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Grammatica emotiva

“E allora Nina, fammi sentire… come dovrebbe essere un uomo immaginario per farti perdere la testa?”.

La solita domanda: Nina aveva perso il conto di quante volte l’aveva ricevuta.

“Buongiorno anche a te, Marcy. Hai dormito male, vedo. E dicevano che in questa terra le Sirene accompagnassero il sonno! Stamani mancava una voce al coro delle idiozie? Come procede la vita privata là fuori? Non so rispondere alla tua domanda, e in ogni caso preferisco continuare a perdere le cose piuttosto che la testa, meglio che resti dove la natura l’ha collocata. Che dici: ha una tale importanza che si griderà allo scandalo?”.

“Questo sarcasmo gratuito lo hai appena inalato insieme all’aroma del caffè? Certo che ha importanza, Nina! Girano voci strane sul tuo conto: l’ultimo con cui sei uscita non vuole neanche più sentirti nominare; l’ho incontrato la settimana scorsa al supermercato e mi ha chiesto se fossi emigrata. Ha detto proprio così: è emigrata finalmente l’amica tua? Dice che non conosci la grammatica emotiva, ti rendi conto? Ora, che lo dicano di me va bene: non piango davanti alle serie Tv; non mi fermo alle edicole per strada a comprare pupazzetti allungabili per i bambini le cui mamme chiedono l’elemosina agli angoli delle città; a tratti divento una misantropa: ucciderei ogni moccioso che piange per un capriccio immotivato, persino il mio, ma tu… dai, tu, che a quasi 40 credi ancora nell’amore! Mi sembra assurdo, mi vuoi spiegare cosa cavolo gli hai fatto?”.

“Marcy, e che ti devo dire? Forse ha ragione lui: dovrei emigrare, tanto a me piacciono tutte le persone, la nazionalità non è mica importante, anzi… ricordi che da adolescente dicevo sempre che volevo vivere in un posto dove si parla spagnolo? Mai dire mai!”.

“La finisci di fare la finta tonta? E poi perché ultimamente non mi racconti più i dettagli delle tue “storienonstorie”?”.

“Lo hai appena detto tu il perché, Marcy! Non sono storie: sono rapporti con uomini che mi affascinano, ma verso i quali non nutro alcun desiderio di condividere la quotidianità; certo che provo sentimenti, ma non quelli che andate cercando voi, è così difficile da capire? Mi piacerebbe solo frequentarli: arricchirmi, arricchirli, tutto qua. Qualcuno perché ha il sorriso generoso anche nelle avversità; qualcun altro perché usa l’ironia meglio di un coltello ma senza ferire nessuno; qualcuno perché ama il calcio ma non è fanatico; qualcun altro perché accende la musica appena apre gli occhi e la ascolta a tutto volume, proprio come me. Qualcuno perché ingoia calorie cartacee e mi consiglia libri a cui forse da sola non riuscirei ad arrivare; qualcun altro perché conosce quella parte del mondo che non ho ancora visitat…”

“Ma ti ascolti, Nina? Che significa? Mi sembra di parlare con un’adolescente! Cosa vuoi fare, la collezionista di uomini che potrebbero essere e non sono? Come compagni non li vuoi, come amici sono loro a non volerti: grazie, finiscono tutti per innamorarsi! Cosa vuoi? Trovare una tua foto al centro di ogni mini-tiro al bersaglio da salotto? Non funziona quest’approccio, fattene una ragione!”.

“Marcy, hai rotto le scatole! Tutte le cose devono avere un senso? Non è che piaceva a te il tipo della grammatica emotiva? Te lo presento se vuoi, così è la volta buona che lasci Matteo, sa di putrefatto il vostro rapporto. Te ne innamorerai: cucina divinamente, suona il violino in maniera magnetica ed è rimasto uno dei pochi romantici in un mondo di cinici, te compresa. Però fa’ attenzione: ha un caratteraccio! Non lascia possibilità di ribattere se pensa di aver ragione, ti passa sopra come un caterpillar, non esiste contraddittorio. Alza la voce e usa toni da sopraffazione se gli pesti i piedi! Devo avergli fatto male, ma non indossavo neanche i tacchi quella sera, ero solo un po’ alticcia e l’ho chiamato chiedendogli un favore per una cena tra amici. Si è risentito perché capitava nella stessa serata in cui mi aveva invitata a teatro a vedere Pirandello!”.

“Mmm…E perché diamine hai rifiutato? Hai avuto paura di diventare il settimo personaggio senza autore?”.

“Avevo Guglielmo a casa, il mio amico romano; quando arriva lui si ferma il mondo per me, lo sai: siamo capaci di parlare per sei ore di seguito in piena notte, senza che nessuno dei due reclami sonno o sogni. È così, punto e basta! E poi, a dirla tutta, era già da un po’ che avvertivo addosso uno sguardo diverso: avevo sempre l’impressione di star seduta ad un tavolino in riva al mare con una candela accesa a due dita dal volto”.

“Ma è una sensazione bellissima! Non è che hai semplicemente paura di bruciarti? Tu ami cenare in riva al mare e anche le candele: a casa tua non si contano! Dimmi la verità: cos’è successo? Sei capitolata con Guglielmo? Convieni finalmente con me che l’amicizia tra uomo e donna non esiste? Ah, ma alla fine con chi sei andata a comprare il divano letto? Avevi detto che lo avremmo scelto insieme!”.

“Marcy, non vorrei essere nei panni di tuo figlio: incarni perfettamente tutti i peggiori stereotipi sulle suocere! Ma che hai? I cinquanta ti hanno devastata, spero che almeno lui espatri prima! Non ho comprato il divano letto, Guglielmo ha dormito con me; da quando sei diventata bigotta anche tu? Hai cambiato comitiva? Qual è il prossimo step? Inizierai a negare il saluto, fingendo distrazione, a conoscenze decennali in cui non ti riesci più a riflettere? Le rimuoverai con noncuranza pianificata dai social, o cosa? Sto iniziando a perdere la pazienza, ti avviso! E poi… non ho paura di bruciarmi! Non mi va una storia in questo momento, tutto qua! Ma in cosa ti sei laureata? In Architettura o in Dietrologia?”.

“In entrambe, cretina!

Nina, le tue sono solo scuse: ripeti queste frasi come un refrain da non so quanto tempo! Non c’è nessun altro step, è che sono preoccupata: sono passati undici anni ormai dalla tua ultima storia e le dicerie su di te non si contano! In ufficio credono tutti che tu stia con una donna; il migliore amico di Piero, invece, ha fatto girare voce che dopo soli tre appuntamenti ti ha archiviato come un malware perché sei poco seria: a mare con Luca, in pizzeria con Fabio, al concerto con Ivan… Lo so che Piero ti piaceva, non succedeva da un secolo; possibile che tu non ti sia chiesta cosa sarebbe successo se fossi stata più attenta e meno istintiva?”.

“Più ATTENTA! ATTENTA a cosa? A Piero non piacevo, altrimenti avrebbe trovato delle parole consone al posto di ruvidi mugugni! E se proprio lo vuoi sapere, la ristrettezza mentale delle persone che stai nominando mi fa venire la pelle d’oca! E poi che male ci sarebbe a stare con una donna, fammi capire! Sei anche intollerante, adesso? Ho ancora il messaggio che mi hai scritto per tirarmi su quando è morta Michela Murgia, stavi vaneggiando allora o adesso? Sono stufa di questa conversazione! Sembri un robot a spasso nel mio cuore per trovare un bullone allentato! Sputa il rospo e dimmi cosa c’è davvero, altrimenti me ne torno in città col primo volo, ti avviso!”.

“Voglio che la smetti di vedere Valerio, ecco qua, contenta? Ti sta fagocitando e neanche te ne accorgi! Quando è stata l’ultima volta che hai visto un tramonto insieme a lui?”.

“Ancora con questa storia di Valerio? Non avevamo tagliato entrambe i capelli proprio per evitare i nodi? Eravamo d’accordo di non toccare più l’argomento. E poi conosci benissimo la risposta: mai.”  

“Appunto. E quando hai ricevuto da lui un fiore, scommetto solo al tuo compleanno!”.

“No, mai.”  

“Quante volte ti sei trovata in difficoltà e gli hai chiesto aiuto?”.  

“Lo sai che non sono brava a chiedere aiut…”  

“QUANTE?!”.  

“Mai.”

“Quante volte sei stata in cima alla sua classifica delle cose da fare?”.

“Marcy, ma cos’è, un concorso a quiz? La prossima domanda quale sarà: Quando ti ha promesso la favola? Guarda che io non mi chiamo Vivian! Lo sai che vive all’estero, non è facile neanche per lu…”  

“QUANTE, maledizione?”

“Mai”.  

“Ok, Nina. Non aggiungerò altro. Non smetterò mai di essere il grillo parlante appoggiato sulla tua spalla. Sarò sempre verde, invisibile agli altri e porterò gli occhiali. Se mi continuerai a soprannominare Catone il Censore metterò ancora bocca e naso su certi tuoi comportamenti, e se mi darai della Nerd tutta libri e frustrazioni, mi approprierò di questo acronimo e lo trasformerò a mio modo: “Nina è Raggio Divino”! Tu per me sei questo, ed è un sacrilegio gettare via una tale ricchezza con la tua nonchalance. Il tempo non torna, Nina! Sei un’incoerente, che ti piaccia sentirlo o no. Torna pure a Bari senza di me. Ti raggiungerò e faremo pace ancora una volta. La mia vita non ha senso senza di te. Quando scivolo nel piattume più nero, tu trovi sempre il modo di raggiungermi, come il vento che entra a sorpresa dalla finestra in una serata estiva particolarmente calda. Arrivi nel momento esatto in cui sto per rassegnarmi all’asfissia; leggi nelle nuvole gli interni di casa mia, come la Sibilla faceva con le foglie, e le cavalchi coraggiosa. Ricordi quando urlasti a Matteo che se non mi invitava a cena fuori, avresti contattato la mia fiamma del liceo per chiedergli se mi ci portava lui? Non l’ho mai visto così spaventato: il giorno dopo ero seduta in riva al mare, con i piedi nella sabbia e un bicchiere di Gewürztraminer gelato tra le mani. Non facevamo l’amore da sette mesi prima che intervenissi tu. Hai il potere di cambiare la vita delle persone, Nina! Tranne la tua. Di Valerio stai raccogliendo le briciole, ma tu non sei un insetto! Sono stanca di vederti sola; sì, lo so che ami questa parola; che tu non ti senti mai sola; che ci sono milioni di persone che ti vogliono bene e che a te piace la tua vita esattamente così com’è; sono certa che a breve comincerai anche a viaggiare senza compagnia: la verità è che basti a te stessa, non c’è niente da fare, hanno tutti ragione. Però fai almeno un tentativo, fallo per me: prova a concederti un’opportunità. Smettila di dire che adori quelli che suonano il pianoforte e poi di rifiutare i loro inviti perché ne hai conosciuto uno dalle dita tozze; di disdegnare i tifosi accaniti perché urlano, se fai tremare le pareti del vicino cantando sotto la doccia; di trovare dei difetti nel portamento di quelli che potrebbero sfilare su una passerella; di riempirti la bocca di risentimento verso chi critica le differenze di età, e poi disprezzare i corteggiamenti di quelli che hanno appena cinque anni meno di te, neanche fossero dei toyboys! Ti ricordo che Francesco era il più bello della spiaggia, e tu volevi rifiutarlo perché aveva un incisivo fuori posto! Se non ci fossimo state io e Chiara, forse non avresti avuto una relazione neanche con lui.  

“Marcy, dammi una ragione valida per fare la cosa che mi chiedi. Deve essere valida, però. Nessuna stronzata. Finora ne ho sentite pure troppe!”.  

“Ti accontento subito: non scrivi più da quando c’è lui nella tua vita, anche questa è una stronzata? Tu fai finta che non sia così, ma aspetti un cenno per correre in Belgio alla prima occasione. Viaggi di meno, molto di meno, a meno che non sia per andare lì, e detesti pure il francese: il colmo dei colmi! Vuoi forse dirmi che non c’è alcuna correlazione tra questa nostra fuga dalla città con il suo congresso a New York? Mi sembra strano, anzi, che tu non sia volata lì, forse è solo perché lunedì torni a lavoro e non avresti avuto il tempo materiale di andare e tornare! Perché non lo ammetti almeno a te stessa?”.  

“Marcy, sono dove devo stare, dove voglio stare, almeno così credevo fino a poco fa, visto che da mezz’ora a questa parte mi stai facendo ricredere! Non scrivo perché ho perso l’ispirazione, lo sai, che c’entra Valerio?”.

“C’entra perché sei troppo impegnata a creare origami con i suoi ritagli di tempo, come fai a non accorgertene? Sembri una scimmietta ammaestrata che salta da un albero all’altro aspettando di rubare una banana ai turisti. Perché è questo, Valerio, Nina: un turista a spasso nella tua vita!”.  

“Ti è uscita malissimo questa, Marcy, ritirala per favore, altrimenti litighiamo di brutto oggi!”.  

“No che non la ritiro. Ok il sesso, va bene: a tutti piace, ma i progetti, i sogni, la cura che riservi a quelli che entrano per qualche motivo nelle tue giornate e che sognavi da ragazzina anche per te, che fine hanno fatto, eh? Sei mai riuscita a stare con lui per più di 48 ore? Risparmiati la fatica di rispondere, lo faccio io per te: MAI! Prima o poi quelle formule che brevetta salveranno il mondo? Perché così almeno potremmo dire che è una costola dell’umanità, e non solo del suo capo. Ne tira le fila come se fosse una marionetta! E non hai neanche l’onestà intellettuale di dirti che ne sei innamorata o che molto più semplicemente è una terra di comodo. Niente messe in discussione, niente sacrifici, niente compromessi: 48 h di fuoco e punto. Poi buchi una ruota e chiami me, ti tamponano col motorino e chiami me, perdi le chiavi di casa e chiami me! Ti sembra una cosa normale?”.  

“Ah, ok, è questo. Pensavo fossimo sorelle, ma evidentemente mi sbagliavo. Non ricapiterà, faccio da me la prossima volta!”.  

“Eccola, signori e signore! Accorrete tutti! Vi presento Nina la risentita: quella che mette la testa nella bocca del leone e quando viene morsa incolpa gli altri di averle detto che era un agnello; quella che trasforma ogni critica in un’offesa personale; quella che o sei d’accordo con lei o sei in odore di rimozione e fa presto a chiamare il carro attrezzi! Cresci, Nina. Le persone che ti amano avranno pur il diritto di affacciarsi nella tua vita e affermare che il panorama fa schifo!”.  

“Stai esagerando, Marcy!”.  

“Vivi, Nina. Smettila di lanciarti col bungee jumping da vette altissime e poi rifugiarti in una palude appena scesa a terra. L’acquitrino non è il tuo habitat, torna a scrivere, torna a vivere! Ti do tempo fino al 30 Settembre, siamo appena al 1: un mese può bastare. Lo chiami tu Valerio o ci penso io? Bruxelles è a poco più di due ore da Bari, vado e torno in giorn… Ma dove vai? Sai che detesto quando parlo e ti volti di spalle. Ti degni di darmi una risposta? Mi stai ascoltando, almen…? Giuro che in questo modo riesci a farmi perdere le staffe soltanto tu, nemmeno Matteo! Vuoi alzare questo sguardo, grafomane in crisi di ispirazione che non sei altro?”.  

Marcella rientra dal terrazzo dov’era a discutere con l’amica e la raggiunge nella stanza dell’appartamento fittato a Minorca. Il rumore del mare è potente e Nina ha uno sguardo assorto; una penna scivola su un foglio in maniera melodiosa e simmetrica, come le dita affusolate di un pianista sui tasti bianchi e neri. I capelli fluenti la infastidiscono e li raccoglie con un fermaglio, mentre la testa dell’amica fa capolino da dietro per spiare cosa stia scrivendo.  

“Grammatica emotiva”, viaggio nelle sensazioni degli esseri umani e non. Di Nina Mauro.  

Marcella fa in tempo a leggere solo questo tra un dondolio di testa ed un altro.  

“Contenta, Marcy? Ricomincio a scrivere!”.

Nina pronuncia queste parole con uno sguardo indemoniato.

Le lacrime le rigano il volto, ma ha comunque la prontezza di coprire con la mano sinistra il foglio; si alza poi repentinamente, senza che l’amica possa decifrare le parole.  

Sotto il titolo, in una grafia più scomposta e disordinata, spunta imperiosa una dedica:

A Valerio, alla nostra storia che credevo magica e immortale. Una leggenda ritiene che le anime gemelle abbiano sette vite di possibilità per incontrarsi ed amarsi. Pare che a noi ne siano rimaste soltanto sei.

Addio.              

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Ricomincio dal -30%

“Cos’è successo? Perché siete tutti accalcati-accaldati al di qua e al di là del cancello?”.

Queste le uniche parole “geniali” che trovo, quando arrivo al luogo dell’appuntamento inzuppata di sudore e come sempre in anticipo, a causa di un’atavica avversione verso il ritardo.

“La serratura elettronica non funziona, è andata via la corrente.”

Una ragazza mi risponde così, in maniera gentile, tra la folla.

“E usare le chiavi è fuori moda? Scappa invece a me in maniera decisamente troppo ironica. “Magari! Mi fa eco lei; sono anni ormai che usiamo solo quella, nessuno sa più dove siano le chiavi!”.

Sento apparirmi in viso uno sguardo perplesso; penso che farò tardi, che ho dovuto aspettare una settimana per ottenere una visita al mio orecchio malmenato dai bagordi di Ibiza, e quindi esclamo d’istinto, noncurante del disagio generale: “Ma io dovrei andare dall’otorino!” La ragazza sorride, senza indispettirsi, forse anche lei detesta arrivare in ritardo. Mi guarda attentamente e strizza l’occhio, voltandosi verso l’interno del palazzo: “È lui l’otorino!”.

Sobbalzo. Rinchiuso al di là da me, c’è il medico deputato a scavare nella grotta dei Ciclopi in cerca di chissà quale inganno. Mi rassereno perciò immediatamente; niente ritardo: medico e paziente sembrano uniti dalla stessa sorte grottesca. Il professore mi è stato consigliato dalla mia migliore amica, Bianca: cuore puro, mani preziose, risata ardente, natura polimorfa: mezza donna e mezza motorino sin dalla tenera età, e pertanto avvezza alle otiti come ai raffreddori. Il professore ha un cognome di quelli altisonanti che mettono soggezione, soprattutto se al: “Chiamalo subito, Santolin è un guru dell’orecchio!”, Bianca aggiunge: “Ti avviso però, non ride mai, deve avere origini tedesche!”.

Resto perplessa e m’interrogo sulle motivazioni oscure per le quali, secondo noi meridionali, i tedeschi non conoscono leggerezza. Cosa ne è stato nel nostro immaginario dell’OktoberFest, che già di per sé assicurerebbe il diritto ad esser felici a vita? Rivedo il dito del medico puntato contro Troisi e lui, spalle al muro, cedere rassegnato all’etichetta di emigrante. Risento quell’accento imperativo che mi ha sempre provocato grande ilarità e che oggi potrebbe invece catapultarmi in un film di Dario Argento, ma poi mi rilasso: Bianca mi conosce come le sue tasche, non mi avrebbe mai mandato da uno che parla in quel modo.

L’otorino non sente ovviamente il mio monologo interiore e neanche la conversazione con la ragazza; questo dovrebbe impensierirmi, ma sono distratta dal modo elegante in cui persevera nella sua occupazione. Ha in mano un mazzo di chiavi che ha tutta l’aria di essere uscito dall’uso quotidiano da un bel po’: impensabile custodire in tasca o in borsa un ammasso di ferraglia così voluminoso. Le prova tutte per aprire dall’interno e da subito mi accorgo che è la persona più distinta e anche più pacata della momentanea congrega. Volo via per un attimo e penso alla saggezza degli anziani, che conservano, conservano, conservano. “Può sempre servire!” mi sembra che abbia appena detto il professore, ma la voce che ho nella testa è quella di papà. I giovani hanno facilmente imparato a buttare, buttare, buttare. Loro invece, gli anziani, conservano, sistemano, riparano, creando bellezza con le schegge, diventando artisti del Kintsugi, perché dalla rottura di un vaso può nascere una migliore e più brillante armonia, esattamente come nella vita. Non è un caso che, tra queste trenta persone, l’unica a possedere le chiavi – FORSE – di quella che ormai ha le fattezze di una prigione, sia proprio questo alto e sobrio signore, che prova senza mai perdere la calma a liberare gli ostaggi, tra l’impazienza della gente che cresce e che comunque – noto – non muove un muscolo per cercare a casa propria quelle chiavi di cui sicuramente deve essere in possesso.

Quando a un certo punto vedo Santolin infilare la mano nella cancellata, indomito, e provare ad aprire la serratura dall’esterno con il braccio scomposto, balzo in avanti e quasi gliele sfilo: “Permette, posso? Provo io che sono dalla parte giusta!”.

Il medico mi guarda e tituba, ma solo per un secondo; sta già sorridendo mentre mi cede il testimone, e io mi scopro a riflettere: “Bianca mia, secondo me non è tedesco!”.

Al passaggio di consegne, un uomo della cricca esclama: “Benissimo, la signora ha le mani fatate!” e a me viene un po’ da maledire e un po’ da lusingarmi; da maledire per il “signora”, perché continuo a sentirmi ostinatamente ragazza, anche se ragazza non lo sono più da un bel pezzo, e da ridere perché so che se avessi avuto gli occhi storti e i denti mancanti, le mie mani avrebbero prodotto – nell’immaginario del tipo di cui sopra – pozioni da pentolone di strega, altro che dita affusolate da bella addormentata!

Nel provare la prima chiave, sento un brivido di emozione: c’è l’ipotesi che sia quella giusta, sarebbe la rivoluzione; la gente scalpita, cerca l’eroe, il Masaniello di turno! Ma niente da fare: la prima non è, la seconda nemmeno, la terza non entra, la quarta non gira, la quinta… Sono in un attimo passata dal tripudio del podio alla mira degli archibugi, quando la sesta scatta: LIBERI TUTTI! Le persone scompaiono alla velocità della luce e la mia fantasia le trasforma velocemente nei polli di un allevamento intensivo liberati dagli operatori di Animal Equality.

Il signore che mi ha chiamato “mani di fata” mi abbraccia, esclamando: “Ha visto? Lo avevo detto che faceva la magia!” e tutti se ne vanno complimentandosi, mentre io resto a chiedermi, non senza un fremito di malcelata soddisfazione, cos’avrò mai fatto per salire sul palcoscenico di questo grande teatro all’aperto che è la mia città.

L’unico a non dileguarsi è lui, Santolin, che rimane  immobile come un vigile nel più intricato degli ingorghi, a indicare la direzione ai fuggitivi. Quando ormai siamo rimasti solo noi due lo ringrazio, varco il portone e dico: “Professore, io vengo da lei!”, e allora esplode in una risata pienissima ma non sonora – ha troppa classe – e i luoghi comuni gli regalano all’istante i natali in Sudamerica: “Bianca mia, lo vedi che non può essere tedesco?”.

Nella sala d’aspetto per il momento ci sono solo io, e ho paura di doverci restare a lungo, visto che Santolin mi ricorda che non funzionano le apparecchiature per lo stesso motivo della nostra appena scampata prigionia.

Io mi siedo buona buona ad aspettare; ho con me Michele Serra in forma rettangolare e Bianca già al telefono a tenermi compagnia, non posso esser preda della noia!

Dopo due minuti mi raggiunge e dice: “Iniziamo a vedere l’orecchio!”. Dentro di me esulto: ha parlato, ha una bella voce calda, chiara e roca allo stesso tempo.

“I suoi dolori” – prosegue – “dipendono probabilmente dalla mascella, ora vediamo” e io sospiro; ho vergogna di dirgli che sono appena tornata da Ibiza e che ho dimenticato per circa una settimana l’esistenza dei  termini: riposo, phon, opportuna distanza dalle casse audio nei locali sulla spiaggia. Gli confido, dunque, un viaggio generico alle Baleari; temo, non so perché, il giudizio di questo signore, da cui mi sento sbugiardata sin dal primo istante e che ride ancora, stavolta allargando anche gli occhi.

È la mia prima visita da un otorino, e dunque sono impreparata a questi multiformi oggetti che usa con la stessa disinvoltura con cui perdo le mie cose ogni giorno. Resto ferma su una sedia comodissima: ha un poggiapiedi che ovviamente non centro al primo colpo e su cui mi deve posizionare lui, occhi al cielo.

La corrente è tornata ed entro in una sala strana: mi sembra di essere nella cabina di comando di un aereo. Sono tentata dal premere tutti i comandi, come quando da ragazza ero in metro e bloccai la scala mobile solo per vedere a cosa servisse il pulsante rosso, mentre a Monia ne usciva uno uguale in viso per la vergogna. Memore dell’imbarazzo che ne conseguì, preferisco non toccare nulla e metto il filtro alle mie azioni. Aspetto le indicazioni e alzo la mano quando avverto i suoni riecheggiare in queste cuffie strane che trovano impaccio nella mia coda massiccia.

Non c’è un filo di aria dentro questo microcosmo e non vedo l’ora di uscire, ho sentito quasi tutto… certo, qualche suono pareva venisse dal Paleozoico, ma sarà una cosa da niente.

Mentre mi fiondo fuori dall’abitacolo al primo segno utile del tecnico, sento raggiungermi una strana domanda: “Com’è possibile che lei ci senta meglio del 2019?”. Allora mi oppongo, è la “mia prima volta!”. Lui insiste e ripete nome e cognome: sono proprio io, e  mentre sto per arrendermi al fatto che la mia memoria si stia velocemente avviando sul viale del tramonto, arriva la domanda giusta: “Data di nascita?”. Sono salva e la mia memoria con me, almeno per ora.

Ritorno nello studio; approfitto di qualunque movimento del professore che non richieda la mia diretta attenzione per guardarmi intorno: ho visto tanti libri solo nello studio del nonno di Mario; provo ancora tristezza per non averli potuti accettare quando propose di regalarmeli, ma lo spazio è una divinità davanti alla quale siamo tutti costretti a sacrificare qualcosa.

In questa stanza si respira cultura: leggo una targa di riconoscimento da parte dell’Associazione OTOSUB e improvvisamente vedo Santolin con pinne, maschera e bombole: adora il mare, ho deciso: “No, Bianca, da’ retta a me, proprio non può essere tedesco!”

Con la stessa espressione che ha tenuto per tutto il tempo, mi comunica che ho avuto un’otite importante, esterna e media, e che a sinistra sento il 30% in meno. Non è una buona notizia: che ne sarà del mio orecchio bionico, disperazione gioiosa dei miei alunni? Tuttavia, l’informazione scivola dolcemente tra le rughe moderate di quest’uomo gentile: un viso tale non può essere portatore di catastrofi.

Si siede quindi alla scrivania per appuntare una serie di medicinali che si aggiungeranno ai pregressi con non poco fastidio, e io continuo a guardare tra i libri; noto degli strani macchinari opportunamente conservati, che sembrano  appartenere ad un’altra epoca.

Conservare, conservare, conservare. Ecco di nuovo la voce del mio papà.

Decido a quel punto che dev’esserci, lì intorno, qualche prova della sua nazionalità: una foto dell’esultanza di Tardelli  o della gioia piena ma compíta di Pertini; l’immagine di Bearzot che abbraccia Pablito, qualche frame delle partite con le regine sudamericane sottomesse. Non ce ne sono. Indizi inutili a pensarci bene, ormai ho deciso!

Sebbene fare domande intelligenti fosse il diktat del giorno precedente, sono pur sempre geneticamente pletorica e tradisco me stessa esclamando: “Prof, sbaglio ad usare i cotton fioc? Quando ero piccola, mamma mi puliva le orecchie con un panno di lino, ma io non lo faccio più: le avrò forse molestate?”. Lui solleva gli occhiali, mi guarda e con calma mi risponde: “Le orecchie non vanno pulite, sono autonom…”, ma io non gli do la possibilità di finire la frase, come se mi avesse appena colpito un anatema, ed esplodo in un: “Sono sporche!”. Stavolta si arrende: la sua risata diventa grassa mentre mi spiega scientificamente perché la mia affermazione è un’eresia, e io incasso, ricordandomi di non essere un otorino e meno che mai un medico di qualsivoglia specie.

Il suo dito non intima, anzi: rimane fermo al suo posto, oserei dire nascosto.

Mi congedo: ho appena deciso che quest’uomo sarà il protagonista di un racconto, ha troppa personalità non esibita, non posso lasciarlo andare via dalla mia memoria così, devo trattenerne il ricordo su carta.

Dopo aver pagato la visita, mi ricordo di non aver posto la domanda più importante e con l’avallo della segretaria, rientro. Lui è chino e concentrato sulle carte, come immagino stesse Galilei dopo aver abiurato, in cerca del modo migliore per gabbare la chiesa, bigotta ed autoreferenziale; gli chiedo: “Prof, posso andare a mare?”. Lui, senza scomporsi, alza lo sguardo e gli occhiali: vuole forse capire se ha appena visitato un’idiota? Non lo so, ma alza nuovamente gli occhi al cielo, risponde educatamente alla domanda e ride, stavolta scuotendo la testa con una dose ben visibile di tenerezza.

Richiudo la porta e me ne vado con una convinzione:  non so se sentirò mai più come il giorno precedente al 4 luglio, ma…

“No, Bianca mia, non scherzare proprio, quest’uomo non è tedesco!”.

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“Lei è la mamma?”

“Lei è la mamma?”

La domanda mi arriva così, a bruciapelo, e io inizio a balbettare; me la rivolge un membro esterno agli esami di maturità di Riccardo. Ad occhio e croce ha la mia stessa età, ma uno stile completamente diverso dal mio; indossa abiti dai colori opachi che non rendono giustizia al suo sguardo vivido, il primo che incontro appena entro. Avverto subito sintonia.

Sono arrivata tardi; ero fuori città per una promessa importante da mantenere e tanto desiderio di non piantare delusioni al posto dei fiori. Coincidenze fortuite, che io avverto invece come influssi discesi dall’alto, mi hanno accompagnata e ho raggiunto il quartiere più caotico di una città già di per sé caotica, in un battibaleno. “Rinuncia, non troverai mai parcheggio lì a quell’ora!”. “Embè? Esistono i garage!”. Rispondo così al conoscente di turno con cui mi ostino a portare avanti conversazioni intrise di ottimismo in maniera unilaterale, e mi dirigo nei pressi dell’istituto.

In quell’istante due anziani signori entrano in auto e liberano un posto; alla guida c’è un uomo e non è lesto nella manovra, ma io non voglio tramettergli fretta; mi fermo ad osservare la coppia: assomigliano ai miei genitori e immagino che siano proprio loro, di ritorno dalla solita passeggiata mattutina per le commissioni innaffiate di caffè. Sento che non sono capitati qui per caso: il clima è desertico e loro non possono tollerare che io compia molteplici giri dell’isolato; sanno che l’aria condizionata in auto non funziona e che non ho avuto il tempo di ricaricare il gas. Cerco di agevolare la manovra, retrocedendo in maniera silenziosa, e mi riavvicino solo quando sono andati via.

La scalinata d’ingresso è a poche centinaia di metri e ogni volta che la valico penso che mi piacerebbe lavorare qui: è un liceo che parla di tradizioni sedimentate e al contempo di una pioggia incessante di critiche, ma io vorrei entrarci lo stesso, munita magari di un ombrello impermeabile all’aridità e alle maldicenze. Mentre percorro i larghissimi corridoi, vedo ragazzini che rosicchiano unghie; alcuni grondano sudore, mentre altri custodiscono tra le mani una sigaretta, desiderosi di accenderla. Qualcuno in particolare attira la mia attenzione, ha un lampo negli occhi che pare dica: “Ora tocca a me!”.

Nel mio messaggio benaugurante della sera precedente, ho dimenticato di chiedere a Riccardo la sua sezione: non la ricordo, ho un vuoto di memoria. Vado dai collaboratori che siedono al grande desk, dinanzi all’ingresso. Pronuncio la parola esami e la domanda mi raggiunge, immediata: “Di che sezione?”.

Ecco, mi sento “la madre” degenere, quella che arriva trafelata e in ritardo, quella che ha la memoria strapiena e non si sbriga a liberarne qualche porzione per lasciare spazio alle informazioni davvero necessarie. Il mio imbarazzo è lì, trasparente, e allora agisco nel modo a me più congeniale: ammetto la mia pecca, la confusione, chiedo aiuto. I collaboratori mi sorridono, apprezzano la dichiarazione di umiltà: “Solo questo so: di non sapere niente”, se non un nome ed un cognome. Allora riportano il telefono alla sua funzione originaria: cercano informazioni e le trovano in tempi record.

L’aula è sull’altro versante; corro, sono sicuramente in tempo, c’è qualcuno lassù che non mi permetterà di perdere questo momento! Attraverso le aule con lo sguardo; ne ho appena scavalcata una, ma il mio piede destro si ferma e mi blocco: ho intravisto in un angolo “L’urlo” di Munch; chi lo ha rubato stavolta deve averlo anche modificato: la bocca del protagonista si apre allo stesso modo, ma gli occhi… gli occhi sorridono, e con i suoi i miei. Non so se Riccardo vuole che entri: i ragazzi a 18 anni portano nell’animo mille tempeste e io le ho vissute tutte senza dimenticarne nessuna, non posso accedere senza ricevere il permesso. Scoprirò solo dopo di aver superato correndo, senza scorgerlo, suo padre, al quale è stato severamente proibito di assistere.

Il consenso che mi viene accordato mi riempie di gioia: so bene che si chiama COMPLICITÀ.

Riccardo è seduto dietro la candidata che sta conferendo e ha le mani lisce e affusolate, come immagino siano state quelle di sua madre; sono arricchite con anelli d’argento, a cui cambia continuamente posizione. È nervoso e mi commuovo al ricordo del bambino paffutello che mi faceva ridere nelle mattinate uggiose in cui neanche il caffè riusciva a riportare un raggio di sole. Chiedo scusa alla studentessa per averla distratta momentaneamente e mi vado a posizionare dietro di lui: lo bacio e gli sussurro: “Ti copro le spalle”. Sarà bravissimo, ma questo lo tengo per me perché so che detesta le frasi melense e in certi casi uno sguardo d’intesa vale più di centomila parole.

“Lei è la mamma?”. Il membro esterno si rivolge a me e io balbetto. “No, sono… sono… sono… una sua insegnante delle scuole medie.”

La donna mi sorride e torna al suo lavoro; Sara, che sta conferendo, riceve diverse domande, e allora capisco: insegna letteratura italiana anche lei, ama quello che amo io, forse perciò ci siamo piaciute subito. La studentessa è preparata, ma a diversi quesiti non trova risposte brillanti e il tempo scorre. All’uscita dirà ai compagni che è stata messa in difficoltà e che la professoressa ce l’aveva con lei? Spero di no; spero che non si accomuni alla massa, spero che dirà di aver ricevuto domande intelligenti e pertinenti e che la vita è così: ci lascia spesso e volentieri senza le giuste risposte; nella loro assenza si cresce, è questo il vero esame di maturità.

Ci accomodiamo mentre la commissione decide il voto della ragazza, e in corridoio posso finalmente abbracciare Riccardo: ormai in altezza mi sovrasta, e io sono emozionata più di lui. Dopo pochi attimi arriva il suo turno. Gli anelli smettono di passare da un dito all’altro e io penso che “il mio ragazzo” è diventato un domatore di ansia. Me lo immagino alle prese con una frusta e una gabbia, da cui fuoriescono migliaia di pensieri in forma di bestie feroci.

A settembre con i miei allievi più piccoli ho stilato una lista di parole vietate: “IO” per rifuggire l’egocentrismo dilatante; “SCHIFO” perché nessuna cosa al mondo merita un vocabolo così volgare e meschino; “TIPO” per contrastare la povertà verbale ormai sovrana, e “ANSIA”, una parola oggi abusata a cui addebitiamo ogni male oscuro.

Riccardo usa quest’ultima parola come stimolo, non come deterrente, e si muove con grande disinvoltura. Io mi commuovo non appena inizia a parlare e una lacrima scende, silenziosa; lui non la vede, è concentrato, ma lei sì, e ho l’impressione voglia chiedermi ancora: “Sicura che lei non è la mamma?”. Mentre procede spedito e io sobbalzo a qualche accento sbagliato, penso che sono fiera di lui: sta volteggiando insieme al suo percorso multidisciplinare organizzato all’impronta con una verve fuori dal comune, e riesce a strappare più volte risate genuine alla commissione intera. Lei non fa domande: è nell’angolo, e io le voglio da subito bene, non perché dubiti della preparazione di Riccardo, ma perché ho questo istinto di protezione verso di lui che non mi molla. Il silenzio della donna lo immagino provenire da una cavità profonda e spesso inesplorata, al cui ingresso c’è scritto EMPATIA.

Sono passati quaranta minuti e Riccardo si gira: l’emozione si è appena trasformata in siccità per le sue corde vocali e chiede acqua. Dietro ci sono i suoi amici, ma io sono la prima a scattare; mi lancio per i corridoi alla ricerca di un distributore automatico e quasi perdo il sandalo, eppure riesco a tornare in maniera così veloce che, una volta a casa, darò una sbirciatina al Guinness dei Primati. Non beve subito. Gli scappa un sorriso largo condito da un: ”Grazie, prof” e io vengo sommersa dall’emozione; penso che non esiste nessun altro posto al mondo dove potrei, dovrei e vorrei essere in questo momento. Qui, ad ammirare lo sguardo di questo ragazzo gentile, che sta per svenire disidratato, ma per bere attende comunque che arrivi una pausa, in modo da non interrompere il discorso.

L’esame è appena finito e ci dirigiamo verso l’uscita. Riccardo è in piedi, dinanzi allo scalone storico. Io e i suoi amici scattiamo delle immagini a futura memoria e d’un tratto mi raggiunge. Con la cura, la precisione e l’amore di un miniatore, rulla una sigaretta. Credo sia per lui, e invece me la porge. Non può sapere che sono una fumatrice anomala e aspiro nicotina solo nelle sere in cui sorseggio del vino con gli amici, ma non ha nessuna importanza, anzi, mi sembra quasi di desiderarla. Il suo gesto premuroso mi riporta a qualche mese fa, in una serata d’inverno in cui mi è venuto a trovare e abbiamo bevuto uno Spritz, chiacchierando di tutto con una confidenza che spesso non raggiungo neanche con i miei coetanei.

Ci avviamo verso l’auto; ho una riunione di chiusura attività tra due ore e un desiderio matto di una doccia, eppure starei fino a sera a sentirlo raccontare dei suoi progetti e dei suoi sogni.

Trovo il tempo di pranzare con papà, che si intenerisce ascoltando il racconto della mia mattinata. Pensavo di aver ereditato la lacrima facile da mamma, ma capisco solo ora che la sua elevazione al quadrato proviene da una duplice genesi.

Arrivo per miracolo puntuale al lavoro e sulle scale scopro che c’è un momento dedicato alle relazioni. La prima a dover conferire sono io e davanti a me si apre il nulla eterno. Ancora una volta nella mia vita UMANI battono CARTE 20 a 0. Faccio appello a tutte le risorse residue e Riccardo mi viene in sostegno. Ho appena pescato un’immagine stimolo; ho svolto io il lavoro su cui relazionare, ho memoria, ho estro: improvviserò. Parlo per due minuti pensando a lui. Alla felicità che mi ha sempre detto di trasmettergli; a quella che mi donano loro, i miei alunni, ogni giorno. Avere figli non vuol dire solo partorirli, ci sono mille modi di essere madre.

Dal microfono invoco la parola felicità: batto sul suo diritto a risiedere nei documenti scolastici, esattamente come per la prima volta nel 1776 entrò in un documento politico.

Applaudono tutti e mi accorgo all’improvviso che ho appena sostenuto gli esami di maturità per la terza volta.

Nel 1994, stamattina e ora.

Una domanda da lontano riecheggia: “Lei è la mamma?”.

E io rispondo a gran voce: “Sì!”.

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Sensi di colpa

“Sensi di colpa io? E perché dovrei provarne, Lara?”.

“Dai, Ale, lo sai che ne soffri da sempre; saresti uno scrittore più che prolifico al riguardo, perché non pensi seriamente di scrivere un libro? Potresti intitolarlo “Io e quello che avrei potuto fare, se solo ne avessi avuto il fegato!”.

“Non fa ridere, Lara! Il tuo sarcasmo mi perplime. Non capisco se fai sul serio oppure no.”

“Mi senti per caso farfugliare? Sono molto stanca oggi, e la verità mi esce più fluida. Si è rotto lo scaldino; ho iniziato la giornata con una doccia gelata nella settimana della merla; l’anta della cucina si è staccata d’improvviso: ho rischiato di rimetterci la pelle, e tu che fai? Sei qui al telefono a parlare solo di te: di questa ragazza che hai appena conosciuto e -poverina- non sa ancora in quale guaio si è andata a ficcare; di tua madre che è rimasta sola e ogni volta che vai a trovarla pare ti sia stata affidata la risoluzione del rischio idrogeologico nel mondo; del tuo lavoro che non ti piace ma che resta sempre lo stesso; della casa nella quale non inviti mai nessuno perché ti fa sentire inadeguato e tuttavia non disdici; di un fantomatico figlio che avresti sempre desiderato, ma che- guarda caso- non hai mai avuto; della tua ragazza storica, che era la migliore di sempre, la donna che tutti sognano, la fata delle fiabe …blablablablablabla… e che hai abbandonato come un ladro nel cuore della notte. Ma dai! Che noia atroce! Sono storie che mi hai raccontato milioni di volte; ti avevo chiamato solo per un bicchiere di vino rosso. In alcuni casi è sufficiente dire no, sai? Ah… ogni tanto potresti fingere di chiedere come sto? E’ una frase facile facile, senza nessuna particolare implicazione emotiva. A chi l’ascolta procura piacere, indipendentemente se resti ad ascoltare la risposta, fidati. Ora devo andare; già ho conosciuto la fase depressiva: eviterei volentieri di duplicarla. Niente di personale, o mi ami o mi odi. Buonanotte, si è fatto tardi. Però domani… domani… mi prometti che proverai a sovvertire anche solo uno di questi sensi di colpa? Basta fare esattamente quello che ti passa per la testa, senza costruirvi intorno un castello di scuse, quelle non servono a niente e poi… vuoi mettere la soddisfazione di agire una volta tanto senza filtri? Riservali alle foto su Instagram, o almeno provaci! A domani”.

Lara non fece caso al silenzio che era calato dall’altra parte; il Bimby in funzione, musica Indie ad alto volume, la lavatrice in modalità centrifuga. Alessio aveva incassato, tutto qui. Si sarebbero sentiti il giorno dopo e amici come prima. Invece Alessio piangeva. Dall’altra parte del telefono piangeva, senza singhiozzi, in silenzio. Come quei bambini che cadono e dalla ferita zampilla sangue, ma devono a tutti i costi dimostrare a chi sta intorno che sono dei duri; che otto anni possono di colpo diventare trentotto e allora NO, non si piange: siamo grandi ormai.

L’indomani i due amici non si cercarono.

Alessio si era offeso, non aveva alcuna intenzione di chiamare Lara. La detestava a volte. Sì, perché rappresentava tutto quello che sarebbe voluto essere. Lei c’era stata sempre; quando era fuggito dalla casa in cui viveva con Elena perché aveva una relazione con un’altra e non trovava il coraggio di dirglielo; quando il padre morì e nessun abbraccio era riuscito a riscaldarlo se non il suo, mentre dissacrante diceva: “Era stanco di vivere il tuo vecchio, Ale. Smettila di frignare, dagli tregua: se la merita!”. C’era quando era stato bocciato all’esame di Diritto Privato, dopo un esaurimento nervoso violentissimo che lo aveva ridotto a ripetere in maniera compulsiva sempre le stesse cose: un cervello inceppato come uno scaldino a cui manca l’acqua. E c’era anche quando aveva messo incinta la sua prima ragazza e ad abortire l’aveva accompagnata proprio lei perché gli uomini non potevano entrare, e a casa quella ragazzina dagli occhi chiari e spauriti non lo aveva detto a nessuno. Chissà se un figlio lo aveva avuto, poi…

Ad ogni modo questa volta Lara ci era andata giù troppo pesante: vomitargli addosso tante verità -perché di verità si trattava- e tutte insieme! Per forza non aveva voglia di sentire la sua voce.

Lara, dal canto suo, fu risucchiata dal lavoro: curava la scenografia di un programma che andava in onda tutte le settimane e che ruotava intorno alle chat whatsApp delle madri degli studenti. Lei le considerava il male supremo, e avrebbe pagato oro per avere la stessa faccia tosta con cui il presentatore fingeva di interessarsi agli argomenti clou della trasmissione: offese quotidiane agli insegnanti; organizzazione di lavori a gruppi sulla scia di distribuzioni irrazionali e tendenziose; scelta di locali a tutti i costi alternativi per le feste di compleanno – una volta addirittura una di loro aveva fittato un camper gigante con Barbie umane per portare in giro le amichette della figlia -; indiscrezioni sulla vita privata di chiunque uscisse fuori dal coro, o proprio dalle suddette chat, per ovvi obiettivi di salute mentale.

Tutte le volte che Lara ideava una nuova scenografia, pensava sempre di voler ricreare nello studio un’adunata nordcoreana, una tappa della desertificazione in atto in Sicilia o un segmento di foresta amazzonica in pieno disboscamento. Così, giusto per provocazione; avrebbe volentieri collocato quelle donne lì al centro per vedere fino a che punto arrivava la loro dispercezione della realtà. Erano sperimentalismi degni di nota – pensava -, ma la regista non era lei e neanche la sceneggiatrice.

Le prove durarono fino a tarda sera quel giorno e, tornata a casa, era stremata. Prima di crollare, preparò in quattro e quattr’otto la valigia: l’indomani raggiungeva Leo, il loro amico di sempre, ad Amsterdam. Sarebbe dovuta andare con Alessio ma lui, dinanzi alle proposte che diventavano reali, reagiva in genere così: “Mamma non sta bene, non me la sento di lasciarla da sola, quanto mi piacerebbe però! Ho una causa importante martedì, non posso delegare nessuno, quanto mi piacerebbe però! Ho comprato i biglietti del teatro in quella data: aspettavo Servillo dal vivo da anni, non posso mancare, non mi rimborsano neanche. Quanto mi piacerebbe però!”.

Lara trovava sormontabili tutte le motivazioni, ma piuttosto che fare storie – Alessio era permaloso e lei non sempre riusciva ad essere paziente – aveva solo esclamato: “Tranquillo Ale, vado da sola, Leo ci aspetta da tanto, sarà felice ugualmente; lo sai che ha bisogno di distrarsi, non si è mai ripreso del tutto da quel giorno in cui la moglie gli ha portato via i bambini. A tirarlo su di morale ci penserò io, gli amici servono a questo, no? Però… me lo fai un favore? Potresti evitare di dire sempre che vuoi venire, salvo poi tirarti indietro all’atto effettivo? Alla nostra età si finisce per diventare ridicoli a furia di inventare scuse, e poi ognuno stabilisce le sue priorità, it’s ok. Vorrà dire che stavolta, invece di prenotare come al solito il parcheggio Long Term, mi accompagnerai tu in aeroporto e sventolerai il fazzoletto al gate. Ok? Dai, basta lamentele e rimpianti… Verrai al prossimo!

Così aveva liquidato l’argomento, ma Alessio non l’aveva più chiamata e alle 7.50 aveva l’imbarco. Pazienza. Afferrò il telefonino e prenotò il parcheggio. Non quello dell’ultima volta però. La mano viscida dell’autista della navetta, scivolata casualmente sulle sue gambe nude strette in uno short in piena estate, la ricordava ancora. Una smorfia di disgusto la pervase. “Ora chiamo Alessio e gli chiedo se viene a prendermi!”. Dall’altro lato il suo amico era sul divano davanti a “Le Jene”, la sua trasmissione preferita. Guardava una replica e la conosceva a memoria: quante lacrime per Nadia Toffa, avrebbe rivisto quel servizio all’infinito. Il display si illuminò. “Oh no, Lara! Non ho voglia di accompagnarla domani, farò finta di essermi addormentato, sono le 2 di notte, anche la mia insonnia potrebbe aver capitolato”.

L’indomani aveva la prima causa alle 10, poteva svegliarsi con calma. Lo fece invece all’improvviso alle 7.40 e il suo primo pensiero fu: “Lara! Sta partendo, quanto mi piacerebbe un suo abbraccio stamattina!”.

Sensi di colpa in progress.

Lara intanto era nel corridoio dell’aereo e cercava il proprio posto, sperando ardentemente fosse accanto ad un olandese. La fortuna le arrise e il volo trascorse senza contrattempi.

Trovò il Magere Brug sempre romantico – come avrebbe potuto Van Gogh non ritrarlo?- e decise di attraversarlo a piedi. Leo abitava poco distante da lì.

Le case si muovono nei Paesi Bassi: è un modo per dire agli uomini che sì, hanno avuto la meglio sull’acqua, ma loro mica restano a guardare immobili! Sono abbracciate le une all’altre per un miglior ancoraggio ma, fissando lo sguardo su una lontana dal branco, si evince subito che sono storte; sono, appunto, le dancing house.

Da una di queste si levavano risate fragorose adulte e insieme bambine; Lara le seguì, non ricordava esattamente il civico di Kerkstraat in cui abitava Leo. Col tempo il suo amico aveva vinto la causa in cui lo aveva trascinato la moglie, avida di ricchezze e di vendetta; dimostrato che non aveva mai maltrattato né lei né i suoi adorati gemelli; cambiato tre lavori, quattro case, adottato un cucciolo abbandonato, e finalmente ottenuto i suoi elementari diritti: leggere le favole ai propri bambini tutte le volte che fossero in cerca di magia; soffiare bolle di sapone multiformi e guardarci attraverso mentre prendevano la via del cielo; osservare al microscopio la struttura di tutto ciò che ci circonda, anche l’iride di un’amica appena conosciuta.

Lara bussò e fu subito festa. Ai bambini occorre poco tempo per scegliere se affidarsi o no a degli “sconosciuti”: è il loro incantesimo. Gli adulti hanno dimenticato come si fa, timorosi e diffidenti persino verso sé stessi.

I giorni passavano veloci; era un autunno particolarmente clemente e pareva fossero tutti e quattro in vacanza, ma in realtà lo era solo Lara.

“Come stai? Sono cinque giorni che non ti fai sentire; di certo so solo che sei arrivata a destinazione. Tu e Leo non chiamate mai. Sei arrabbiata con me perché ho dimenticato di accompagnarti? Ah, com’era stavolta il taxi driver? È riuscito a tenere le mani al suo posto o hai scoperto che davvero quel corso di Taekwondo poteva tornarti utile? Fatti viva, non ricordo quando torni, mi piacerebbe venirti a prendere”. Ale

Lara lesse il messaggio la mattina dopo. Quel giorno i bimbi erano con i nonni e ne approfittò per fare un giro della città con Leo: zaino in spalla e occhi in cerca di itinerari non convenzionali. Bevvero qualche birra di troppo – e non solo – così, dopo aver cenato in un ristorante thai e aver fatto sosta in un coffee shop, si ritrovarono a condurre conversazioni improbabili con gente improbabile. Risero e piansero insieme quella notte, e Lara andò in giro agitando il dito medio fino al portone di casa. A Leo, che le domandava divertito a chi fosse rivolto tale gesto, convinto di avere già la risposta, disse solo: “Ai disincantati. Ai bigotti. A chi giudica dalle apparenze. A chi non si fa mai gli stramaledetti cazzi propri. A chi crede sia venuta qui per cercare qualcosa che non riesco a trovare a casa mia. Ai finti open mind.  A quelli che non credono all’amicizia tra uomini e donne, che derelitti! E ad Ale, che da quando lo conosco non mi ha mai detto ti voglio bene, ma continua a ripetere: “Mi piacerebbe!”.

“Lara, occhio al canale, stai camminando a zig zag e la bicicletta mi serve!”.

Il giorno dopo…

“Ciao, Ale… Sì, hai ragione, scusaci. Volevamo chiamarti ma ieri abbiamo esagerato… Sì, pensa che ci siamo svegliati testa e piedi sul divano. Sai che non avevo mai notato che qui le case hanno tutte dei ganci ben visibili in facciata? Leo dice che sono per consentire l’accesso delle bare, ma non capisco perché ultimamente pensa sempre alla morte, si vede che stiamo diventando vecchi; non potrebbero essere per una vasca da bagno, per una lavatrice o – che so –  per un grande forno?… Sì, Ale, sto benone. No, non ho scoperto di avere una malattia terminale, cazzo dici?… Grazie, ma non penso di tornare questa settimana, mi hanno cancellato il volo ieri… Sì, dovrei lavorare, ma detesto quella trasmissione, lo sai che sto cercando un’alternativa da mesi… No, non mi è arrivata risposta da quel giornale, magari! In verità stamattina ho rassegnato le mie dimissioni, volevo dirtelo al ritorno, ma non so con precisione quando sarà… NO che non potevo parlarne prima con te, mi avresti detto di non licenziarmi se prima non avessi trovato un altro impiego, e io sono stufa di sentirti dire quale sarebbe la cosa giusta da fare, siamo diversi: siamo amici anche e soprattutto per questo. Non voglio trascorrere la mia vita ad aspettare il momento propizio per… Ma perché stai urlando, che ti prende?… No che non ho trovato un lavoro qua. Ancora con questi sensi di colpa?… No, non è perché non mi hai accompagnata, ma ti pare?… Sì, ho avvisato i miei genitori, ce la faranno a sopravvivere senza di me, tranquillo.”

“Ma io no!”. E attaccò.

Alessio era infuriato, anche se non capiva esattamente con chi: se con Lara, il cui pensiero in un millesimo di secondo si trasformava in gesto, o con sé stesso, che a furia di costruire giustificazioni per non affacciarsi alla vita, ci stava lentamente rinunciando. Accese una sigaretta. Quanto avrebbe dovuto aspettare per bere ancora vino rosso con la sua amica di sempre? Per quanto tempo avrebbe rimpianto quella serata della settimana precedente in cui la sua proverbiale pigrizia aveva avuto la meglio, e non gli era venuta in soccorso neanche la sincerità?

Chiamò Marco che lavorava in aeroporto, e gli commissionò il primo biglietto per “la città delle dighe”. Era per il mattino successivo ed ebbe tutto il tempo di cambiare idea almeno quindici volte. Lara non lo sapeva, ma Ale dalla morte del padre non aveva più volato. L’ultimo aereo su cui era salito era stato quello per dirgli addio, ma non aveva fatto in tempo. Da allora tutte le volte che si accingeva a solcare i cieli andava in debito di ossigeno. Aveva dovuto rinunciare persino a quell’incarico prestigioso a Malta. Appena comprato il biglietto, infatti, non aveva smesso un attimo di pensare a quella maledetta cabina pressurizzata. Quindi, al momento del viaggio, era partito di nascosto per Roma. Con il treno, chiaro. Girò la capitale i giorni necessari a giustificare la sua assenza e tornò tessendo le lodi de La Valletta.

Ora però stava accadendo qualcosa di diverso. Lara era volitiva: avrebbe trovato lavoro tra i canali, messo su famiglia con un olandese insolitamente moro, e imparato ad andare in bicicletta, lei che era sempre stata imbranata sulle due ruote. Non poteva sopportare il senso di colpa per non averla salutata, per non averla accompagnata, per non averle mai detto che la sua generosità istintiva e gratuita lo lasciava ancora oggi senza parole.

Partì. Si riempì di sonniferi, e una volta a destinazione gli steward furono obbligati a schiaffeggiarlo per fargli riprendere conoscenza. Quando aprì gli occhi era stordito, ma le prime parole che ascoltò erano in inglese e allora capì di avercela fatta.

Decise di prendere un taxi, non era in grado di arrivare a piedi alla meta. Si fermò a fare colazione in un bistrot, accanto al quale c’era un fioraio dove comprò dei tulipani coloratissimi. Nel biglietto vi scrisse: “Tutti credono che i tuoi fiori preferiti siano nati qui, ma le loro origini sono turche. Mi accompagneresti a cercarne le orme quest’estate?”.

Carta di credito alla mano, comprò due biglietti di sola andata per Ankara e noleggiò un’auto. Si fermò poi all’improvviso e scoppiò a ridere: sembrava essersi trasformato in Lara!

Dalle dancing house le voci arrivavano in strada: qualcuno stava giocando a nascondino con dei bambini, quanta energia in quegli schiamazzi! Ale bussò; una ragazzina bionda sdentata gli aprì e corse a rintanarsi tra le gambe del padre! Leo arrivò alla porta e lo strinse così forte che persino i figli ammutolirono; Lara lasciò cadere la benda che le avvolgeva gli occhi: erano bagnati di lacrime.

Fu un momento di sospensione in cui tutto il mondo scomparve. I tre amici erano di nuovo insieme dopo un tempo indefinito, e anche lo spazio assumeva fattezze surreali. Sarebbero potuti essere in qualsiasi punto del mondo.

Aprirono tre Amstel e dopo altre tre. Nessuno chiese ad Ale perché era venuto, né quanto avesse intenzione di trattenersi. Dalla terrazza del Museo delle Scienze videro il sole tramontare tra i tetti, mentre i bambini facevano a gara a disegnare l’arcobaleno più bello. Può in cinque menti esistere nel medesimo istante lo stesso pensiero? Sì: se non era felicità quella, non avrebbero saputo identificarla.

Il week end trascorse in fretta e venne il momento per Ale di ripartire; non era per niente agitato. Leo prestò l’auto agli amici e si recò a lavoro in bicicletta.

Lara guidò lentamente, erano in anticipo.

“Sono felice che tu sia venuto. Scusami per l’altra sera. Dirti ora che non pensavo quelle cose sarebbe ipocrisia, ma non era mia intenzione ferirti, credimi.”

“No, Lara. Non c’è niente di cui scusarsi. Se non fosse stato per le tue parole, non sarei mai venuto qua. Certo, i vini non sono il punto di forza di Amsterdam, ma tu nella mia vita invece lo sei. Basta condizionale. Ci vediamo quando torni, chiamami che ti vengo a prendere. Torna però”.

Si strinsero.

Mentre Ale ingurgitava sonniferi – è vero che non era nervoso, ma era sempre meglio non rischiare – Lara tornò a casa.

Cambiò l’acqua ai tulipani e scorse il biglietto caduto tra i croccantini di Lupita, il cane dalle orecchie enormi che proteggeva la famiglia.

Lo lesse, e gli occhi diventarono lucidi; in un istante afferrò il telefono e scrisse: “Vengo solo se mi accompagni a vedere i camini delle fate, ma dobbiamo provare a calarci all’interno, ti avverto. Torno, te lo prometto. Accadrà di domenica; tu la sera stessa tieniti libero: berremo vino rosso, di quelli seri. Di’ ai sensi di colpa che non sono invitati; loro non lo sanno, ma non hanno una vita propria: siamo noi che li creiamo, e solo noi che abbiamo il potere di distruggerli.

Ps: lo so che dalla morte del tuo vecchio non avevi mai più preso un aereo, e so anche che di Malta ignori persino se sia realmente un’isola. Sono fiera che tu abbia volato ancora. Forse un giorno necessiteremo di un gancio per uscire l’ultima volta dalla nostra casa, ma quante soddisfazioni entreranno insieme a noi in quella cassa? Ne sceglieremo una molto confortevole che ci consenta di avere in eterno il dito medio alzato.

Ti voglio bene. Per sempre”.

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Filofobia

Mi chiamano “il vento”, ma il mio nome è Filippo.

Appurata l’insensibilità dei miei genitori verso la tradizione tipicamente meridionale per la quale il primogenito deve portare il nome del nonno paterno – che altrimenti si vendicherebbe dall’Oltretomba o dalla vita reale per aver subìto il più immotivato dei torti – mi sono messo alla ricerca della sua etimologia. Quella reale non mi soddisfa: niente di personale contro i cavalli, ma spererei in qualcosa che rendesse maggiore giustizia alla mia complessa personalità. Non mi ci vedo redivivo in groppa ad un equino a scansare il disagio in cui spesso sprofondo. Sono arrivato, pertanto, ad una conclusione: il mio albero affonda le radici nel termine filofobia. Paura delle relazioni amorose, a voler chiedere aiuto al greco.

Mi avvicino ai quaranta, ormai, e il pubblico affettuoso mi ricorda che dovrei pensare a metter su famiglia. Ma poi perché? “Fil, perché lo fanno tutti!”. “Vuoi forse morire da solo?”. “Ti serve una donna: casa tua sembra l’opera di un minimalista: certo, chic, ma vuota, vuota, vuota. Si sa: son le donne che donano un’anima alle abitazioni”. “Ma non ti secca rincasare dopo il lavoro e trovare tutto spento e muto?”. NO! In verità proprio no! Mi piace la mia compagnia; accendere la musica a tutto volume e ascoltare ciò che desidero; fare la doccia e cucinare quando ne ho realmente voglia; non dover rispettare le tradizioni forzatamente, né andare al cinema a vedere film lacrimosi che non sceglierei mai. Certo… se andasse qualche volta un’ipotetica lei a controllare che la mia auto non si apra, nonostante abbia più volte pigiato il tasto della chiusura centralizzata a distanza, sarebbe comodo, ma non posso mica iniziare una relazione per questo.

Ieri ho visto una donna magnetica: aveva i capelli d’oro fluenti e ha chiuso la sua vettura dandole le spalle; dominava tre borse con un equilibrio distratto, per nulla ragionato. L’ho immaginata al mare mentre gioca con i suoi figli a frisbee: sarebbe capace di intercettarne il lancio con un solo dito, meravigliandosene ma non più di tanto. Credo di averla amata per un attimo, quella donna sfuggente e misteriosa. Non lei, certamente, ma la sua indipendenza dalle manie di controllo sì. Aveva un’espressione dipinta negli occhi che diceva: “Se si è chiusa, bene. Altrimenti pazienza!”. L’avrei seguita, rischiando una denuncia, solo per chiederle come si fa.

Non mi sono mai innamorato finora. “L’amore è dei principi” e non se ne vede tanto in giro per il mondo. È di chi è nobile di cuore, di chi insegue ancora i sogni; di chi non si siede mai alla tavola del cinismo; di chi non ha bisogno di un doppio stipendio che nutra le rate del mutuo; di chi può rompere i piatti di casa perché i bambini sono usciti con la babysitter; di chi cerca di far pace subito perché non sopporta di andare a dormire col broncio. L’amore è degli spontanei; di chi può consentirsi di rifuggire i compromessi; di chi lo sceglie, senza sapere nemmeno il perché. L’amore è una decisione, ok: è assodato, ma sarò libero di non sceglierlo? Ammesso pure che sia la cosa giusta… avrò il diritto di sbagliare? Tuttavia, cado vittima del “buonsenso dilagante” e della percezione degli altri che spesso determina quella che abbiamo di noi stessi, e quindi ci riprovo. Mi sforzo lentamente, perché in fin dei conti ho paura, e quale folle correrebbe incontro alle proprie paure invece che calpestarle come scarafaggi, sperando che non siano esseri umani reincarnati? Stavolta è diverso, comunque. Sì, lo so che lo dico sempre, ma sento che è così, altrimenti mia sorella non avrebbe soprannominato Gaia “la regina”. Non sbaglia un colpo, pazzesco. Ha perfettamente inteso la mia natura da Grinch e studia le mosse accomodata a un tavolo di scacchi. Mi piacerebbe che fosse davvero come si presenta, ma non esistono donne così. Che dormono con te e spariscono l’indomani mattina all’ora precisa in cui non le vuoi più tra i piedi; che ti baciano sull’uscio e poi scompaiono per qualche giorno, salvo ritornare quando stai cominciando a chiederti che fine abbiano fatto, ma comunque non le cercheresti. Che parlino di loro, ma non troppo; che chiedano di te, ma non troppo, e che non lamentino situazioni complicate che non tollereresti neanche per un quarto d’ora. Se non avessi così esperienza con le donne, penserei di averLA trovata, ma non esistono rappresentanti dell’universo femminile di tal fatta, è impossibile. Ho comprato comunque una corona-giocattolo su Internet. No, non è per lei: la donna preferisce essere ingannata e credersi l’unica, appoggiandosi ad un muto consenso; non puoi farle percepire che è sul podio, ma che prima di farla salire l’hai paragonata a  mille altre. Capirebbe, in quel caso, che è solo un topolino da laboratorio, necessario per testare la tua respingenza all’amore. L’ho comprata per me, invece; guardarla fare capolino dal fondo della cabina armadio, mentre scelgo cosa indossare per andare a lavoro, mi tiene ben concentrato sull’obiettivo.

“La regina” c’è. Sono io il re? “L’amore”, in fondo, “è dei principi”.

Anche lei d’un tratto cade. Nel più banale dei modi. Come un birillo per un colpo ben piazzato, non necessariamente da strike. È il 16 dicembre e a Roma non fa freddo. Natale è disegnato in tutti i profili della capitale e si deve essere insediato anche nell’animo di lei, che a tradimento, ancora sudati nel letto, mi chiede: “Cosa facciamo a Capodanno?”. Devo aguzzare i sensi, ma non posso dirle di ripetere, e allora provo a interpretare il suo sguardo. “Oh, No. E’ LUI: è lo sguardo del NOI, quello della prima persona plurale del pronome, sono fregato: è finita. Mi esibisco in uno dei miei migliori silenzi con aggrottamento di sopracciglia incluso, e dopo sette minuti precisi di orologio “la regina” imbocca la porta. “Niente carbonara stasera, ok. Disdico. Lascia che ti accompagni però, almeno”. “Non ce n’è affatto bisogno, Filippo. Chiamo un taxi”.

La porta si chiude e resto da solo. Nel corridoio c’è uno specchio enorme, unico vezzo che ho concesso alla casa, e mi ci vado a posizionare di fronte. Vedo mancanze. Le cerco nelle donne, gliene addebito infinite, ma forse sono solo le mie. Questa situazione inizia a stancarmi.

Chiamo Francesco e Daniela, correranno: non ci siamo mai separati da quel viaggio fortunato che me li ha regalati. Arrivano, ma vengono pur sempre da altre città, e quindi sono trascorse già due settimane dall’uscita scenica “della regina”. Andiamo a cena sul Lungotevere; ho voglia di svagarmi con due persone che non sanno che farsene dell’amore tradizionale. Daniela ha il sorriso di chi ancora ci crede, ma lo ostenta con un atteggiamento da superuomo che fa fuggire chiunque la incontri; non ha ancora capito che a noi maschi non piace essere prede, dobbiamo sentire di avere il comando.

Francesco resta invece aggrappato ad un amore che non esiste più, ma da cui ha paura di separarsi: difficile, strano a dirsi, essere gay nel XXI secolo; non sentirsi diverso in una società retrograda al pari di quella dell’Ancien régime; rimettere in circolo la propria sessualità, cercando qualcuno che la prenda e la appoggi sul proprio cuscino, spaventandone i timori.

Il locale in cui siamo diretti si chiama “Porto Fluviale” ed è davvero cool. Riproduce lo stile industriale della New York degli anni ’50: ci sono tubature a vista e travi di cemento, finestre enormi e sedie tutte diverse. Su un divano di pelle all’ingresso c’è seduta una ragazza che ho visto in tv: non è particolarmente bella, ma i suoi spettacoli sono accattivanti e lei seducente, quindi la riconosco subito. Ci scambiamo uno sguardo fugace e la perdo nell’ambiente fumé; Francesco e Daniela se ne accorgono e ammiccano: “Hai colpito ancora, Fil”. Quando mi alzo per andare in bagno la cerco consapevolmente, ma non la trovo: è andata via. Le scrivo allora un messaggio dei miei, rintracciandola velocemente su Instagram. “Che fine hai fatto, Alma? Sei andata via e non hai neanche salutato!”. Non mi aspettavo una risposta repentina, ed è per questo che l’adrenalina sale quando mi chiede, dopo la visualizzazione subitanea: “Ciao. Ma quando, e soprattutto dove?”. “Eh, ormai sei andata via”, le rispondo. “Sai, è un Porto fluviale: c’è chi viene e c’è chi va.” “E tu perché non mi hai avvicinata? Sei forse un marinaio?”. Ho l’assist, sono pronto a segnare in rovesciata. “No, sono un ferroviere, e i treni passano una volta sola”. Chiudo. Al tavolo i miei amici mi aspettano. Siamo diretti in un locale di musica latino-americana per ricordare i suoni colombiani del nostro primo incontro, e all’uscita trovo dieci messaggi di Alma. Non le rispondo; volevo solo vedere se riuscivo a conquistarla, non mi piacciono i riflettori, sai che fastidio vivere con una donna il cui sorriso diventa l’obiettivo di orde di uomini? Non ci penso neanche.

Forse dovrei vedere uno strizza, ma non mi va. Sì, lo so che è un concetto sdoganato ormai, ma io continuo a pensare a quest’epiteto, e a preferire la spremuta di arance a quella di cervello. Non berrei sostanze di colore grigio, mi farebbero repulsione, figurati se sapessi che provengono dalle mie idee sventurate.

Torno a casa da solo: Daniela e Francesco hanno preso una stanza in un b&b nei pressi della stazione; peccato, mi avrebbe fatto piacere continuare a parlare con loro. Daniela ha aperto un blog ultimamente, e dice che scriverà un racconto su di me, ma poi non lo pubblica mai. Sebbene mi definisca il suo alter-ego, credo ritenga il mio un caso senza speranza; non si rende conto che sceglie tizi impossibili e disadattati anche lei, rifuggendo tutti quelli che assomigliano alla “regina”. Le cosiddette persone sane, quelle che sorprendono inviandoti i tappi delle birre bevute insieme davanti a un tramonto di mesi prima, e da cui hai avuto un istintivo e irrefrenabile desiderio di fuggire. Quelle sì che potrebbero essere considerate un addendum, ma noi no, non ci fermiamo: siamo il vento, non abbiamo fissa dimora, guai a placarsi.

Vado in bagno. Mi tolgo le scarpe, avendo cura di non sporcare per nessun motivo al mondo il tappetino che giace ai piedi del lavabo. Mi infilo sotto la doccia: ho voglia di dormire profumato stanotte. Tiro via le gocce dalle porte di vetro con uno strumento che ho comprato ad hoc su Amazon: c’è troppo calcare nell’acqua di Roma. Mentre sono in procinto di distendermi sotto le lenzuola, e già assaporo la mia posizione a quattro di bastoni, mi sovviene che non ho controllato di aver chiuso la macchina. Cazzo! “Dormici su, mi dico”. Non ci riesco ovviamente, e quindi scendo. Di parcheggio non ce n’era nei pressi di casa, e sono costretto a percorrere una lunga porzione di strada malvolentieri. Una volta a destinazione, mi avvicino alla portiera e provo ad aprirla, ma ovviamente è chiusa. Sono un idiota! Sulla via di ritorno, mentre elaboro a fondo questo concetto che mi infastidisce appena appena, come tutte le cose che non riesco a dominare, d’improvviso incrocio nel buio una sagoma femminile: è Alma, ne sono sicuro, e sembra provenire da una visione notturna. Devo essermi addormentato, sto sognando: quante possibilità ci sono che abiti nel mio quartiere? Roma non è mica Fiuggi! Mi riconosce e procede verso di me: prodigi delle foto profilo sui social e delle relazioni virtuali. Non mi dice niente, se non che ha voglia di stare con un ferroviere, e allora la faccio salire sul treno. Beviamo vino rosso e chiacchieriamo nel mio salotto minimal, le piace – afferma – e io devo aver ricevuto qualche strano sortilegio perché perdo il mio spirito brillante e insieme la parola. Allora si alza, ringrazia in maniera ironica e dopo poco se ne va. Mi bacia fugacemente sulle labbra e scompare, come nella peggiore prosecuzione del sogno da poco cominciato.

Chiudo nuovamente la porta dietro di me, e sospiro. Resto così per qualche minuto e poi in un baleno mi è tutto chiaro. Vado dritto verso il telefono e cerco il contatto di Alma su Instagram. La blocco. Poi apro Facebook e faccio la medesima cosa. Fortunatamente questa casa non è mia, tra due mesi scade il contratto; lei non può saperlo. Se fosse entrata in camera da letto avrebbe visto gli scatoloni, ma non lo ha fatto, né tantomeno io ve l’ho indirizzata. Anzi, a dirla tutta, non ho avuto neanche il coraggio di sfiorarla con un dito; sembrava fosse di vetro e che potessi infrangerla da un momento all’altro.

Non mi troverà mai, sono al sicuro.

Mi rassereno e smetto di sudare, il cuore rallenta.

Ci sono andato troppo vicino stavolta, non deve mai più ripetersi, maledetto destino!

Devo cercare un’app che mi ricordi di controllare la macchina un attimo dopo averne bloccato la serratura; se esiste un tostapane per selfie, avranno di certo brevettato anche questa: è di gran lunga di maggiore utilità.

Gli imprevisti sono campi minati, e io odio le armi: sono un pacifista.

Filofobia, dicevamo… sì, ora ne sono certo: l’etimologia è quella giusta.

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Occhi al cielo

“Non gettare la cenere nel piatto, mi dà fastidio!”

“E perché? Si lava!”.

Occhi al cielo.

“Leva il tablet a tuo nipote: viene due volte l’anno, vuole stare con te!”.

“In questo modo cresce, è una finestra sul mondo, e poi non ho tempo: devo lavorare, IO!”.

Occhi al cielo.

“Non bere troppo stasera alla festa: poi mi costringi a litigare con qualcuno!”.

 “Una volta che usciamo, che pesantezza!”.

Occhi al cielo.

“Andiamo al cinema? È uscito il nuovo film di Ozpetek!”.

“Ancora? Se ne hai visto uno, li hai visti tutti; a breve entra in piattaforma, lo sai che detesto i luoghi affollati e poi i sedili dei cinema sono scomodi!”.

“Ma… grazie a lui abbiamo scoperto Palazzo Mannajuolo, ricordi? Convincemmo il portiere a farci intrufolare tra i residenti; abbiamo quella foto bellissima: io distesa a terra e tu dalla cima con la Reflex a cogliere ogni onda… delle scale, dei miei capelli!”.

“Eravamo sempre in giro col naso all’insù a quei tempi, l’avremmo scovata comunque!”.

Occhi al cielo.

Forse è così che finiscono le storie d’amore. Mentre si alzano gli occhi al cielo, in cerca di qualcosa che è lontano dalla nostra intimità come le nuvole. Soffici, anche se a volte minacciose, stanno più loro in prossimità della nostra anima di quanto lo siano le cose che erigiamo sull’altare della quotidianità. Vi preghiamo innanzi, genuflessi, e a tradimento ci uccidono. Le malediciamo, e insieme non ce ne riusciamo a liberare.

Questo pensava Sofia, a tarda sera. Una giornata pesante, come tante. Una relazione logora, come tante. Uno scampolo di leggerezza nella birra con Giada, l’amica di sempre, quella col sorriso sincero; quella che non si dispera mai perché ha imparato che i lamenti vanno a riempire uno zaino già stracolmo in cui il ragazzino ripone sempre i libri sbagliati: errori di distrazione. “È intelligente, ma non si applica”, la solita solfa!

Rompere il vetro che protegge la teca, cercare una via di uscita senza silenzi, senza bugie… si può? Domanda retorica. L’hanno cresciuta puntandole gli occhi negli occhi in ogni circostanza: se c’è un ostacolo si trova il modo di affrontarlo, non di aggirarlo; se si deve arrivare in un posto si sceglie la strada di fronte a noi, non si cercano scorciatoie; se c’è qualcosa che ti agita, si tenta di risolverla, non la si ignora; capito?

E passavano i giorni, intanto.

Una liberazione semplice a portata di mano: il tradimento. Un angolo di evasione in cui rimuovere le incertezze generate da tre lustri di convivenza: le cene non più romantiche, il sesso non più passionale, i ritorni a casa non più desiderati.

“E’ la volta buona che cedo ai corteggiamenti di Alessio: è spiritoso, interessante e m’insegue da tempo; condividiamo un destino incerto di collaborazioni occasionali che sappiamo entrambi rimarranno per sempre tali. Sarà così anche per i nostri incontri. Ogni mattina scova un posto diverso dove far colazione: nell’ultimo si vedeva il monte Epomeo stagliarsi su un lembo di mare incontaminato. Ho pensato per un attimo fosse il panorama più bello che avessi mai visto, ma non è vero, non ne esiste soltanto uno. Le sfumature di colori che il sole assume, quando si leva e quando si pone, mi lasciano in ogni porzione di globo, basita. Lascerò fare al caso: ho accettato il suo invito a pranzo, vedremo.”

Nel frattempo Marco aveva già deciso. Amava l’idea di Sofia, ma lei non più. Ne era diventato pazzo quella volta in cui era andato a prenderla a lavoro. Era uscita dal locale dopo un’intera nottata di Negroni, Gin fizz e Bloody Mary; qualcuno aveva provato a “rimorchiarla” spiegandole che il Rusty Nail doveva il suo nome al colore dei chiodi arrugginiti, e lei si era sorpresa, come sempre quando scopriva qualcosa che non conosceva, ma subito dopo era già con il pensiero a quel tipo dalle orecchie grandi che aveva conosciuto di recente. Il “surfista” lo chiamava Giada, ma Sofia non lo aveva scelto per le spalle larghe: aveva ironia, e l’ironia era l’unico vento capace di scuotere la sua curiosità; con gli altri si annoiava subito.

Quella sera Marco era lì fuori ad attenderla; centinaia di auto nel centro modaiolo della città e lui fermo in un ingorgo. Sofia si intravedeva appena; in lei non c’era niente che tradisse stanchezza, nervosismo o stress, era luminosa. Lo aveva quasi raggiunto. Lui, che al volante sembrava un’amazzone con una mammella di troppo, e quindi incapace di cavarsela nella foresta, le faceva segno da lontano perché lo sportello di destra era rotto. Doveva trovare un modo per defilarsi dal caos, fermarsi, scendere e consentirle di entrare nell’abitacolo, ma non sapeva come fare. E allora era successo: Sofia, dalle braccia tintinnanti e sottili ma ben tornite, il sorriso aperto di chi non conosce scoramento, con un guizzo si era infilata dal finestrino, e in un secondo si era seduta a fianco a lui. I conducenti delle auto intorno erano esplosi in fischi e applausi.

“Ecco qualcuno che mi sorprenderà per tutta la vita!” – aveva pensato Marco – . Erano tempi lontani, comunque. A scuola ci insegnano il trapassato remoto, anche se nessuno lo usa più. Ora ne scopriva il senso. “Fummo innamorati” – sussurrò, mentre giocava a disegnare cerchi col fumo in cerca di un modo indolore per chiudere quella storia.

Sofia l’indomani era a pranzo con Alessio. L’aveva condotta in un ristorante con vista sul “Gigante buono” dell’isola, e le aveva raccontato di una leggendaria porta di accesso alla civiltà sotterranea degli Agharti, un popolo evolutissimo che da millenni risiederebbe nelle viscere della terra. Alessio era furbo: sapeva che Sofia era curiosa, ma purtroppo per lui aveva le orecchie piccole, e quando si era avvicinato per baciarla, lei si era ritratta: Marco la stava aspettando, era ora di rientrare. Si imbarcò e tornò nella casa che avevano arredato insieme con decine di foto scattate in ogni angolo del mondo. Quando infilò le chiavi nella toppa, lo trovò sul divano; guardava un tg a loop, lo sguardo distratto di chi non sguscerà di nascosto nella doccia dietro di lei per fare l’amore.

A cena la conversazione era assente: Sofia volteggiava con le parole, come sempre; lui era cupo, l’atteggiamento ostile degli ultimi tempi stampato negli occhi. “Un nemico in casa”. Fecero capolino bollette e banalità di ogni sorta.

“Marco, parliamo di noi, del muro eretto in questi anni e non a tradimento in una sola notte; della mancanza di bellezza, di complicità che ci sta investendo?”.

“E dai, Sofy, ma di cosa dobbiamo parlare? Non c’è niente che non vada, è un periodo di fiacca. Il lavoro non mi soddisfa, non ho mai centrato un obiettivo, non amo più me stesso, mica te !”.

Una girata subitanea di spalle diventò il segnale più evidente di una bugia.

Fu presto mattina e Sofia non lavorava quel giorno, ma si alzò lo stesso e preparò il caffè: amava il rituale della colazione su quel tavolo inondato di luce. Peccato che lui ingoiò l’oro nero senza godimento, come da copione, prima di infilarsi repentinamente nella doccia. Un attimo dopo era già sulla soglia di casa; la borsa di lei comprata a Castro e messa a tracolla, lo sguardo sfuggente: “Vado a lavoro”, bisbigliò. “A stasera”. Ma Marco non tornò quella sera. E neanche la sera dopo. E così via, per vari giorni. A tornare furono solo le sue parole, in forma gelida, nel bianco e nero di una mail. Parlava di insofferenze, di frustrazioni personali, di insoddisfazione, di disamore verso sé e il mondo intero. C’erano complimenti a Sofia sparpagliati per tutto il testo, come all’indirizzo di una donna-angelo, lei che saliva sui marciapiedi con l’auto per invertire i sensi di marcia e condurli via insieme, lontano.

Un mondo cadde.

Sofia capì solo in quel momento che è fin troppo facile voler bene alle persone che amiamo. E’ nel momento in cui smettiamo di amarle che risiede il senso di quanto abbiamo vissuto. E’ il coraggio di guardarle dritte negli occhi e dire quella frase dolorosa, ma magica: “Non ti amo più” che fa la differenza. In solo quattro fortissime parole c’è la cifra distintiva di ciò che è stato, e l’ingrediente principale di ciò che sarà: amicizia, rispetto, disistima o disprezzo.

Sono trascorsi diversi anni, e Sofia sta parlando al telefono con Giada. Hanno appena prenotato per “l’isola che non c’è”, temeva non ci sarebbe mai andata. Dopo due mesi da quella famosa mail, Marco si era fatto fotografare lì con l’amica della sua segretaria; quanti clichet può contenere una sola immagine? Non era riuscita a contarli.

Giada è entusiasta; il tempo della disdetta del loro viaggio in Giamaica è lontano: l’ha perdonata, Sofia si era innamorata. D’altronde non si sono mai perse: avevano appena 14 anni quando si sono prese per mano. E’ tempo ora di liberazione, di consapevolezze. E’ il tempo della scoperta, della memoria catartica.

Quando giocava a nascondino da piccola, un giorno un suo compagno – Federico – si rintanò in un buco dietro la cabina di un lido, e non ne uscì più. Il tempo passava e tutti presero a cercarlo, ma era calato il buio e la madre era disperata. Venne sera e le persone, ormai stremate, iniziavano a far ritorno a casa, ma Sofia ebbe un guizzo ed esclamò: “Fede, esci, hai vinto TU!”, e lui apparve all’improvviso. La madre, come se stesse assistendo ad un miracolo, gli corse incontro e gli urlò: “Amore mio, ti eri perso o eri rimasto intrappolato?”. Avevano solo undici anni, ma Sofia ricordava esattamente la risposta di Federico: “No, mamma, volevo solo vincere!”. La ragazza a quel punto era trasecolata, attendendo lo schiaffo che al posto dell’amico avrebbe senz’altro ricevuto, un rimprovero, un’occhiataccia che significava: “A casa facciamo i conti!”, ma non arrivò niente di niente. Alla madre di Federico scese solo una lacrima, silenziosa, solitaria, vinta. Fu allora che il padre invece, arrivato per ultimo, esclamò: “Che stupido, mio figlio: ancora non ha capito che nella vita bisogna imparare a mentire!”. Sofia, incredula, guardò la sua, di mamma. Uno sguardo d’intesa le confermò quello che già le era stato insegnato fino a quel momento. Mano nella mano, sulla strada di casa, la mise in guardia: “Sofy, nella vita incontrerai persone più abili a nascondersi che a rivelarsi; più inclini a tacere le verità, che a comunicarle. Ti relazionerai con loro e scoprirai quanto arduo sia. Spesso, per proteggere sé stessi, ti feriranno; passerai tempo a cercare di interpretarne i comportamenti, e questo tempo ti accorgerai solo dopo di averlo perduto. Perduto, attenzione, non sprecato. Troverai il modo di recuperarlo. Non ti raccomanderò di evitare queste persone: al mondo ce ne sono tante, e poi… ricordi quando cadesti dal seggiolone? Erano almeno 10 minuti che io e papà ti dicevamo di non dondolare. E tu? Niente. A quarant’anni cadrai probabilmente con la stessa identica dinamica. Sei mia figlia, ti conosco, inutile dirti cosa fare. Promettimi però, che nonostante le delusioni – perché arriveranno, eh sì, se ne arriveranno -, rimarrai fedele al tuo credo. Semplice semplice: RIVELARSI, sempre.”

Sofia si scosse, le sembrava di essere tornata indietro nel tempo.

Tutte le ipotesi si erano realizzate con precisione scientifica.

Sorrise.

Alzò gli occhi al cielo, ma stavolta in quel gesto non c’era stizza, insofferenza o rabbia. Il cielo era la direzione nella quale, ormai da tempo, cercava conferme. “Stai là, adesso. Mi aiuterai vero, a trovare il modo di recuperare il tempo?”.

La telefonata era finita. Posti A17, C17.

Non c’è nessun luogo da dover evitare se il nostro cuore ha smesso di guerreggiare.

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La pecora nera

Il sole si è appena sollevato, e anche io.

Sono in ritardo, come accade spesso da quando ho scoperto che l’essere umano può anche procrastinare gli eventi, senza necessariamente scatenare un’invasione aliena. Avranno altro da fare quei controversi mostri dalle orecchie buffe, piuttosto che tenere sotto controllo il mio letto disfatto ed il piano cottura, in attesa che torni del suo colore originario. Al ritorno la casa sarà ancora in piedi, e anche io, che nel frattempo avrò conquistato un po’ di sano menefreghismo: per certi versi, e relegato ad alcuni contesti, è assolutamente indispensabile. Oggi entro prima in ufficio, c’è una riunione; farò comunque in modo di arrivare in tempo utile per non offendere la parola puntualità.

Stamattina “la rotonda del male” è più ingombra del solito e temo che il traffico mi inghiottirà, ma la mia curiosità vince su tutto e dirigo comunque lo sguardo nelle macchine altrui: c’è un padre nervoso e un bimbo che piange, forse non vuole andare a scuola; c’è una madre dall’aspetto trascurato con una ragazzina troppo truccata per le prime luci del mattino: non stacca gli occhi dallo schermo del suo telefonino e sarà in chat con la persona per la quale ha esagerato con il rimmel; ci sono marito e moglie che litigano – per futili motivi, immagino – e poi LUI. E’ solo in auto e ha uno sguardo impenetrabile: potremmo almeno percorrere una strada diversa per andare a lavoro… no, la sorte su questo versante non mi ha mostrato benevolenza.

Da quando le nostre scrivanie sono adiacenti, mi secca andare in ufficio. Trascorrerei tutte le giornate al mare, come -immagino-  altri cinque, sei miliardi di persone. Non devo essere così originale, e non ho mai avuto la pretesa di esserlo: anche la banalità ha il suo fascino. Pertanto, oggi siederò comunque al mio posto e appena ne avrò l’occasione mostrerò le spalle a chi non ha voluto o non ha potuto farmi entrare nella sua vita; poi passerò innanzi, come in tutte le situazioni che impongono di cercare una strada alternativa.

Uso raramente la bilancia, ma i passanti del jeans mi ricordano che non sono più così esile. Pazienza, esclamo. Mi piaccio di più così, e sembra che anche gli altri condividano questa mia convinzione. Forse perché ho meno rughe e il volto appare più disteso – ho solo ricominciato a dormire – o forse perché i chili in più trasmettono allegria. Concato lo cantava in tempi non sospetti e mia sorella ne calcava il ritornello con una certa tendenziosità già quando eravamo ragazzine: ancora una volta aveva ragione. Mi soffermo a pensare ai paradossi quotidiani: la mia apoteosi di magrezza è coincisa con la mia maggiore pesantezza; oggi invece, che continuo a creare nuovi buchi alle cinture, mi sento, dopo un tempo infinito, leggera.

Calvino esaltò la leggerezza, rifuggendo l’assimilazione del suo concetto a quello di superficialità, e inoltre specificò: è l’assenza di macigni sul cuore. Come contraddire un autore di tale fama? Impossibile. Però… suvvia, siamo realisti: chi è che non reca macigni sul cuore? Forse le persone leggere sono quelle che fermano il moto perpetuo dei macigni, impediscono loro di rotolare e li pongono in un angolo ben visibile, per ricordarne l’esistenza, nel bene e nel male. I macigni si ingrandiscono lungo la via, ma nascono come granelli di sabbia; è spesso il nostro agire che contribuisce a deformarli. Per il resto la leggerezza non è superficie, concordo: potrei difatti essere un dive-master se non odiassi le bombole, le pinne e le seconde pelli. Sono dei pesi anche quelli, e io non voglio più intralci. Dive-master della terra invece suona meglio e mi riesce più congeniale.

Alla macchinetta del caffè quindi, oggi come ieri, chiederò a Luca come sta, e quando andrà in Olanda a far visita al piccolo Phil. Lo ascolterò nelle sue critiche piene di amarezza alla moglie, che gli impedisce di vedere il figlio abbastanza quanto un padre vorrebbe, e scorgerò di nuovo i suoi occhi riempirsi di lacrime al pensiero di una famiglia persa ancor prima di costituirsi. Mi fermerò anche con Clara, che chiede sempre: “Eva, hai un minuto?”. A casa sua il dialogo è inesistente e soffre di solitudine, perciò già dopo le prime battute si trasforma, in genere, in un rubinetto dalla guarnizione logora.

“Tipi da evitare” dicono in ufficio, ma io voglio essere diversa, voglio essere la pecora nera. Prima di andare in Islanda – confesso – credevo esistesse solo nelle illustrazioni di Andrea Valente. Aveva un suo fascino quella pecora che aveva viaggiato dalle montagne del Trentino al carcere di Nisida per insegnare ai ragazzi il valore incontestabile dell’utopia. Quel sogno che ci impone di continuare a cercare caparbiamente un lato positivo, pur nella apparente negatività. Un segno di speranza dunque, che non ho mai considerato nell’accezione negativa che gli attribuisce la lingua italiana. Chi è curioso sa che solo l’ignoranza iniziale degli allevatori la disprezzò; era rara invece, e dunque preziosa. Contraddizioni dei detti popolari, che se da un lato affondano le radici nella saggezza degli anziani, dall’altro si nutrono di pregiudizi. La mosca bianca, ladra di Dna e distruttrice di interi raccolti, ne è un’ulteriore conferma.

Scoprire che il personaggio tanto amato da ragazzina esiste davvero, non lo ha tuttavia privato ai miei occhi della sua unicità; come una pecora nera ascolterò, pertanto, la profusione di parole che mi investe, assumendo per un attimo le sembianze di una pattumiera. La ruota gira: in questo turno tocca a me essere riempita e non ha importanza alcuna che i destinatari dei miei rifiuti di ieri non coincidano con quelli che me li riversano addosso oggi. Se esiste una catena alimentare indispensabile alla sopravvivenza del pianeta, perché non crearne un’altra di tipo verbale, volta ad annientare le parole-spazzatura? Chi è più stabile emotivamente è giusto si prenda – per un lasso di tempo non perenne, ovvio – le preoccupazioni degli altri; prima o poi cambierà ancora ruolo, è la vita. Colui che non si presta mai a diventare rifiuto vive nell’igiene più totale, ma come farà a trovare un cestino quando gli occorrerà? Mentre la metamorfosi si compie nella mia testa e inizio a immaginarmi gocciolante di polemiche e ripugnanze di ogni tipo, m’imbatto davvero in Luca e Clara: hanno tante di quelle cose in comune che mi viene naturale consigliare loro di frequentarsi anche al di fuori di questo grigio ufficio; chissà se mi daranno retta mai: “Eva, non dire sciocchezze, abbiamo altro a cui pensare!” Perché, cosa c’è di più interessante dell’amore? Desisto.

Lui è già al suo posto, su un finto piedistallo come sempre, ma io non sono a disagio; sono arrivata puntuale ed esibisco con fierezza i cornetti che ho trovato il tempo di comprare. “C’è un motivo per questo fastidioso e assordante entusiasmo?” mi chiede; oggi però non ho voglia di rispondere. Sarei sgarbata e gli direi che l’allegria è contagiosa, ma solo per chi non rafforza il sistema immunitario a dismisura anche contro i sentimenti. Cosa voglio che ne sappia lui, che si sente Atlante pur senza averne le spalle?

La vita ieri mi ha sorpresa ancora, svelandomi un aspetto dei social che non conoscevo. Spesso mi trovo a riflettere sugli utenti di Facebook & co. e mi diverto a separare gli ossessivi compulsivi, che non hanno più neanche una goccia di tempo per la vita reale, dai guardoni finti disinteressati, che sanno tutto di tutti, e intanto non dicono niente di sé a nessuno. Per diversi motivi li catalogherei entrambi come soggetti evitabili. In serata invece, tornando a casa immersa nei miei pensieri, ho avvertito il suono di una notifica e ampliato i miei orizzonti: i social funzionano anche come riserva da cui attingere emozioni. Consentono di “rincontrare” persone sfuggite alla vista dopo decenni, e con uno scambio imprevisto ci trasportano lontano, accarezzandoci con l’idea che davvero l’improbabile possa diventare probabile. Sono illusioni il più delle volte, sia chiaro, e vanno vissute come tali, ma il cuore è un muscolo, e svegliarsi con l’organo indolenzito a causa dell’acido lattico ha un suo affascinante perché: ricorda i pericoli derivanti da una possibile atrofizzazione.

Tale scoperta mi mette in una condizione diversa oggi con Aldo: sei di passaggio, come me, come tutti gli altri, quindi perché perdere tempo prezioso a tentare di essere l’oggetto del tuo desiderio? Potremmo essere amici, magari. Qui c’è da coltivare speranze, non da raccogliere disillusioni. Ognuno ha le proprie, bastano e avanzano. Ad un amico tutto è concesso, a un futuribile compagno no. D’altronde, come dice sempre quel tizio in spiaggia quando parla della sua solitudine ormai acclarata senza celare del tutto l’amarezza: da adulti non si insegue più la perfezione, si è difatti consapevoli che non esiste; l’obiettivo è piuttosto quello di cercare, con lo stesso fervore con il quale Diogene nella sua botte rincorreva l’uomo semplice, una compatibilità di difetti. Concetto molto più abbordabile, purché  non sfoci mai nell’accontentarsi.

Nella vita ho scelto più volte persone che mi depotenziavano: perché non amavano quello che amavo io, perché ero troppo espansiva o troppo pignola; troppo snob o troppo ingenua; troppo vanitosa, troppo low-profile, troppo maestrina o troppo alla ricerca di un animale da compagnia. Troppo leggera, troppo pesante, troppo indipendente, troppo sognatrice; troppo Alice, troppo loquace, troppo attaccata alla mamma, troppo malata. Ma io non sono mai stata troppo di niente. Ero e sono semplicemente me stessa. Un po’ pecora nera, un po’ mosca bianca, nei reali significati e non in quelli convenzionali: sono preziosa, ma posso anche diventare deleteria, come tutti quelli che vogliono fare, e pertanto sbagliano. Solo chi non agisce non sbaglia mai. Perciò, mentre mi accingo a salutare per sempre Aldo, mi concentro su ciò che il Fato vorrà riservarmi; se deciderà per il niente, farò in modo che questo niente diventi tutto e vada ad affiancarsi alle cose preziose che ho ricevuto sin dal mio primo vagito, e che sono molte di più di quelle che ogni essere umano speri di collezionare.

Domani andrò in campagna a cercare un’altra pecora nera; non può di certo esistere solo nell’isola che deriva il suo nome dal ghiaccio e che invece è fuoco in ogni dove. La troverò, la guarderò negli occhi e le chiederò un incantesimo: “Potenziami!”; a ben vedere, tutti meritiamo qualcuno che scorga la parte migliore e più nascosta di noi, la prenda tra le proprie braccia e la preservi, senza calpestarla mai. Altrimenti è più opportuno proseguire il viaggio da soli: non si è mai vista una pecora al guinzaglio.

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Occhi di tigre

“Nonna, nonnaaa, nonnaaaaa!” “Cosa c’è, occhi di tigre? Sei appena arrivata e già “fai vento”, che succede? Tutto bene a scuola?”. “Sì, nonna, hai ragione, mi siedo, ma puoi farlo pure tu? Pranziamo dopo, dai, non morirò certo di fame, ho bisogno assolutamente del tuo aiuto! La prof ci ha chiesto per domani di rispondere a una domanda esistenziale attraverso un mito, devo inventarlo io, proprio io, ma come si fa? Lo so che lei vuole stimolarci a creare, ad esistere e non a vivere, come dice sempre, ma stavolta ha esagerato! Che ne so io di domande esistenziali?”. “Dai, occhi di tigre, certo che le conosci, ogni giorno me ne poni tante, le più disparate, e neanche te ne accorgi. Scegliamone una e ti do una mano mentre cuciniamo gli gnocchi, volevo prepararli per tua madre: è sempre di corsa ultimamente e in questi giorni la vedo più stanca del solito. Stringiamo un patto: tu mi affianchi nella preparazione, e nel frattempo parliamo del tuo compito. Vedrai che quando li infileremo nel forno avremo anche finito, che ne dici?”. “Va bene, nonnina, se lo dici tu… Già che ci siamo, prepariamo anche le polpette a forma di cuore? Adoro vederle friggere: io, quando incontro Matteo, il mio cuore lo sento sfrigolare proprio come quando le caliamo nell’olio bollente. E’ così che fa l’amore, nonna? Pungola, sfrigola?”. “Eccola qua la prima domanda esistenziale, vuoi scrivere di questo?” “Nooo, nonna! Io parlo di amore tanto per fare, mica sono una romantica! Ah, lo sai che ieri ho raggiunto con la bici nuova che mi ha regalato papà un posto meraviglioso e ho visto un arcobaleno nitidissimo? Dopo tutta quella pioggia aveva dei colori sgargianti; non mi stancherò mai di guardare la natura, quante incantevoli manifestazioni ha! Non è mai uguale a sé stessa, vorrei essere un arcobaleno. Potrei rinascere arcobaleno, nonnina?”. “Eccone un’altra, mia nipote che è tutto fuorché romantica! Vogliamo parlare di questo, che dici, per il tuo compito? Mi sembra un argomento davvero interessante!”. “No, nonnina. Io vorrei che il mio compito salvasse il Pianeta, che desse una risposta ai problemi, al futuro, a quello che ci stanno rubando gli adulti con gli occhi cattivi!”. “E chi sarebbero questi adulti? Non ho capito, cuore mio!”. “Quelli con gli occhi stretti stretti, nonna. A scuola abbiamo parlato della fisiognomica: era una “scienzanonscienza” che studiava i tratti del volto delle persone e li associava ai loro comportamenti; ora non ricordo bene, devo riguardare gli appunti, ma mi pare che le persone con il labbro superiore sottile siano bugiarde; quelle con gli occhi stretti stretti violent…”. “Ma che sciocchezze sono queste, occhi di tigre? Il nonno Giancarlo che occhi aveva?”. “Stretti stretti, nonna. Ed era l’uomo più buono che esistesse sulla faccia della Terra. Sarebbe secondo solo a te, se tu fossi uomo. Scusami, hai ragione! Quanto avrei voluto conoscerlo, mi avrebbe resa felice! A volte mi pare di vederlo mentre si nascondeva nel palazzo per osservare te alla mia età che scendevi le scale di fretta. Mi sembra di sentire la sua voce che vince tutte le paure e inizia a corteggiarti, sprezzante del pericolo. Nonna, perché vi hanno osteggiato tanto?”. “Eravamo giovani, occhi di tigre; a mio padre premeva che “mi sistemassi”, che il mio futuro marito avesse un lavoro. Giancarlo era poco più di un ragazzino, ma aveva un grande ingegno e mi amava sopra ogni cosa: la sua dedizione e la sua forza di volontà ci hanno uniti presto, ma io lo avrei sposato anche se fosse stato povero in canna. Il denaro, che grettezza quella di chi pensa che dia la felicità! Certo, aiuta a rendere il cappotto meno stretto, ma quanto poco riscalda quel cappotto se non ha i bottoni cuciti con amore! Prima o poi capirai quello che sto cercando di dirti, piccola mia! Se sei fortunata come me, lo scoprirai a breve”. “Nonna, lo so che faccio gli stessi voli di quel poeta greco antico… non mi ricordo mai come si chiama, cavol… ma perché – DEVO proprio dirtelo – PERCHE’ hai tagliato i tuoi meravigliosi capelli biondi? Dove sono finiti, e io adesso come li pettino? Dovrò imparare a fare le trecce alla francese, ti piacciono? Nonna, ma dove vanno tutti i capelli del mondo? Non li possono trapiantare alle persone calve? A me piace più Matteo che papà: guarda quanto è bello coi suoi ricci biondi e gli occhi azzurri, sembra un angelo di quei quadri che ci mostrava sempre la maestra. Papà è un bell’uomo, per carità, ma quella testa lucida mi ricorda le palle da bowling… e allora, nonnina, non potevi chiedere al tuo parrucchiere se quelli che hai tagliato li poteva attaccare a papà?”. “Occhi di tigre, vaneggi. Papà è bruno, e poi che domanda è questa, non dovevamo cercarne una esistenziale, che salverà il mondo? Altro che voli pindarici, qui a breve ci vorrà una buona casa di cura per entrambe! Dai, pensiamo a qualcosa di serio mentre finiamo di tagliare gli gnocchi; falli un po’ più grandi altrimenti ci vorranno le lenti per mangiarli! Qual è la cosa che ti sta più a cuore, amore mio?”. “La natura, in particolare il mare, perché ho paura che scompaia. Ieri ho visto un film con Elisa al cinema. Non sono sicura di aver capito bene, ma il Tevere scompariva, nonna! Il Tevere, sì. Lo so che è un fiume ed il mare è infinitamente più grande, ma quel film sembrava reale… e se dovesse davvero scomparire? Come farò a rasserenarmi quando sono nervosa e triste; quando penso che un giorno non ci sarai più; quando ragiono sulla mia gamba, sull’operazione, e non so quanto tempo impiegherò a camminare di nuovo bene? Ecco, io vorrei inventare un mito per questa cosa qua. Vorrei sapere come si fa a rendere eterno il mare, questa è la mia domanda! E’ difficile, mi aiuti?”. “Certo, occhi di tigre. No che non è difficile, il mare non potrà mai prosciugarsi fino a quando continueranno ad esistere le lacrime!”. “Ma… nonna… e dai, che dici? Le lacrime sono fonte di dolore! Io non voglio che le persone soffrano per tenere in vita il mare. Voglio vedere regnare la felicità!”. “E chi ti ha detto mai, questa idiozia, cosa ti fa credere che le lacrime siano connesse al dolore?”. “Perché la gente le nasconde, nonna. Come nasconde le mani dopo un furto; la lingua dopo aver pronunciato parole irripetibili; il piede dopo aver sferrato un calcio a chi non lo merita; un capello bianco quando teme di invecchiare”. “Un’altra sciocchezza, amore mio. Le lacrime sono poetiche. Chi non ha ancora imparato a trasformare la vita in poesia le nasconde, solo loro. Oggi sono andata a un funerale. Non ero desiderata per motivi che non posso ancora spiegarti, non li capiresti, però sono andata lo stesso e mi sono nascosta. Volevo solo accompagnare con una preghiera coloro che restano e stanno soffrendo. Sai, molte persone ai funerali preferiscono non andare. Dicono sia per decoro, che bisogna rifuggire il presenzialismo a tutti i costi, ma non lo pensano davvero. Ne hanno paura, come di tutte le cose che non possono dominare, e in qualche modo le denuda. Però oggi, dietro alla colonna che avevo scelto come nascondiglio, ho visto una persona che credevo la vita avesse trasformato in un “osso di seppia”… sì, lo so che lo abbiamo studiato ieri, ma non è rilevante ora, ascolta! Mi aveva detto che non sarebbe andato e invece era là. E’ rimasto per poco, ma abbastanza affinché scorgessi le sue lacrime. Erano trasparenti. Le lacrime delle persone cattive sono nere, lo sai, le hai mai guardate bene? Non possono nutrire il mare perché sono velenose, lo ucciderebbero. Invece le sue sono andate a nutrire il mare: erano gioia, la gioia di chi sta facendo qualcosa di buono e di vero per qualcuno che ama. Venti anni fa, tu non eri ancora nata, ci fu una mareggiata a Genova. Il mare si ingrossò per le lacrime versate ad un funerale. Era il funerale della mia mamma, e in chiesa non si riusciva ad entrare per l’immensa folla. Sembrava a tutti che io stessi con la testa da un’altra parte, invece ero lì, e ricordo alla perfezione le lacrime di tutti quelli che vennero a stringermi, una per una. Erano talmente tante che si sollevò un tappeto impermeabile; gli astanti però non si mossero. Ai lati delle panche c’erano i cestini per le offerte, e sopra c’era scritto: “Lacrime destinate al mare!”. E quella notte stessa il mare si gonfiò.

Oggi la zia Simona è partita per Lourdes, lo sai? Ha portato una valigia in più per raccogliere le lacrime degli ammalati. Esistono borse speciali per l’occorrenza: non si riempiono mai, fino a quando ci sono gocce trasparenti da raccogliere. Credi che a Lourdes le lacrime siano di dolore? Non è così. Gli ammalati lì prendono coscienza del fatto che spesso la loro sofferenza è inferiore alle altre: chi non ha più le gambe diventa un corridore perché ha ancora le braccia; chi ha perso un figlio impara a stringere meglio l’altro che la vita gli ha lasciato; chi ha il volto deformato da un male incurabile cuce tallieur da sfilata e prepara melanzane sott’olio degne di Masterchef, e tutti piangono, ma di gioia, amore mio. Bisogna rendere grazie alla vita, occhi di tigre, perché anche quando ci appare detestabile ci ricorda che è lei stessa a fornirci la possibilità di detestarla, o di amarla. Le persone che stanno con zia Simo lo hanno imparato prima e meglio degli altri, tutto qui. Non hanno pudore davanti al pianto, non credono che sia necessario nasconderlo: piangendo stanno salvando il mare, stanno salvando il mondo”. “Nonnina, mi sono commossa, che bello: le mie lacrime sono trasparenti. Anche le tue, solo che sembrano quelle dei fumetti: sono enormi e sgorgano a zampilli, sei sicura di sentirti bene?”. “Sì, amore, sono solo un po’ stanca; ora hai il tuo compito e la sorpresa per mamma è pronta, pensi che possa andare a riposare un po’? Cambio solo stanza, non ti lascio mai, sono e sarò per sempre accanto a te”. “Va bene, nonnina, però puoi dirmi solo un’ultima cosa? Così vado a scrivere il mio testo, altrimenti lo dimentico e faccio tardi anche stanotte. Le lacrime nere… sono molte? Sono molte le persone malvagie? E quando le incontrerò, come farò a riconoscerle?”. “Le lacrime nere non esistono, occhi di tigre. Servivano al tuo mito, ma il mito è una leggenda, non è reale, pensavo lo ricordassi. Non esistono perché nessuno è veramente cattivo. Qualcuno smette talvolta di essere buono perché dimentica come si fa; qualcun altro perché la vita lo ha messo al tappeto e non trova il modo per rialzarsi; qualcuno perché non gli hanno voluto mai bene, e qualcun altro perché gliene hanno voluto troppo. Tutti però si emozionano davanti a un tramonto e aiuterebbero una vecchina a far funzionare l’unico strumento che le consente di restare in contatto con un figlio lontano; tutti trovano il tempo per confortare un amico che ha paura, e sfamerebbero una persona che non ha il tempo o i mezzi per cucinare; e tutti, tutti, quando possono, fuggono al mare. Sì, amore di nonna, al mare. E si commuovono ogni volta davanti alla sua immensità, insistendo a cercarne una fine che non comparirà mai. Il mare non potrà mai prosciugarsi come vedi, anima mia. Sta’ tranquilla”.

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L’emodromo

Mi sono appena svegliata – o almeno così sembra – e una donna con gli occhi e i capelli color pece mi osserva dal pouf che si trova ai piedi del letto. Non sono spaventata perché ha un viso talmente familiare che mi sembra di conoscerla da sempre, e poi siede in maniera così disinvolta che questo batuffolo di ovatta gigante, color arancione, sembra essere stato fabbricato appositamente per farla accomodare. Per un attimo penso di non averlo comprato a Genova tanti anni fa, ma che sia arrivato a casa mia questa notte stessa con lei a bordo. Mi ricorda quelle fate che girano sulle scope nei cieli, e che i più chiamano streghe o befane, ma che nel mio immaginario sono sempre state buone, tranne quando mi alzavo per vedere se mi avevano lasciato dolciumi e mia sorella mi terrorizzava, dicendo che mi avrebbero colpita con la ramazza pur di non svelare la propria identità.

La donna alza il sopracciglio sinistro e mi guarda con complicità; ha le fossette alle guance e uno sguardo vispo che mi ricorda diari gonfi di fotografie, autografi rubati e interrogazioni, ma non riesco a darle una precisa collocazione. La me di molto tempo fa sbatterebbe la testa contro il muro nel tentativo di ricordare, la parete si creperebbe e riuscirei a posizionare la figura nel giusto contesto, ma fortunatamente sono cambiata. Non ho tutto questo futuro, e poi sono dettagli futili che non le fornirebbero una maggiore importanza di quella che le deriva da una naturale sensazione di intimità. Non dice niente, se non: “Vestiti, devo portarti assolutamente in un posto!”.

Come avevo immaginato, il pouf è magico e diventa all’improvviso un raggio di sole; in pochi minuti siamo in un luogo incollocabile, ma non possiamo essere andate lontano: abbiamo viaggiato poco!

Fuori c’è scritto solo EMODROMO. Il greco mi viene in soccorso e non chiedo nulla: ho la sensazione che questa donna sia il mio Virgilio e io la sua allieva disorientata, in procinto di entrare nella “foresta oscura”.

In un’altra delle mie infinite esistenze -penso- sarò stata un frullatore: tutte le volte che infilo qualche ingrediente nella mente infatti, questa comincia da subito a maciullarle e poi ne restano pezzettini sparsi ovunque.

Entro con un po’ di titubanza di gran lunga inferiore alla curiosità, e freno quel mio incontrollabile desiderio di domandare: “Perché?”. Sonia mi ha insegnato, ai tempi in cui studiavamo in biblioteca, che non esiste una spiegazione per tutte le cose, e se un settantenne pretende l’appellativo di “colonnello”, in mezzo a migliaia di libri polverosi, perché crede di essere stato a comando di un importante Reggimento militare, non riuscirò di certo io a convincerlo che non sia così. Colonnello sia, dunque. Sopprimo così la mia domanda e mi affretto a valicare l’ingresso: sembra quello di un anfiteatro romano e forse lo è. Ho smesso da tempo di dubitare dei miei occhi e quindi non mi sorprendo che ci siano decine di cuori in fila pronti a partire dal via in una pista dalla forma ventricolare.

La donna dagli occhi corvini mi lascia da sola e in un attimo si materializza allo start: ha uno strumento tra le mani che sembra un fischietto, ma il suono che emette non ha nulla a vedere con le apparenze, sembra il rumore di un’emozione, penso. Poi rifletto: che rumore effondono le emozioni? Questa domanda mi stordisce e perdo lo scatto iniziale. La pista è lunga e mi sembra di essere a una corsa di Formula Uno, anche solo per la velocità con la quale vengono compiuti i giri. Non faccio in tempo a decidere chi desidero sia il potenziale vincitore, che i cuori sono già al secondo giro, poi al terzo, e successivamente al quarto. Mi gira la testa e mi sembra di essere in un mondo fittizio, ma non mi trovo su un’isola artificiale e la luce è quella di un giorno primaverile.

Ora che osservo con attenzione i corridori, ne noto le ruote: mi ricordano le ramificazioni del cervello che ho visto sul libro di scienze; mi hanno sempre provocato un gran disgusto perché le immagino vischiose e piene di tranelli. Ai bordi dei pit stop si avvicendano un numero variabile di pit crew, ma non capisco da cosa sia determinata questa differenza. Siamo al trentanovesimo giro e la mia vista è attratta dagli ultimi quattro cuori. Sembrano pesanti e non si sono mai fermati. Questa corsa incessante dovrebbe garantire loro le prime posizioni, invece no: sono ultimi, e a larga distanza. La donna misteriosa ora è l’arbitro, e segue di volta in volta il percorso. E’ in tutti i punti della pista contemporaneamente, allora l’ubiquità esiste! Quanto l’ho desiderata prima di convincermi che appartenesse solo alle fiabe! Se aguzzo la vista, noto un altro particolare che non avevo colto: i quattro cuori sono stropicciati, sembrano abiti appena usciti dalla centrifuga e di loro impressiona l’imperfezione, l’asimmetria, il disordine, il caos allo stato puro. Gli altri concorrenti sono invece levigati, piatti, come alcune donne appena uscite dai centri estetici: così perfette da sembrare fasulle, senza espressione.

Siamo al cinquantasettesimo giro e non so di preciso quando la competizione terminerà, ma non riesco a distogliere lo sguardo dagli ultimi; pare vadano lentamente di proposito ed hanno accumulato un ritardo talmente cospicuo da essere ormai fuori gioco. La mia guida riprende quello strano strumento e sancisce la fine. Il vincitore è un cuore pallido, liscio come il BAM, le cui caratteristiche gli scienziati stanno ancora provando a spiegare. Sono un po’ delusa e mi sento tornata bambina davanti alla Tv: quel cuore ha appena rivoluzionato i miei cartoni animati preferiti e Dick Dastardly ha vinto sulla vettura 00. Sento il ghigno di Muttley e lo vedo, disonesto, stringere tra le mani la medaglia del suo classico refrain.

Donna dagli occhi neri, dove sei? “Fa’ qualcosa!”.

Allora ritorna. Deve conoscermi bene perché avverte che sono divorata dalle domande e inizia a spiegare, sebbene io non abbia proferito parola.

“I tuoi preferiti, i cuori stropicciati, sono i più simili al tuo. Sono quelli che non si sono fermati ai pit stop per svariati motivi: lì si cancellano i ricordi, per rendere più veloce la corsa; lì si demoliscono le emozioni, per eliminare le zavorre lungo il percorso; lì si “stirano” i dolori, affinchè il proprio involucro ritorni levigato e liscio, in cerca di una pace e di una serenità che non può esistere senza la passione; lì i corridori si preparano a vincere gare irreali per attrezzarsi ad una vita finta e priva di scossoni, in cerca di un’atarassia che è propria solo degli dei, delle statue o dei falchi, proprio come diceva Montale. Ti starai a questo punto chiedendo perché sono venuta da te oggi e ti abbia svelato l’esistenza dell’emodromo. Io non vivo più qui da tanto tempo. Sono dovunque, sono nell’aria. Ricordo bene però quanto ti affascinava la Gigante quando parlava dell’atarassia. Volavi lontano, non so precisamente dove. Provai a chiedertelo spesso, ma tu su questo volutamente tacevi. Sei stata male, e ti ho vista. Ti ho sentita più volte invocare quello stato che ritieni di grazia, ma che in realtà non è nient’altro che uno pseudo-mondo generato da un’alfa privativa. Privativa, ricordi? Ce lo ha insegnato lei, ci spiegò che sottrae qualcosa. Giurerei di averti vista a lungo cercare sui libri e su Internet, nonché chiedere a persone che non meritavano più il tuo cuore, di aiutarti a trovare un simbolo che la rappresentasse. Dicevi che volevi tatuarlo sul collo, sai… io sento alla perfezione: l’etere affina l’udito. Ebbene, volevo che capissi, e potevo riuscirci solo facendoti assistere a questa corsa.

Chi ha vinto oggi non ha più pieghe, le ha stirate tutte, è vero; sembra perfetto, di una perfezione quasi imbarazzante, ma non ha più memoria. Non ha più paura, quella sanissima emozione che ci spinge ad andare a vedere cosa ci sia sull’orlo del precipizio: che panorami perderesti da lassù! Il cuore che ha vinto non ha più dolori, hai ragione, e non appena uno nuovo lo raggiungerà si affretterà ad andare al pit stop. Lo cancellerà e sarà ancora primo; la sua esistenza si riempirà di coppe e trofei, di velocità e di podi, ma di tutti questi apparenti successi non conserverà memoria, né troverà gratificazione alcuna. Sarà piatto, come i vinili a 45 giri che hanno incisa una sola canzone e che, ascoltati sempre, prima o poi ti vengono a noia.

Volevo solo annunciarti che tu sei destinata a concorrere in questo emodromo. Arriverai ultima e quei quattro cuori che hai visto oggi saranno i tuoi migliori amici. Il tuo compagno, forse, è tra loro; lo scoprirai quando sarà il momento. Capirai così, all’improvviso, che solo apparentemente sono arrivati ultimi. In realtà, nel tuo e nel mio mondo, ogni minuto sono i veri vincitori.

Ora devo andare. Ciao, Manu”.

“Ciao, Francy. Chissà in che posizione è arrivato il cuore che correva quella notte. Io questo non lo so, ma i nostri sì, lo so bene anche io dove sono. Bello rivederti, mi sei mancata.”.

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1000 scuse per non votare

“Ehi, Marco. Hai visto fuori che tempaccio”? “Sì, approfitto che sia domenica: tutto il giorno tv e divano”. “NO, Marco. Oggi si vota”. “E chi ci va, Manu? Non sono disposto a tornare fradicio per una massa di insulsi ladri urlatori”. “Marco, domani la pioggia sarà più intensa di questa. Accompagnerai i tuoi figli a scuola? Andrai a lavoro?”. “Certo che sì, sono cose mie!”. “Mie? Tue? Ah. I figli sono tuoi perché li hai generati tu? Il lavoro è tuo perché lo hai cercato tu, forse meritato tu, e perché a fine mese ti raggiungerà uno stipendio col tuo nome? Lo Stato è nostro, Marco. Qualcuno più illustre di noi, secoli fa, lo ha definito res publica, cosa di tutti. Lo Stato è tuo. Ne hai lo stesso diritto e dovere che hai come pater familias sulla tua domus. Immagina che tuo figlio domani resti fuori scuola ad aspettarti per ore. Gli dirai poi : Pioveva. Ti perdonerà? O quell’azione lo segnerà per gli anni a venire? Ecco: un’urna vuota è un figlio lasciato fuori scuola ad aspettare nel disinteresse. Vai a votare!”. “Quanto sei pesante ed esagerata, Manue’!

“Ciao, Viola. Andiamo insieme a votare? Vorrei andare nel primo pomeriggio perché c’è meno affluenza”. “No, cara. Io non vado a votare. Mi rifiuto di contribuire all’ascesa al potere di uno di quei fenomeni da baraccone!”. “Viola, sei più andata in quella gelateria dove siamo state l’ultima volta?”. “Sì.” “Hai preso ancora quella stracciatella che ti ha fatto stare male e hai pensato fosse avariata?” “No, chiaro che no, ho cambiato gusto!” “Ah, ok. Quindi hai deciso di dare ancora fiducia a quella gelateria… Giurerei di averti sentito dire che non ci saresti tornata mai più, dopo aver rimesso anche l’anima!”. “Beh, ho concesso il beneficio del dubbio, in fondo la gelateria è di un MIO amico!”. “Ah, di un TUO amico. Beneficio del dubbio. Ok. E perché allo Stato non è concesso concedere fiducia, eh, Vio’? Lo stato non è TUO amico? Pensa che la mafia è nata proprio per mano di gente che diceva questa frase qua. Lo stato non è mio amico, la mafia sì, mi protegge. Concedi un’altra possibilità allo Stato. Magari questa volta non è avariato. Magari questa volta diventa pure lui TUO amico!” “Impossibile, Manu, lo stato non diventerà mai puro perché le persone che lo governano non lo sono! E non insistere, lo sai che sono più testarda di te!”

“Ciao, Vincenzo, ho saputo che hai messo su famiglia! Sono felice per te. Come stai?”. “Bene, Manu, perdonami. Sono mesi che vorrei chiamarti, ho saputo. Scusa, non ho trovato il tempo!” “Figurati, Vi’. Sto benone. Hai ancora la residenza lontano o ora ci vivi per davvero nel posto che indichi sui documenti?”. “No. Ora coincidono. Non mi serve più un luogo di mare per nascondere una provincia che non ho mai amato. Solo la macchina è ancora intestata a mio fratello, sai, a Pavia si paga di meno l’assicurazione”. “Bene, oggi quindi andrai a votare?” “No, Manu. L’ho fatto solo a 18 anni per l’ebbrezza del gesto in sé, ma non ci credo mica nelle elezioni! Poi guarda, non so manco come si fa, quante sono le schede. Voto disgiunto, lista uninominale, coalizioni… no, non è roba per me!”. “Ti spiego io, ci vogliono due minuti. È roba da ragazzi. Pensa che ora hanno esteso il diritto di voto al Senato anche ai diciottenni. Fermiamoci un attimo al bar, su Internet ci sono i fac-simile delle schede, te li mostro!”. “No, Manu, vado di fretta! E poi… ancora questa maledetta aria da ALICE!  Ma non era mica vero – quando stavamo insieme – quello che ti dicevo! Davvero hai creduto che non andassi a votare perché la sede elettorale era lontana 200 chilometri? Io non ci andavo per abulia, per indolenza, perché sono un incostante, un menefreghista. Allora ti amavo, come facevo a dirtelo? A te, che ogni vigilia delle elezioni citavi Mameli, i fratelli Bandiera e quello riccio e biondo… come si chiamava? Pisacane, mi pare… Eran trecento, eran giovani e forti, e sono morti! Che angoscia, Manu!”. “Ah, ok. E io che pensavo ti piacesse, pensa un po’, l’avevi persino imparata. Lascia stare, dai. Mi spiace solo pensare che quegli eroi sono morti per unire un paese in cui dare il diritto di voto pure a te. Buone cose a te e a famiglia!”.

“Proooooooofffffffff! Come sta? Da quanto tempo! Che è successo, dov’è il suo proverbiale sorriso?” “Francyyyyyyyy!!! Scusa, incontri avvilenti stamattina! Niente di importante (Magari…!). Quanto sei diventato grande! Sembra ieri che raggiungevo Ischia tutte le mattine, e tu lì, sempre pronto ad accogliermi con gli occhi sgranati e quella voglia ardente di imparare! Quanti anni hai ora? Fammi fare un rapido calcolo… Mmmhhh, diamine: 23! Sono vecchia! E tu bellissimo! Dove stai andando in compagnia di questo irrefrenabile entusiasmo?” “A votare, prof! Ormai lavoro qui. Indovina cosa faccio? Sì, prof. Insegno. Ai bimbi, non ai ragazzi, ma lei diceva sempre che le azioni grandi cominciano con quelle piccole. Non ho la pretesa di avere “una testa ben fatta”, però ho pochi e saldi valori, e quelli voglio condividerli. Mamma dice che non andrà a votare perché tanto gli uomini che si sono avvicendati al potere negli ultimi anni non li ha votati nessuno. Dice sempre: “Ci mettessero un altro di quelli che vogliono loro a governare, io me ne lavo le mani!”. Io però non sono d’accordo. Ricordo benissimo quella frase sulle mani pulite che non servono a niente se si tengono in tasca, me l’ha insegnata lei! Io a cambiare le cose ci voglio provare. Se io voto, lei vota, tutti votano, la persona che vincerà l’avremo scelta noi. C’è sempre spazio per cambiare, prof. C’è sempre tempo. L’unica cosa che non deve mancare è la volontà. Ai miei bambini insegno solo questo. Quando cresceranno, prima di mandarli da lei, insegnerò loro cosa significa essere nati avendo ricevuto già un dono: quello di poter scegliere. Per rendere il concetto chiaro, li farò sedere davanti a un albero di Natale gigantesco, sotto il quale la sera prima avrò preparato 26 (sono tanti i miei alunni) pacchetti colorati e meravigliosi. Dentro metterò un fogliettino altrettanto colorato, mezzo rosa e mezzo giallo, sul quale chiederò di indicare qual è la persona alla quale affiderebbero il loro animale domestico, i piccoli risparmi donati dai nonni, i loro giocattoli preferiti, il luogo che più li fa sentire a casa. Non dirò loro niente, non pronuncerò consigli né manifesterò le mie idee. Ricorderò solo che prima di scegliere, dovranno tutti mettere una mano sulla parte del petto dove si trova il cuore! Prof, le è rispuntato il suo magnifico sorriso, mi sembra di essere tornato al 2011, che emozione!” “E’ merito tuo, Francy. Ho sempre saputo che i giovani salveranno il mondo, ma non ne sono mai stata tanto convinta come in questo momento. Grazie. Vai dove devi andare, ora!”