; avevo bisogno di muovermi e respiravo a stento, ma spazio non ce n’era e allora si è stesa con le gambe all’aria e ha iniziato a far finta di andare in bicicletta, ha detto proprio così : “Andiamo in bicicletta, Francy!”. Dopo due minuti ero steso anche io di fianco a lei; ero su due ruote e non la smettevo più di ridere, tanto che quando l’ascensore è ripartito avevo dimenticato che si fosse fermato e non volevo più scendere. Lei ha colto nei miei occhi qualcosa e sulla soglia mi ha detto: “Vai, amore, non sarà mica la casa delle streghe?”. Io sono rimasto muto.

Mamma oggi pomeriggio ha meno pazienza del solito. Sto sbagliando le m in corsivo e vado via col pensiero. Parole con la m. MAMMA. La mia vorrei che fosse la signora con le finte gambe storte. MAESTRA. Anche lei gradirei che fosse la mia mamma.

MUSICA. Mi rasserena quando arriva papà a casa e, dopo aver posato le chiavi sulla mensola, chiede ad una voce metallica di lanciare nell’aria le note di un certo Jaz, o Gezz, o Jaze, non so come si scrive, in fondo ho pur sempre 6 anni, anche se è la mia seconda vita. MISTERO. Quello di non sapere perché ci sono ragazze come questa qua che non ci vogliono bene. A noi figli, intendo. Non posso essere l’unico bambino che non viene baciato mai, anche se a volte mi viene il dubbio che sia così perchè lo vedo fare a tutte le mamme dei miei compagni quando oltrepassano il cancello di scuola. Tranne alla mia.

Ecco, lo sapevo. Ho avuto un ceffone, l’ho fatto ancora. Mi sono mosso, sono cretino davvero, allora! Sono nato buffone! Mamma però ha un anello e mi ha colpito la tempia, ho paura, vedo tutto rosso. Le faccio bene le m, te lo prometto, scusami. Non mi muovo più.

Oggi la signora dalle finte gambe storte non mi sgancia gli occhi di dosso. Mi lancia la solita domanda e non rispondo, vorrei piuttosto dirle che ha ragione a sostenere che le cose spiacevoli si ricordano più facilmente di quelle piacevoli. Mi chiede se può venire da noi perché ha dimenticato di comprare lo zucchero, ma mamma le sbatte la porta quasi sul muso.

Sono due giorni che papà non torna e io ho ricominciato a balbettare. Mi tremano le mani, e i numeri e le lettere mi sono ostili, ma provo in tutti i modi a comporli bene, senza successo. Le urla arrivano in cielo e qualcuno bussa d’improvviso alla porta. E’ sera e mamma non vuole aprire, così resto immobile ad aspettare che la smettano, ma insistono: devono dare per scontato che ci sia qualcuno in casa. Alla fine è costretta ad aprire: sull’uscio appaiono due signori vestiti nello stesso modo, hanno una faccia che ho già visto sul mio libro di fiabe e sono in piedi accanto alla signora dalle finte gambe storte. Non so perché, ma d’istinto le corro in braccio e le chiedo di portarmi in bicicletta, finta o vera che sia. Ho il segno del tridente di una forchetta impresso sulla mano, ma non sento più dolore; ho sbagliato di fila le m, le p e i 7 stasera, me lo meritavo.

Mamma non urla più, non so cosa le stiano dicendo quei due omoni. La signora dalle finte gambe storte mi tranquillizza: non devo preoccuparmi, mi ha comprato una bicicletta vera e posso provarla in cortile sul retro, se mi va. Oggi, domani, e anche domani l’altro. Allora la seguo. Ho il pigiamino di Peppa Pig e ci sono disegnate due mamme. Hanno il viso sereno e sembrano felici di accudire il loro piccolo che svolge i compiti. Lui ha una gamba penzoloni e questa immagine mi comunica movimento, ma non c’è nessuno che lo rimprovera: beato lui!

Forse da domani divento fortunato anche io, divento intelligente anche io, ricevo baci anche io. Forsemisonovenutiasalvare! Sorrido: l’ho detto tutto d’un fiato ad alta voce, senza balbettare.

A tutti i bambini. Che posto meraviglioso sarebbe la Terra se a comandare fossero loro.

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Meglio soli?

“Ma questa tizia da quale pianeta proviene? Qualcuno le spieghi per favore che non è salutare rimuovere la tristezza e che bisogna smettere di rivolgere la parola a cani e porci. La conosco appena e sono qui in sua compagnia solo perché è discretamente attraente, ma sono entrato a pagare la bottiglia di vino che ha bevuto quasi per intero da sola, e la osservo di profilo parlare. Con chi – mi chiedo – se siamo usciti solo noi due? Temo di essere appena incappato nell’ennesima psicopatica, quando – perplesso – la raggiungo, e no, non parla da sola… un passante che abita nel palazzo di lato al nostro tavolino, uno dei tanti che costella il suolo pubblico di una città che non dorme mai, si è fermato a chiacchierare con lei e pare che, insieme al cane che ha al guinzaglio, penda dalle sue labbra. Non si conoscono, capisco dopo, ma sembrano amici secolari. Sento odore di pericolo, o forse di fastidio, ancora non ho ben chiaro cosa. Intanto andiamo via e sulla strada verso il motorino la bacio. Mi piace, è bella, e poi stasera non ho niente di meglio da fare”.

“Ma cosa turba esattamente questo tipo qua? Ha occhi profondissimi che mi hanno attratta subito, quella sera che mi ha travolta con una spallata e mi ha chiesto scusa un attimo dopo, con una naturale gentilezza che pare già aver dimenticato… Quanto è bello questo cane, diamine! Mi fissa da quasi un minuto e non risponde ai richiami del padrone, che è dunque costretto a uscire nuovamente dal portone già valicato. Segue la traiettoria dello sguardo di Ralph, lo sento chiamare, e si ferma. Mi chiede, incuriosito, che cane io abbia, solo che io non ne ho mai posseduto uno. Indugio su questo particolare che mi incuriosisce, e nel frattempo lui mi ha raggiunta. Ha uno sguardo che non so interpretare, d’altronde non lo conosco. Speriamo non sia un altro di quelli che profondono reprimende sulla mia attitudine a non considerare nessuno realmente un estraneo. Abbiamo riso tanto stasera, e ho scoperto che abbiamo una valanga di cose in comune, ma mi ha appena baciata con una strana indolenza: mica eri obbligato, mi verrebbe da dirgli.

A casa l’aglio e l’olio sfrigolano e io ho una fame da Ciclopi. Pongo a lato le sue avances e ci trasferiamo in cucina, ma deve essere permaloso perché noto un certo astio che inizia a far capolino nelle risposte. Non mi avevano mai porto un complimento e al contempo sottolineato che non c’era nulla da ringraziare perché il capo che indosso non l’ho di certo disegnato io. Forse gli ricordo qualcuno che deve averlo molestato da bambino: sembra stia in trincea, mica a casa mia. Boh. Mi sfuggono cose e non riesco a chiedergliele, come invece naturalmente farei”.

“Voglio vederla ancora, mi piace. Esco dalla mia comfort zone e la invito a cena. Scende di casa, e le prime parole che mi fuoriescono, mentre cerco di ingoiarle, sono dei complimenti. Provo a baciarla e lei si ritrae: un’altra incoerente. Arriviamo velocemente vicino al mare, che da sempre mi comunica tranquillità. Ha un buon eloquio e noto con piacere che l’intelligenza non le fa difetto, così, perso nelle nostre parole, tralascio la notizia comunicataci dal cameriere: ci sono delle pietanze fuori menu. E dimentico anche il primigenio motivo di questa location: lo spaghetto al riccio, il cui odore mi attraversa l’olfatto un attimo dopo aver ordinato le vongole. Quando me ne ricordo è troppo tardi e mi promettono un assaggio. Parte così il mio esperimento sociologico: vediamo se questo ragazzino, che si muove come un equilibrista tra i tavoli, è affidabile oppure no. I fatti contano, le parole poco. D’altronde, se ognuno di noi riattraversasse i propri rapporti togliendo l’audio ai discorsi e prestando fede solo alle azioni, finirebbe per conoscere molto meglio le persone che ha incontrato. Michela però non resiste. Parla sempre, parla troppo. Fa pressing sull’avversario, in quel modo che solo alle donne, neanche ai calciatori riesce, e POUFF… qualche minuto dopo il riccio è davanti a me. Non lo desidero più. Che vorrà dal mio bracciale, poi? Continua a infilarci la mano sotto, come quando si cerca di recuperare qualcosa dai meandri di un mobile che l’ha nascosta, e io sono preoccupato: si spezzerà. Ho messo in conto che prima o poi perderò o romperò una delle cose a cui tengo di più al mondo, ma non in questa maniera ridicola. Glielo dico, così la smette. Un attimo dopo ha già cambiato rotta e mi chiede d’istinto di andare da lei. Si vede che non ha grandi filtri tra il pensiero e l’azione, e questo è particolarmente spiazzante per uno come me, che pensa anche mentre canticchia a un concerto dell’ultimo sfigato di turno. D’altronde, tutte le volte che ho abbassato la guardia e mi sono trovato a un bivio, ho sbagliato direzione. Meglio continuare a ponderare, dunque.
In questa casa c’è gusto e Michela è accogliente, come il suo corpo. Ma non soffre il solletico e bisogna sempre diffidare delle persone che ne sono immuni. Fuggirò ancora una volta, un attimo dopo aver fumato la sigaretta defaticante che segue di buona norma il sesso”.

“Pietro mi ha invitata a cena. Ne sono felice perché è da tempo che una persona non mi viene a noia dopo le prime 48 ore. Certo, c’è Luca, ma con lui è diverso: non sarà mai totalmente mio. E il fascino del proibito non si sa bene da quale genesi provenga, magari è solo un fuoco che al primo pomeriggio di routine si spegne. Ho sceso le scale senza correre, ma desiderosa di non farlo aspettare, e ho trovato come al solito il pubblico schierato. Una donna single che sorride sempre alla mia età genera curiosità, o peggio ancora sospetti: che sia lesbica o magari una strega? Forse perciò non mi accorgo che Pietro prova a baciarmi sulle labbra. – Ti sei ritratta – esclamerà durante la cena con quel suo fare di sufficienza che vorrei estirpare come un’erbaccia infestante. Esiste qualcuno a cui piaccia l’acqua torbida? O tutti siamo naturalmente portati ad affondarci le mani dentro, nel tentativo di scuoterla, liberarla e farla tornare limpida? Mi chiedo, per un attimo altrove. Vorrei farlo felice e persuado – forse – il cameriere a riparare alla sua ordinazione inciampata in una dimenticanza, ma niente. Sbaglio ancora, perché compare di nuovo quello sguardo di rimprovero con cui mi ha redarguita per degli strattoni inferti ad un bracciale che indossa. Quel monile deve custodire lo stesso segreto che risiede in tutte le cose lasciatemi da mia madre. Mi allontano mentre salda il conto e vado al parcheggio. Mi raggiunge con una delle sue esclamazioni ironiche, che sono per me una poesia sussurrata senza seguire la metrica. E pensare che Dante scriveva sonetti secoli fa. Forse aveva ragione Luigi, quando, seccato per la sua galanteria incompresa, mi disse con riprensione che noi donne meritavamo la brutalità.

Casa mia è un guscio in cui si affacciano in pochissimi. Devo sentirmi al sicuro se lo apro, anche se con Pietro non capisco esattamente cosa determini questa sensazione. Con me fa sempre così: ammacca le cose, come Stitch; forse anche lui è un alieno e mi ricorda un po’ quei bambini adottati, di cui parla spesso Carla, che d’improvviso si ritrovano pieni di attenzione e non sanno di preciso come reagire. Il primo istinto è quello di tirare calci, come a dire: impara a conoscere il peggio di me; se ti piaccio anche così ti aprirò il mio cuore. Non devo averli parati bene però, quei calci, perché ancora una volta fugge via veloce. I miei denti lo attirano, e la mia voce pure, ma non abbastanza evidentemente, o forse ha solo paura che sconvolgano uno status quo faticosamente raggiunto. Non lo so”.

“Michela finalmente è partita. Da quella cena mi ha investito ogni giorno con una richiesta diversa. Pranzo, cena, caffè, picnic e similari. Non voglio vederla. Possibile che nessuna scusa sia risultata credibile? Per una settimana almeno non dovrò difendermi dagli attacchi, e potrò restare al sicuro. Mi scriverà e le risponderò, ma mi sembra di averle spiegato che “la sindrome dagli occhi bassi” non mi ha contagiato: detesto i telefoni. Non sono nati per la funzione che assolvono oggi, e io non voglio adeguarmi. A che pro dovrei? Ergo, ci sentiremo pochissimo. Non ricordo quando torna, ma sono abbastanza sicuro che io sarò già partito. Fortunate coincidenze. Perché ho risposto ci vediamo al ritorno? Non saprei. Come non so esattamente il motivo per cui, quando sarà la mia volta di tornare, fingerò di aver dimenticato che lei è in città. Cavolo, eccola qui di fronte: decenni a percorrere questa stessa strada, senza mai incorrere in imprevisti di tal fatta, e proprio ora… Me la cavo con una conversazione fitta e al contempo evasiva, ma Michela non è tipa da mollare, e d’improvviso mi ficca gli occhi negli occhi e chiede con candore: come stai? L’unica parola che mi viene naturale è: confuso. Di cosa poi? Avrà intuito subito che mi sto arrampicando sugli specchi. Ci congediamo e non le dico niente. So bene che non la chiamerò, chissà se lo ha capito anche lei”.

“Sono in un’isola di fronte alla culla dell’umanità e godo della mia immersione nella natura. Qui è tutto incredibilmente selvaggio e fa venire voglia di riconciliarsi col mondo intero. Pietro ha respinto tutti i miei tentativi di salutarlo. Desideravo affondare la mano in uno dei suoi adorabili ricci, ma ho mascherato questo desiderio con altri: guai a essere sinceri fino in fondo. Lo step successivo è un calcio in piena regola. Gli scrivo spesso e lui risponde a monosillabi, tanto che a volte devo cancellare i messaggi, come la più insicura delle mie allieve che consegna il compito all’ultima frazione di secondo, sperando che in quelle correzioni finali si annidi un contenuto eccelso. Sono tornata e non mi pare muoia dal desiderio di rivedermi: ora parto io, ci sentiamo al ritorno. Non è vero. Mi sembra imbarazzato quando ci incontriamo in una strada che percorro da quando ero alta poco più di Mammolo, e la conversazione che intratteniamo è piacevole, ma a tratti impacciata. Non ricordavo, non sapevo… Ora sai. Il passo è breve per rivedersi, ma mi giro per andare via e avverto chiaramente che alcune distanze possono diventare incolmabili. Parole versus azione”.

“Eccoli, altri due idioti. Ormai li riconosco a prima vista, sono troppi mesi che abito qua. Fingono disinvoltura e invece vorrebbero sprofondare. Hanno diviso un letto, affinità e sorrisi, ma si ritrovano ignari faccia a faccia e si salutano con un bacio fugace sulla guancia. Hanno amici diversi e per non farsi cogliere vulnerabili ostentano sicurezza, ma sono fragili come il talco, che nella scala di Mohs è il primo minerale a poter essere scalfito con le sole unghie. Mi generano tenerezza, certo, ma in misura maggiore rabbia. Hanno arti per corrersi incontro – beati loro! – e preferiscono l’immobilismo. Hanno labbra per dirsi tutto quello che vicendevolmente pensano – maledetti loro! – e le tengono serrate o le utilizzano per battute inadeguate che in giorni normali deriderebbero. Hanno occhi acutissimi – che meraviglia! – e li distolgono l’uno dall’altra; hanno ingegno da vendere, ma perdono tempo a creare conferenze sul nulla che mi fanno ragionevolmente dubitare delle mie prime impressioni. Ma io non sbaglio quasi mai: tanti, troppi come loro si sono avvicendati su questa spiaggia, e ormai l’intuizione mi si è affinata. Se guardo bene, indovino anche il motivo di tale impasse: deve risiedere in lui. Si comporta in maniera maldestra e lei pare infastidita, è difatti più solare: parla con tutti, si vede che è attratta dalle persone, e se potesse parlerebbe anche con me, che purtroppo non ho il dono della parola. Lui sembra uno di quelli che fanno finta di avere tutte le risposte, mentre lei gode dello spazio e del tempo che impiega a raggiungerle, qualunque esse siano. Vorrei andare a dirle di insistere perché ha lo sguardo di chi tutto può, anche se forse non mi crederebbe mai. E allora resto nel mio angolo e continuo ad osservare. Quando, salito dal mare, lui le schizza gocce d’acqua come i bambini capricciosi che scherzano per dissimulare l’inadeguatezza, scatto. Gli vado incontro, mi sembra il minimo dirgli due parole. Forse ha dimenticato come si fa con le donne. Mentre mi metto sull’attenti però, arriva Massimo e mi chiude: il vento spira troppo forte e potrei mettere in pericolo le persone. Stolto! Dimentica che il vero pericolo non deriva dalla corrente esterna, ma da quella interna a ciascuno di noi. Basterebbe solo trovare il modo di metterla a tacere e di trasformarla in una leggera brezza che ci scompigli i capelli dolcemente.

Poveri idioti, ripenso. Probabilmente hanno gli stessi gusti, amano il cinema e leggono, come quasi nessuno fa più. Sanno bastare a sé stessi, ma farebbero faville in due. Ascoltano artisti sconosciuti, completano le parole crociate in men che non si dica, e si sono senz’altro sfidati a quel gioco affascinante che ricorda alle persone di vivere, chiedendo loro quando è stata l’ultima volta che hanno fatto qualcosa per la prima volta.

E poi dicono che i ciocchi di legno siano meno vivi ed arguti di un essere umano!”.

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Niente

Mia moglie stasera mi ha chiesto di lasciare il tennis. Dice che la trascuro e che sottraggo troppo tempo a lei e ai bambini. Io peró avevo appena undici anni quando ho iniziato a rincorrere quella sferetta gialla, e da allora non ho mai smesso di farlo. Mi fa sentire bene. Entro nel campo e un velo scende su tutti i disagi quotidiani. Colpire la pallina ha il potere di appannarli, non li metto più a fuoco e il tempo rallenta, come nello slow motion perenne in cui vivono le mosche: i problemi provano a schiacciarmi, ma io gioco di anticipo e li scanso. Per un’ora circa, per due volte alla settimana, godo dunque di un superpotere. La vita reale si allontana e il sudore prende il sopravvento. Dopo la doccia torna tutto come prima, ma che liberazione in quegli ace!
Ieri Flavia era bellissima. Non è appariscente mai. Ha spesso i capelli in disordine e ignora il popolo dei selfie, che oggi trionfa anche nello sport. Adoro la sua risata: è contagiosa persino con me, che ultimamente sono sempre nervoso. Spesso noto la gente che la osserva e mi viene naturale pensare che se avesse un décolleté più generoso farebbe voltare anche i muri. Non che così restino insensibili al suo fascino.
Forse anche a causa sua Elisa vuole che dica addio alla mia passione. Ogni tanto con qualche scusa fa incursione sui campi; mentre la guarda in tralice, io leggo chiaro il suo disappunto. Teme sempre che qualcuna le rubi lo scettro, e forse ha ragione a sentirsi minacciata.
Non è tanto tempo che la tradisco anzi, prima di marzo non avrei mai neanche immaginato di riuscire a farlo. Non mi piace per niente il concetto in sé, ma è più forte di me. Sono stufo delle incomprensioni, delle pretese e delle rinunce: cominciano davvero a diventare troppe. Flavia invece mi rilassa. Si vede che ha attraversato molte tempeste. Non le conosco tutte perché non le pongo domande – chissà se lo scambia per disinteresse – e poi la mia memoria è un meccanismo già fin troppo arrugginito; immagino però che debba aver trovato da qualche parte la ricetta della leggerezza perché con lei non c’è situazione che diventi insopportabile: di tutte riesce ad isolare il lato positivo e proiettarlo intorno a sé.
Qualche settimana fa, per esempio, eravamo a cena insieme e ci hanno servito i primi piatti dopo appena cinque minuti dagli antipasti. Il cameriere ha titubato nel tornare indietro e ha posato sul nostro tavolo le pietanze. Flavia era affamata e aspettava quei bucatini come un bambino la vigilia di Natale, ma avevano un aspetto poco invitante, e allora ho voluto assaggiarli: erano gelidi. Non mi ha consentito di rimandarli al mittente; ha mentito senza pudore, sostenendo che la temperatura centrale era ottimale, ma io la conosco e so che era una bugia. Quella notte abbiamo dormito insieme per la prima volta, e dalle 4 in poi non sono più riuscito a chiudere occhio. Ho mandato allora un messaggio ad Elisa e un soffio di tristezza le ha attraversato gli occhi, anche se si è voltata subito per non farmelo scorgere. Lei è così: troppo passionale per mandarmi all’inferno, troppo razionale per accettare il ruolo di amante. Così, quando le chiedo cos’ha, lei risponde sempre: “Niente”, anche se entrambi sappiamo che questa parola, pronunciata in quel modo, significa tutto.
Il suo sorriso cardiotonico comunque non c’entra niente con il tennis. Lei è solo quella parentesi che, svolta bene, fa indovinare il risultato di un’espressione, non mi è indispensabile. La racchetta invece sì. È l’unico strumento di evasione in una vita che assomiglia sempre più a una prigione. Si dice che negli anni ’70 le coppie resistessero meglio alle turbolenze, ma io non sono d’accordo. Tempo fa le sollecitazioni esterne erano minori e le passioni forse non le si sapeva neanche riconoscere: c’era il lunario da sbarcare e la famiglia era un microcosmo che spesso si richiudeva su sé stesso con la nascita del primo figlio. Anche io comunque, come i miei genitori, sono nato albero: non vado da nessuna parte e resto al posto che ho scelto come destino tanti anni fa, però una cosa a mia moglie e a parte dell’universo femminile la vorrei chiedere. E cioè come si fa ad essere così miopi nell’invadere senza scrupoli, sopprimendole, le passioni di noi poveri altri. Da quando Elisa viene ai campi e si intrattiene a vedermi giocare, infatti, quel velo sulle miserie quotidiane non scende più, e di conseguenza rincorrere la sferetta gialla non ha lo stesso sapore. È una specie di atteggiamento colonialista, quello di alcune donne, che mira a renderle imperatrici, ma a lungo andare le lascerà senza entusiasmo su un trono svuotato di significato.
È folle assistere alla distruzione dei rapporti dall’interno; ci si sente spettatori passivi di un disastro inevitabile, come se si guardasse da una bolla di sapone: qualsiasi movimento si compia, l’involucro scoppierà e si precipiterà al suolo senza paracadute. Così ho preso tempo; ad Elisa ho detto che ci penserò, ma poi sono corso sul campo e ho sperimentato ancora una volta l’adesione perfetta della mia mano alla racchetta, che mi ricorda il combaciare assoluto del mio corpo con quello di Flavia, quando non ci vediamo da tempo e facciamo l’amore.
Dopo aver giocato, mi sono infilato velocemente nella doccia. Non mi trattengo più a chiacchierare con Elio, anche se mi ha insegnato tutto quello che so ed è la persona più saggia che conosca. Elisa mi ha già chiamato tre volte con richieste di commissioni varie. È sempre così: anche quando non c’è, trova sempre il modo di invadere improvvisamente il campo e di colpirmi, come quel forsennato di Parche quando fece incursione agli ATP e accoltellò la Seles. Ero davanti alla TV e allora, come oggi, mi percorse un brivido. Non voglio finire ferito, voglio vivere. Voglio lo stesso spazio che concedo, ma senza mendicarlo. Agli angoli delle chiese non mi sento a mio agio. Ci servirà a stare meglio in futuro; dirò questo, una volta tornato a casa, a mia moglie. Ma ora non ho voglia di vederla. Non è venuta stasera solo perché aveva una mostra: una sua amica crea gioielli e lei non perde occasione per collezionarli, ormai è schiava delle apparenze. Anche io agli altri comunicherò questa sensazione?
I bimbi dormono da mia madre, sono al sicuro. Stasera mi sento libero.
Passo di fretta davanti agli spogliatoi femminili, senza salutare Flavia. Sento la sua risata dall’interno. Chissà con chi chiacchiera con quel suo sguardo che fa sentire a casa anche chi una casa non la ha. Preferisco non incrociarla. Le direi senz’altro una delle mie frasi composte solo dall’imperativo e da una negazione. Non lo riesco ad ammettere, ma ha ragione a chiamarmi “Non”.
Prendo la moto e fuggo fuori città. Sono diretto in un posto che ha il potere di rasserenarmi alla sola vista. Il proprietario è Elio e mi ha duplicato le chiavi; conosce la situazione e dice che posso andarci quando voglio. Sa che la vista dall’alto del colle placa i miei turbamenti. Devo aver letto troppe volte “L’infinito”.
Poggio il casco sul manto erboso e siedo nel mio angolo preferito. Ho dimenticato di accendere le luci e non ho voglia di tornare all’interruttore. Come succede quasi sempre, non deve essere avvenuto per caso perché nel silenzio della notte arrivano a farmi compagnia le lucciole, non le avrei viste altrimenti. Mio nipote ha solo 13 anni, ma mi ha spiegato che persino il loro modo di illuminarsi ha una motivazione. Sessuale, ovviamente. D’altronde, mondo animale e mondo umano sono molto più simili di quanto una persona comune possa ritenere.
Le poltroncine qui sono due, ma per riflettere ho bisogno di stare da solo e mi siedo per meditare. Assumo la posizione del pensatore di Rodin e il ginocchio mi ricorda poco dopo che – ahimé – non ho più vent’anni.
Credo di essermi addormentato.
Elio mi sveglia con delicatezza e mi porge un caffè bollente.
È quasi l’alba e non solo il cielo si è schiarito, anche le mie idee.
Domani dirò a Flavia che ci sono anime gemelle non destinate a stare insieme e che pertanto sarebbe giusto non s’incontrassero mai. Confido nel potere liberatorio del tempo. Sia per me, sia per lei.
Torno a casa da Elisa che, nel frattempo, non ha chiuso occhio. Salendo le scale, restituisco la linea al telefono: in memoria ci sono 78 chiamate e 45 messaggi. Non è colpa sua. Se l’avessero nutrita di carezze da bambina, saprebbe che amare una persona significa innanzitutto volerle bene e donarle libertà.
Ha gli occhi lucidi e la voce roca, deve aver urlato e pianto a lungo.
Pensando che voglia aggredirmi come al solito, preparo un tono più imperioso del suo, invece mi viene incontro, guardandomi come aveva smesso di fare da lustri.
Mi dice soltanto: “Domani pomeriggio mi iscrivo a pilates con Gianna. Detesto il tennis. Ho ordinato per te la racchetta di Djokovic, non è mai troppo tardi per diventare bravo come lui”.
Mi abbraccia come se mi stesse vedendo dopo giorni interminabili.
Non facciamo l’amore, ma questa sera nel letto le prenderò la mano e le chiederò di dormire sul mio petto, come facevamo prima del matrimonio. Magari cadrò finalmente in un sonno profondo, sono mesi che non so cosa significhi.
In fondo amarsi è anche questo. Riconoscere che abbiamo sbagliato, che sbagliamo e che sbaglieremo ancora, ma ciononostante ricordare che un giorno lontano ci siamo scelti e ci siamo resi vicendevolmente felici. Magari torneremo ad esserlo. Voglio provare ad avanzare al suo fianco su questa strada impervia, lastricata di difficoltà.
Mentre arrivo a tali decisioni, per un attimo mi attraversa la mente l’immagine di Flavia che distoglie il suo sguardo dal mio. Se si materializzasse innanzi a me in questo istante le chiederei che cos’ha, e lei mi risponderebbe semplicemente: “Niente”.

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Fiori sul divano

Questa mattina la vecchia strega non ha risposto all’appello, e dunque mi sono affrettata a segnarla assente. Una felicità smisurata, quasi una libido, mi pervade ogni qualvolta mi accorgo che non si presenterà e lascerà in pace i poveri malcapitati di turno.

In verità non so per quale motivo mi riferisca a lei come a un’anziana; nessuno ne ha mai visto il viso, nemmeno io, anche se una volta le sono passata talmente vicino che pensavo non sarei sopravvissuta. Si racconta che chi ne abbia svelato l’identità sia poi rimasto ucciso in circostanze poco chiare e misteriose. Se l’assassino sia proprio lei, il suo braccio destro, sinistro o cosa, non é dato sapere.

Oggi non ho voglia di lavorare. Penso continuamente a quelle corsie di linoleum… le ho viste troppe volte e ormai non mi fanno quasi più effetto, però se le percorre lui è tutta un’altra storia. È debole e temo sempre possa finire preda della vecchia strega, ma la creatura malefica, a sorpresa, ha fatto capolino solo in alcuni giorni e poi è andata via. Troppe presenze benefiche nella sua stanza di ospedale: deve aver avuto paura persino lei. Che le streghe non abbiano timori sono solo dicerie; una di loro che arretra non corrisponderebbe ai canoni, e noi – si sa – ragioniamo spesso per categorie. Io invece credo che la vecchia fosse sul serio spaventata e si sia perciò eclissata.

Se lo lascia in pace lui profuma di buono, come quando la mattina canticchiava le melodie napoletane radendosi, e noi ancora bambine lì al suo fianco ad agitare su e giù la bomboletta della schiuma da barba. Ci prendeva in giro per tenerci occupate – non so quanto tempo dopo l’ho scoperto – : “Se non contate fino a cento la schiuma non si forma e i peli non vanno via. Come farete allora a essere baciate dal vostro papà, voi che avete la pelle delicata come quella delle principesse?”.

Qualche settimana fa la vecchia era molto nervosa e lo ha aggredito in maniera violentissima. Non so come faccia, ma ne succhia dal midollo tutte le energie. Lo annichilisce, riesce a non farlo sollevare per giorni e piano piano s’impossessa di corpo e mente. Non avevo mai visto nulla di così potente ed ero molto intimorita. La strega, per giunta, è sensitiva: deve avvertire in anticipo quando qualcuno di gioioso arriva in casa perché si allerta, si mette ad ascoltare attraverso le pareti e schiaccia senza pietà le prede più deboli del momento: odia il buonumore. Così ha pressato sulle sue vene e il sangue non defluiva bene; non ho ancora capito perché abbia infine deciso di mollare la presa: che abbia anche lei una coscienza? Improbabile. In sua presenza la gente ammutolisce; pare che ogni parola si svuoti di significato e chi viene aggredito fissa nel vuoto un punto, ma non sta mettendo a fuoco niente. Te ne accorgi perché parli e non arriva risposta; ridi e ne consegue un pianto; superi, addirittura, la tua naturale avversione per la cucina, ma intorno a te l’inappetenza regna sovrana. Sortilegi indefiniti.

Oggi io e la piccola di casa non abbiamo voglia di osteggiare la vecchia strega e issiamo bandiera bianca dopo appena la quinta messinscena di sonno profondo. Chissà, magari alla sesta… no, no. Mi rassereno: coi se e coi ma non si scrive la storia, e allora eccoci qua. Questo signore all’ingresso è cortese, anche se parla in italiano a stento e io faccio fatica a capire quello che dice. Dapprima stanza 21, poi 18, poi 20… “Ok, passo subito dopo il lavoro”. “Ok, oggi prendo un permesso”. “Ok, chiedo il turno di pomeriggio”. Beate le famiglie che non sono composte da figli unici. Quelle in cui dignitosamente ci si divide dolori e gioie, senza fare a gara per accaparrarsi i secondi, ma prediligendo per sé stessi i primi, affinché non ricadano sugli altri componenti.

Il suo compagno di stanza si chiama Ernesto e ha la sua stessa età. Ha classe da vendere, come lui, e uguale bontà d’animo; s’intravede negli occhi cangianti, che d’istinto direi non abbiano mai incrociato la vecchia strega. Ha cuore e mani gentili, con le quali lo aiuta quando Cerbero non ci consente di trattenerci oltre l’orario. Gli presta le orecchie, perché lui spesso volutamente le ottunde, e l’ottimismo: ne ha da vendere, anche se ancora non mi è chiaro da quale fonte gli provenga.
Poi all’improvviso, dopo una settimana di ricovero, papá viene dimesso. Mentre Gioia lo riporta a casa, escogitiamo piani quinquennali di recupero, riabilitazione e capovolgimento di abitudini deleterie; disegniamo, inoltre, nuovi tempi e spazi occupazionali. All’appello la vecchia signora tace: non pervenuta. Deve essere una gran burlona comunque, visto che ama presentarsi a tutte le feste senza uno straccio di invito. Chissà che tra i suoi antenati non ci sia la maligna Eris, che spinse i suoi capricci fino al punto di generare una guerra.

È passato un mese dall’ultima volta che il linoleum mi ha graffiato le retine. La vecchia signora è andata a trovare una persona a cui non posso dire di aver voluto bene perché la conoscevo poco, nonostante nelle foto sembrassimo due fidanzati: potenti mezzi della tecnologia, delle feste e delle sbornie. Gli erano legate, però, alcune persone che amo profondamente, e io alla proprietà transitiva ci credo. Mi piace la storia che se A vuole bene a B, e B a C, A ne vuole a C. In tal modo c’è più speranza per questo mondo malandato.

Comunque sia… la signora non annovera tra i suoi poteri, per fortuna, quello dell’ubicuità; era andata a far visita a Federico, quindi non poteva essere anche da un’altra parte, solo che doveva sentirsi particolarmente nervosa e frustrata quel giorno perché, non contenta di possederlo solo per qualche ora, aveva deciso di portarlo via con sé. Lei però torna frequentemente, seppur non desiderata, e invece a lui non sarà mai più concesso.

Papà questa mattina profuma di buono.
Io sono malata e non posso uscire, lui però sì.
Sento il suo profumo fuori la porta, ma non posso accoglierlo perché il maledetto virus continua a serpeggiare velocemente. Perciò esco solo una volta che è andato via. Al pomello trovo attaccati fiori e carta igienica: binomio perfetto di romanticismo e praticità.
La vecchia signora tornerà ma oggi non c’è, e io me ne beo.

Metto i fiori sul divano per verificare se restano in piedi e quanto riescono a durare le cose precarie. A tarda sera sono ancora là: intatti, profumati e di mille colori.

In fondo è anziana.

Magari si pente.

Magari scompare.

Magari è stufa anche lei dei propri sbalzi di umore.

Magari domani è una giornata ancor piú serena di oggi.

Magari è un uomo, e gli uomini sono più elementari e meno rancorosi delle donne.

Non so più davvero cosa pensare, ma una voce dal mio interno continua a sussurrare: “Vietato smettere di sperare”.

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Al posto giusto

Quando il papà di Mario ci ha lasciato, non ero con lui. Parlavo – strano a credersi – di Enea che fugge da Troia in fiamme e porta sulle spalle Anchise, ormai anziano. Ha una missione da compiere – fondare un impero – e prima che se stesso, pensa a trarre in salvo le persone che ama di più al mondo. Perde Creusa nel buio e nelle fiamme, ma salva suo padre, il passato, e Iulo, il futuro.
D’improvviso bussano alla porta dell’aula. È una persona mite e insieme rigorosa, dolce ed equilibrata: il Fato ha voluto donarmela quest’anno. Ha gli occhi velati di lacrime e il viso tirato. Non c’è bisogno di tante parole tra noi, sono più che superflue quando gli sguardi di alcune persone s’incontrano. Nella maniera delicata che le è innata, mi mette al corrente. Cosa fare? Cercare qualcosa da assegnare ai più piccoli, non perdere la calma, non piangere, ma al contempo fuggire il prima possibile al quinto livello e scegliere la cosa giusta da dire: com’è difficile in alcuni momenti! Lo faccio. Creo un’attività e gliela consegno. Saranno buoni. In questi mesi ho insegnato loro cos’è la fiducia e adesso me la restituiscono nelle vesti di un silenzio inaudito e un’osservazione delle regole fuori del comune, loro che a inizio anno le hanno evase quasi tutte. Sono molto cambiati. Forse è merito nostro o forse loro. Che importanza ha? Nessuna.
Ho il tempo di recarmi dove vorrei essere, e dove è giusto che stia. Mi lancio per le scale, e incrocio Mario in fuga dalla madre, ambasciatrice della notizia tanto temuta quanto odiata. È una foglia in autunno che sull’albero barcolla. Ungaretti non deve aver pensato solo ai soldati quando scrisse “quella” poesia. Forse qualche suo compagno aveva perso il padre da poco. Chissà.
Il mio alunno ha occhi blu come il mare, ma inondati di lacrime. Lo abbraccio forte. In questi momenti non esistono parole, ma è pur vero che tutti noi nasciamo programmati per qualcosa; nella mia mente devono aver instillato le parole ancor prima dei pensieri. Pronuncio frasi che non ricordo. Mario continua a tremare e lo accompagno dai suoi amici. Sapranno stargli vicino, loro. Non entra in classe con me. Deve respirare. In tempi maledetti come questi, l’ossigeno è divenuto ancora più vitale e qui non siamo nella foresta amazzonica. Lo lascio tra le braccia di Luca che ci ha raggiunti ed entro in aula. I ragazzi sono felici. Ridono, scherzano, giocano gioiosi a Kahoot in lingua inglese. Si paralizzano quando mi vedono, e dalle retrovie Daniela esclama con voce impaurita: “Perché sta piangendo, prof.?”. Faccio finta di non aver sentito e prendo tempo, sospiro. Poi capisco che tocca a me comunicare, come quando mamma a diciotto anni mi annunciò che Francesca non c’era più. Me lo disse così, con quello sguardo dolce che forse ho ereditato; lo sguardo di chi, se potesse, si teletrasporterebbe in un’altra dimensione, portando via sua figlia, leggera, con lei. Una dimensione dove il male non esiste.
Abbasso lo sguardo e poi lo rialzo. Non vedo i ragazzi; sono troppo occupata a cercare un modo indolore – esiste? – con il quale condividere la notizia. E allora lo dico: “Il padre di Mario non c’è piú”. C’è un annichilimento generale. Nessuno fiata, persino i ragazzi che hanno riso per tutto l’anno e che hanno collezionato rapporti disciplinari alla stregua di un incallito filatelista.
Mario rientra in classe e lo lascio in buone mani. Vorrei tanto restare, ma ci sono i più piccoli da accudire. Torno da loro e qualcuno ancora ingenuo mi chiede, tra lo sdegno malcelato degli altri, se e perchè io stia piangendo. Non rispondo.
Giovanni, che per stazza e bontà sembra la reincarnazione di Babbo Natale più che un collaboratore scolastico, mi regala dei preziosissimi minuti e suona in anticipo la campanella. Mi consentiranno di tornare velocemente al mio posto. Rientro e miro dritta alla meta. La classe è allagata di lacrime e i ragazzi stanno naufragando; qualcuno in maniera sobria, qualcun altro platealmente, qualcuno da solo, trascinato via da vecchi pensieri altrettanto molesti. Quando i dolori si sommano – si sa – arrecano ancora più sofferenza. “Hanno solo tredici anni, non è giusto!”, penso mentre mi dirigo verso Mario.
È in piedi nel giardino e guarda l’orizzonte in direzione del mare. Nessuno si avvicina. È così il dolore: crea una sorta di barriera attorno a noi; le persone ne hanno paura, ma io ora lo conosco meglio, ho le armi per affrontarlo. Appoggio dunque la mia testa sulla sua spalla e aspetto che parli. Il primo pensiero è per la madre. Forse crede di dover essere lui ora l’uomo di casa. Forse vorrebbe scappare. Forse pensa che domani si sveglierà e spererà di aver sognato tutto. “Non è possibile, amore mio. Ma sopravvivere si può, te lo prometto”.
Li guardo fuori scuola. Sono così stretti che non si capisce bene dove inizi uno e dove finisca l’altro. Mi si stringe il cuore e penso al contempo che non assistevo ad una scena così piena di amore da un’eternità.
La chiesa è gremita. Vedo una donna bellissima che piange e che resiste. Mi ricorda la dignità di mia sorella. Mario ha dormito da un amico, e anche ora siede ad un altro banco. Quanto siamo teneri quando in tutti i modi cerchiamo di allontanare il turbamento! Stolti. Non possiamo sapere – lo scopriremo solo dopo – che ci raggiungerà comunque, e che l’unico modo per sconfiggerlo è affrontarlo il prima possibile. Ma tredici anni sono tredici anni. Io non ho ancora capito come si vince questa battaglia, perché dovrebbe saperlo lui? Il suo papà era davvero bello: la foto sulla bara parla. Ora capisco da dove proviene quello sguardo malinconico e quella delicatezza di gesti e di toni che gli appartengono.
Sono fortunata. Sono seduta vicino alla stessa persona che mi ha comunicato la notizia, mi sento al sicuro quando sono vicino a lei. Recitiamo una preghiera mano nella mano e io so con certezza ancora una volta che amerò sempre di più le persone che preferiscono i fatti alle parole. Che non adducono milioni di scuse per non esserci, ma che semplicemente ci sono. Ti giri e te le ritrovi a fianco.
Il tabernacolo è stato chiuso e tra un poco ci saluteremo. Sento la presenza di mia madre più forte che mai; domani andrò a trovarla per chiederle di guidare Antonio nel suo viaggio verso l’infinito.
Dall’ambone si levano parole armoniose: mi fanno percepire la grandezza di un uomo che ho conosciuto solo attraverso i movimenti fragili di suo figlio.
I ragazzi sono pochi: ne conto uno, due, tre. Chissà perché non sono qui, glielo avevo raccomandato tanto.
Una volta a casa, scrivo a Manila. Non ho intenzione di rimproverarla per l’assenza. Vorrei solo assicurarmi non dimentichino che “oggi è finito il tempo della speranza, e deve iniziare quello della vicinanza”. La ragazza dalle mille risorse e gli occhi vispi e grandi da cerbiatto, mi riferisce della partita di Mario a cui parteciperanno nel pomeriggio, e di una pizza in serata. Immagino con speranza che tutti, in quella speciale occasione, lasceranno il cellulare a casa: le loro mani serviranno solo ad accarezzare il compagno ferito.
Sono molto stanca stasera e ho pacchi interi di temi da correggere. Il Covid ha spiazzato i miei programmi e sono in ritardo con le consegne. Tuttavia, non ho desiderio di vedere i miei amici, nè di lavorare. Chiamo papà con il senso di colpa di chi è adulto e un genitore lo ha ancora. Andiamo a cena fuori stasera. Come piace a noi. Chi dice che il sabato sera debba essere trascorso facendo baldoria? Magari era sabato anche il giorno in cui Anchise venne accolto sulle spalle di Enea.
Mario è in pizzeria con i suoi amici stasera, e io col mio papà in trattoria: direi che siamo tutti al posto giusto.
Sono le due e sto scrivendo ancora.
È tardi, ma ho fissi nella mente i suoi occhi color cobalto, velati di lacrime.
Domattina si parte presto. Quando tornerò dalla costiera, gli dirò che un angelo ha accolto Antonio, e che io sono perennemente in comunicazione con entrambi, così se avrà bisogno di sentirlo più vicino, non dovrà far altro che digitare il mio numero e chiedermi di lui. Dall’altra parte del telefono gli risponderanno tre voci: la mia, quella della mia mamma, e quella del suo papà.
Tutti, ancora una volta, al posto giusto.

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Regali dall’aldilà

Non sono mai stato un tipo di tante parole, forse perciò preferisco sorridere sempre. I sorrisi in fondo sono vestiti che ci coprono quando non abbiamo voglia di esporci al freddo, e il freddo qui in città non ha niente a che vedere con la temperatura. Qui ci si scopre molto più che altrove. Qui – dicono – la gente abbraccia. Mah. Sarà… 

Sono particolarmente seccato in questi giorni. Sono stanco. Eppure abito qui di fronte, il mio lavoro mi piace; Matteo sta crescendo e sono fiero di lui, però… chissà perché noi esseri umani tronchiamo sempre le frasi con una congiunzione avversativa. E se d’improvviso il mondo ci diventasse meno ostile? Mia madre dice da sempre che sono un sognatore, anche se non ho mai capito se ci sia più ammirazione o preoccupazione nelle sue parole. Dovessi scegliere, propenderei per la seconda.

La gamba mi fa ancora male e poi le gabbie non le ho mai tollerate. Da piccolo liberavo i canarini che mi regalavano, figuriamoci se riesco a tenerne una avvinghiata al mio corpo. Se non odiassi le generalizzazioni, di questi tempi direi che solo un sovietico poteva inventare una cosa così opprimente, ma Ilizarov ribatterebbe: “Prova a riprendere i centimetri del tuo osso senza di me!” ed io sarei costretto a tacere.

Dovrei telefonare a Diego: lo so che verrebbe. La Toscana non è poi così lontana, e noi siamo cresciuti insieme, sono decenni che mi vede crollare e risorgere. Dopo lo chiamo. Esploderà in una delle due solite battute e io la completerò con una delle mie. Insieme torniamo due adolescenti: è proprio quello di cui avrei bisogno ora. Ricorderemo quella festa a cui mi ha trascinato per l’ennesima volta. “Sì, la festeggiata è bella, simpatica, ma dai! Vestiti in maschera a 40 anni… e non è neanche Carnevale! Ma cosa ha in testa la gente?” Pensavo quella sera, mentre diventavo Doc in “Ritorno al futuro”. E invece… sono stato l’anima della festa; a momenti spegnevo io le candeline al posto di Michela, era così ubriaca che non se ne sarebbe neanche accorta. Chissà se dietro tutti quei travestimenti c’era qualcuno che ha pensato di essere un cretino; che non si sentiva a suo agio; che lo ha fatto solo per non deludere una persona che era già stata delusa troppo di recente. Ma poi forse sono io – mi dico – che dovrei prendere le cose più alla leggera, mica queste domande se le pongono tutti! Magari Lara Kroft aveva sempre desiderato una pistola e Maleficient le corna. Comunque mi sono divertito. Michela mi piace. Ride sempre, come me, anche se il suo non sembra un travestimento. Forse perciò Diego insisteva tanto al suo matrimonio. Non avrà mica creduto che ritenessi davvero una casualità i nostri posti vicini! Però il lavoro va svolto per bene, diamine! Metti – che so – un sonnifero potente nel bicchiere del compagno, tanto si vede che non la ama più, altrimenti mi inibisco, mi conosci. Magari ora non sarei qua.

Sto guardando da dieci minuti queste pareti, mi opprimono. Potrei uscire, certo, ma preferisco restare qui. Fuori c’è Marco. Lo so che con lui non c’è bisogno di giri di parole, ma oggi mi dà la nausea persino la sua presenza. Speravo non venisse oggi. Lavora per me da tanto, ormai. Mai un passo falso, una parola in più, una nota stonata; sì, qualche decibel di troppo, ma lui è così: proprio non sa cosa significhi parlare a bassa voce. I suoni però non determinano gli amici, e lui è questo ormai per me, altro che collaboratore! Le grane recenti dell’ufficio mi pesano ancora di più oggi: da me dipendono delle persone, sbagliare le espone al pericolo. Rimedierò, basta trovare il modo. Se solo potessi non uscire più da questo bagno! Mi addormento ora, mi sveglio in un altro mondo: meno aggressivo, meno pretenzioso, meno giudicante… sarebbe un sogno! Punto e a capo. Altro giro. Ma… aspetta… e chi lo dice che non possa essere così? Qualcuno è mai tornato da queste parti nostalgico? Non mi pare. Tanto a Marco posso dire che mi ha dato fastidio quel pasticcio a pranzo. Troppa panna, perché non mi rassegno davanti alla mia intolleranza al lattosio? Nella prossima vita me ne capaciterò, devo.

Mi metto comodo. La cinta che indosso oggi mi sembra idonea, mia madre non lo prenderà come un segnale: è solo un caso che sia un suo regalo, e poi vado in un posto migliore. Qualunque madre aiuterebbe il proprio figlio a farne cessare le sofferenze: perché dubitarne?

Sono bravo, ho stretto tanto. Ho sentito le tempie esplodere e il cuore scoppiare. Marco urla; dice che il pasticcio lo ha mangiato anche lui ed è più intollerante di me ai latticini, quindi deve essere un’altra cosa, ma io lo sento appena. Avverto invece il rumore di qualcosa di metallico. Sta attraversando la porta, o forse le mie meningi. Della saliva mi bagna le labbra… SMETTILA! Sono andato a vedere cosa c’è dall’altra parte. Non posso e non voglio interrompere il mio viaggio!

E dai, non guardarmi così. Lo so che mi ritieni un egoista, ma in fondo chi non lo è! Non dirmi che non hai mai desiderato eclissarti, svanire, liberarti dalle gabbie, mettere le ali, entrare in una macchina del tempo e dello spazio e… POUFF! Scomparso. Via. Eclissi totale. Non sono credente, ma se mi troverò a breve al cospetto di Dio, giuro che gli chiederò di cancellarvi  la memoria. Nessun attimo aggiunto alla mia esistenza; nessuna salvezza per me, solo la cancellazione della vostra memoria. Non è giusto che soffriate a causa mia, non sono egoista. Se lo pensi, amico mio, forse non conosci la disperazione; il buio della notte quando c’è il sole; la smisuratezza delle ombre rispetto alle figure che le proiettano. Se lo pensi, non avresti dovuto buttare giù quella porta, non puoi avere la certezza che io ora stia peggio. Coltiva la speranza che quelle ombre si siano rimpicciolite, e che io sia sul limitare di uno sconfinato mare. Senza più sci, senza più ruote, senza più scarpe, senza più gabbie. Finalmente libero. 

Ti voglio bene, amico mio.

Presto capirai, e mi perdonerai.

La pace esiste, ora lo so.

Fede