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Presente

La presenza nella vita degli altri è un affare complicato. Soprattutto di quelli autonomi, per niente allarmisti, che dicono sempre: “Va tutto bene”. Quelli che arrossiscono, farfugliando poche parole confuse quando gli chiedono di sé.

La presenza non si prende in appello. Non è un urlo dato a prima mattina in risposta a uno stimolo. È esserci senza un richiamo, così, spontaneamente, anche nell’assenza. È stare seduti su quella sedia, anche se non ci siamo.

La presenza è roba difficile nei tempi odierni. Corriamo, andiamo più veloce del vento, e a volte ci incrociamo senza neanche osservare il viso di chi ci è di fronte. Ha dormito? È preoccupato? Avrà ricevuto una notizia dolorosa? Che sono quelle macchie sul viso ? Le aveva l’ultima volta che l’ho visto?

E invece no. Stiamo pensando alla carne da ritirare; a quale figlio dover andare a prendere; al ritardo che ci allungherà i tempi di uscita dall’ufficio; allo studio del medico di base che chiuderà a breve.

La presenza oggi è un miracolo. A casa tutti bene, posso andare a dormire sereno, il tetto ha tenuto. C’è tempesta fuori, come potrei accorgermi anche di cosa succede agli altri? Hai visto mai il corridore di una maratona che si ferma a guardare a pochi metri una farfalla con un’ala spezzata? O nella finale degli ATP il tennista avvertire il cinguettio soffocato di un uccellino? Noooooooo, siamo atleti, non c’è tempo. Dobbiamo vincere. Siamo i campioni della sfida tra quattro mura; i detentori della felicità microcosmica; i pluripremiati che mai premieranno. Non abbiamo tempo pure per te.

E quando ci sorprenderai, indignandoti per la prima volta sul serio per la nostra assenza, ci affanneremo a rispondere: ” Io? E che ho fatto?”. Beh, lì c’è il vero significato della parola distanza.

Fare attenzione è un diktat. Con un pennarello indelebile scrivete sull’involucro della vostra persona: “Fragile, maneggiare con cura” e andatevene a spasso, esibendolo. Intorno a voi, soli, pochissimi.

Sono quelli giusti, gli unici per cui ne valga la pena.

Presente.

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Stress

Amo profondamente tutte le persone e le cose che fanno parte della mia vita: le ho scelte.


Amo la mia famiglia. Tutti quelli che ci sono e soprattutto quella che non c’è più: mi sta vicino sempre col pensiero e col cuore, qualsiasi cosa mi accada. Per me c’è ancora, la sento.


Amo i miei alunni, uno per uno. Qualcuno mette e ha messo a dura prova la mia pazienza e la mia perseveranza, ma – se ci penso bene – sono quelli che amo e ricordo di più.


Amo tutte le madri dei miei ragazzi. Mi pongono a confronto con la madre che non sono stata, con quella che avrei potuto essere e con quella che ogni giorno provo a diventare con la fantasia.


Amo le mie sorelle: la vita me ne ha regalate cinque. Ognuna di loro mi ricorda che il sangue, quello vero e quello “trasfuso”, non smette mai di scorrere: rosso, fosforescente, vivo, generoso e zampillante, anche senza ferite.

Amo il mio lavoro: mi ricorda che l’ho scelto perché mi consente di divenire uno strumento per migliorare la società. Non avrei avuto nessun significato come essere umano se ne avessi scelto un altro.


Amo gli uomini che ho avuto e che ho. Qualcuno la sorte me lo ha donato senza meritarlo e a qualcun altro sono stata donata senza che mi meritasse, eppure tutti mi hanno insegnato qualcosa, e non ce n’è stato nessuno nelle cui braccia, anche solo per un attimo, non mi sia sentita al sicuro.


Amo i miei reni, pure se non funzionano bene: mi ricordano quei puzzle che da bambina non riuscivo a finire. Prima o poi arrivava il guizzo e la figura prendeva forma: reale, concreta, armonica, come un organismo perfettamente funzionante.


Amo i miei amici: quelli a cui confido tutti i miei pensieri e quelli a cui ne racconto pochissimi, a volte senza parlare. All’improvviso, di nascosto, non richiesto, arriva un caffè, un file o un sorriso che vuol dire solo: ti voglio bene.


Amo lo sport e le persone che mi insegnano a praticarlo. Qualcuno di loro lo sa già, qualcun altro deve ancora scoprirlo. Tutti mi hanno lasciato un movimento, una voce o una canzone che, ripensati, mi trasmettono vitalità.

Ogni singola cosa nella vita di qualcuno di noi è fonte di stress.
A volte è sotterraneo, altre volte si manifesta; in ogni caso serve a ricordarci che avvertiamo le cose in maniera profonda, che le ascoltiamo in maniera profonda, che le viviamo in maniera profonda, e che se fossimo superficiali non piaceremmo alle persone che siamo voluti diventare, e forse neanche a quelle che ci amano.


Voglio amare perciò anche lo stress. È il mio sforzo, il mio modo di stare al mondo, il mio tentativo di fare tutto al massimo delle mie possibilità, la mia insaziabile ricerca di essere la versione migliore di me.
Se ci sono riuscita o ci riesco anche in minima parte, non devo augurarmi che se ne vada, non devo chiedergli di scivolare via, ma piuttosto di restarmi appiccicato come un’ombra: ne imparerò a colorare i contorni affinché non mi appaia mai vestito di nero.

Prima o poi anche lui mi sorriderà.

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Sono quello bravo

Sono quello bravo.

Quello che non ha niente da fare e lavora anche per te

perché tu sei troppo impegnato.

Sono quello bravo.

Quello che si rende disponibile quando non tocca a lui,

perché tra le tue mani ci sono le sorti dell’umanità.

Sono quello bravo.

Quello che aspetta in un angolo che trovi un momento per lui,

perché tu hai mille figli, mille coniugi, mille padri, mille madri a cui badare.

Sono quello bravo.

Quello che è figlio unico, single, senza problemi, senza prole,

insensibile ai mali del mondo e ciononostante sempre in prima fila a risolvere problemi, i suoi e quelli degli altri.

Sono quello bravo.

Quello che sulla carta lavora mezza giornata, quello che si aggiorna,

quello che ha problemi di salute ma li tiene per sé,

perché tu sei più stressato e più malato di lui.

Sono quello bravo.

Quello che passa sulle offese serpeggianti, quello che fa finta di non vedere, quello che si lascia apparentemente gabbare,

perché ci sei già tu a lamentarti al posto suo, e a scatenare polemiche per ogni inezia.

Sono quello bravo.

Quello con i nervi che riemergono in sembianze strane perché alle rotonde gli piace rispettare le regole di precedenza; 

tu invece le ignori: hai delle priorità più importanti di quelle dettate dal Codice della strada.

Sono quello bravo.

Quello che non sa dire di no,

mentre tu, piroettando, ti sottrai a qualsiasi affare non riguardi squisitamente il tuo microcosmo.

Sono quello bravo.

Quello che ti cede il posto alla cassa, abbozzando un sorriso.

Che sbadato, non hai notato la fila: hai un appuntamento improrogabile.

Sono quello bravo.

Quello che non si sa difendere, quello vulnerabile, quello senza corazza,

perché tu gli hai rubato la tuta mimetica, la pistola e finanche l’elmetto.

Sono quello bravo.

Quello che in silenzio cerca di esaudire anche i tuoi desideri, mentre tu sei impegnato a sventolare placidamente la tua bacchetta magica.

Sono quello bravo che si è stufato di essere quello bravo.

ANCHE SOLO PER UN GIORNO,

DIVENTA L’ALTRO.

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Intermittenze

Scompari e riappari.

Riappari e scompari.

Raccontami ancora una storia, la stessa di sempre che ogni volta sembra diversa.

Strizzami l’occhio in quella maniera che mi strizza anche il cuore.

Perdonami se non riesco a venirti a cercare in quegli anfratti troppo bui,

ma apprezzami tutte le volte che la spelonca si apre e sono lì fuori ad attenderti.

Dispensami consigli: ne ho ancora bisogno.

Non mi lasciare a secco di ramanzine: mi servono per capire che non sono grande abbastanza.

Abbi il coraggio che manca a me quando traballo.

Resisti alla vita quando si improvvisa schiaccianoci.

Mostrami il mondo animale, che nessuno lo conosce meglio di te.

E quello delle piante, che muoiono non appena scompari per andare non so dove.

Abbracciami quando penso che nessun uomo lo abbia mai fatto davvero bene.

E bevi, quando hai sete, alla fonte della famiglia, che tanto quella non si prosciuga mai.

Non trascurare il potere che hai sui tuoi cari, anche quando pensi di non averne più nessuno.

Raccomandami di non correre e di non fare imprudenze: me lo ricorderò quando non ne potrò più di stare al volante.

Dai luce fissa alle intermittenze.

Sii mio padre, perché non potrò mai stancarmi di avere bisogno di te.

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Crac

Alla voce crac nel vocabolario si legge: “di origine onomatopeica, riproduce e indica il rumore di qualcosa che si rompe, che cade improvvisamente”. Ci sono poi numerosi esempi, desunti da immagini quotidiane, concrete e figurate, ma niente che si riferisca ai sentimenti. Strano. Sarebbe assai pertinente invece.

Quanti di noi sono in grado di riconoscere il suono di un crac nella propria vita? È nitido o bisogna usare uno stetoscopio?

Quando il cuore fa crac fingiamo spesso di non averlo avvertito. Ci mettiamo in piedi in allerta, come tutti abbiamo imparato a fare in tempi di frequenti scosse sismiche, e restiamo così per qualche secondo.

“Tanto poi passa” e tutto torna alla normalità. Tua moglie ti chiama per qualche incombenza; la tua migliore amica ha preso i biglietti del cinema per vedere quel film che avete desiderato tanto; tuo figlio ti aspetta in piscina per ritornare a casa dopo gli allenamenti.

Non c’è tempo per i crac, le valigie sono già dinanzi alla porta. Se ne parla la prossima volta. Forse.

Un crac ignorato è la genesi di un altro crac. Ci alziamo in piedi, restiamo vigili per qualche secondo e poi ritorniamo alla routine: la vita scorre… uguale a ieri e anche a domani.

Fin quando un giorno i crac non li avvertiamo neanche più: sdoganiamo l’impensabile, mastichiamo cicoria cruda come se fosse una zigulì, e facciamo dei nostri desideri un cumulo di macerie, che tanto la polvere va via con un semplice canovaccio.

E la aspettiamo, questa grandinata impetuosa che strazia il più bello dei giardini; un po’ di attesa, se ne va e tutto rifiorisce.

Sarebbe opportuno prendere delle decisioni quando captiamo i crac; provare a rimescolare le carte ad esempio, non sia mai che il settebello capiti proprio a noi e ci indirizzi verso il sole, tanto la pioggia prima o poi arriva comunque per tutti.

Sarebbe necessario scrivere di getto quando percepiamo i crac, come ci consiglia il terapista dopo un sogno arrivato nel cuore della notte che altrimenti non ricorderemmo mai: “Alzati, impugna la penna, scrivi, memorizza, rileggi”.

Nella descrizione dettagliata dei nostri crac ci sarebbero tutte le motivazioni necessarie a cambiare rotta in tempo, prima che giunga il terremoto vero e proprio. Dopo quello – si sa – è tutto più complicato.

Però noi non abbiamo riletto: “È tempo perso!”, “Va bene così!”.

O forse non abbiamo mai scritto: “Ma che sono queste cose da sentimentali?”, “Non mi piace leggere, figurati scrivere!”.

E poi ci sei TU che magari stai leggendo, e che i crac li hai descritti tutti alla perfezione, li conosci a memoria e li hai addirittura riletti più volte, però sei dannatamente ostinato nel tuo ottimismo: “Le cose si sistemeranno, la casa ha fondamenta solide, cosa vuoi che sia una trascurabile crepa nel muro?”.

E quindi una mattina che ti sei sbarbato fischiettando, le scarpe nuove ai piedi, e quel profumo che ti piace tanto, senti un crac fortissimo: l’intonaco si stacca e il cuore diventa bianco… ma come? Non lo disegnano tutti rosso fuoco?

La casa è crollata.

Ah? Come dici tu che ridacchi nell’ultima fila là in fondo? Da te è tutto ancora in piedi? Devo dirti una cosa importante, non farmi urlare, accostati, tendi un orecchio, ecco così… ora stai in silenzio, ascolta…

CRAC!

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Banconat

Non saprei dire se a Natale siamo tutti più allegri o più tristi.

Quando torno viva per miracolo dall’aperitivo del 24 con i miei amici penso che sia giusta la prima asserzione, poi vedo il posto vuoto di mia madre a tavola e cambio subito idea.

Natale è il giorno in cui tutti pensiamo di morire l’indomani e allora osiamo: mangiamo, beviamo, ridiamo, scherziamo, pratichiamo il buonumore a tuttotondo.

Alcuni di noi ci provano spesso, NON SOLO a Natale.
Molti di noi ci provano SOLO a Natale.
Pochissimi di noi non ci provano NEANCHE a Natale.

È il giorno in cui rimpinguiamo gratis i bicchieri dei clienti, anche se non provengono dal nostro bar: l’allegria ci fa diventare euforici.
Quello in cui diamo confidenza agli sconosciuti: ci sentiamo in armonia con il creato.
È il giorno in cui diciamo ti amo alle persone che amiamo, per paura di perderle senza averglielo detto.
Quello in cui chi ha desiderio di noi ci bacia con delicatezza o ci stritola tra le braccia, perché si scopre d’improvviso in astinenza di affetto.
È il giorno in cui chi ha perso qualcuno guarda insistentemente il cielo, sperando che gliene rimandi l’immagine ancora una volta.

Il Natale è una sorta di bancomat.


Bisognerebbe diffonderne vari punti di prelievo per le città. Individuarli e andare con una tessera invisibile a fare il pieno quando ci rendiamo conto di essere a secco di amore verso il prossimo. Non solo per l’amico di sempre che vediamo troppo poco, ma anche per il gigante nero con la faccia di John Coffey che lava i vetri al semaforo di Poggioreale. Dovremmo calare il finestrino, guardare il suo sorriso splendente e dirgli che i suoi denti saranno sempre più bianchi dei nostri; che non merita quel “miglio verde” che gli è capitato in sorte. Anche se siamo allo stesso incrocio da venti minuti a causa del traffico, dovremmo tendere la mano e dargli quel cinque. E sì, allungargli anche una moneta, perché siamo appena stati al Banconat, è il 13 marzo, e non siamo carichi di denaro ma di umiltà: sappiamo benissimo che solo la Fortuna ha fatto in modo che seduto nella nostra auto non ci sia lui. 

Dovremmo salvarli tra i preferiti di Google maps i Banconat e dirigerci verso di loro quando la vita ci distrae e ci fa credere che la sola cosa verde da coltivare sia il nostro giardino. Sarebbe un buon inizio per provare a non far marcire tutto quello che c’è al di fuori.

Buon Banconat a tutti ❤️

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Ode alla Cortellesi

A parlar male delle donne son bravi tutti, comprese noi stesse.

A parlarne come hai fatto tu, nessuno mai.

Si traballa sulla sedia ad ogni colpo ricevuto dalla protagonista, lo sa ancor meglio chi nella vita ne ha ricevuto almeno uno, e si sta lì a sperare in un inciampo, in una morte improvvisa del suo aguzzino. Gli si vuole male e si spera di non incontrare mai un uomo così, perché nel mondo ce ne sono, eccome se ce ne sono.

Fa rabbia quella che appare nelle vesti della rassegnazione e invece è solo frutto di una mentalità perpetrata per secoli.

Ci si vorrebbe reincarnare in uno dei figli e non lasciare mai quelle stanze. Stare fissi lì e diventare barriera a proteggere ciò che di più puro non c’è.

Sono tanti i giudizi traboccanti di stima che mi hanno raggiunta prima di assistere alla visione del film. Nessuno ne rappresenta appieno la totalità della bellezza, e certo non lo farà il mio.

La verità? Era davvero impresa ardua rappresentare in maniera originale un tema così battuto, e invece tu ci sei riuscita.

La violenza diventa ballo.

La sottomissione diventa azione quando si palesa la possibilità che colpisca chi di più caro abbiamo al mondo, e non siamo noi stessi.

L’amore filiale elevato al massimo esponente.

L’amore verso la madre perlopiù nascosto e poi improvvisamente manifesto, più potente che mai. Nei gesti e nella mimica, non nelle parole.

Ci si ritrova a sperare che questa donna scappi e corra nelle braccia di qualcuno, credendo erroneamente che un uomo possa sostituirne un altro e rappresentare la salvezza. Ma noi donne abbiamo dovuto imparare a salvarci da sole attraverso l’esercizio dei nostri diritti, attraverso la consapevolezza di quanto valgano. Gli uomini li hanno avuti in dotazione sin dalla nascita come beni primari; per noi sono stati lusso in una porzione di tempo che dopo il film mi sembra ancor di più tremendamente infinita.

Grazie, Paola.

Mi hai fatto pensare a Leonardo da Vinci.

Eclettica, versatile, dall’ingegno multiforme. Bella, brava, intelligente, spiritosa e diosolosa quante altre cose.

Se fossi vissuta nel Seicento, ti avrebbero dato della strega e saresti stata bruciata viva. Se fossi nata oggi nella parte “sbagliata” del globo saresti stata, alla meno peggio, censurata.

E invece noi siamo fortunati. Ti guardiamo sullo schermo e riflettiamo.

Grazie. Per essere diversa, bizzarra, estrosa, profonda, anticonformista e insieme profondamente realista. Hai lanciato nell’aria un potentissimo ma aggraziato grido che arriva, accompagnato da musiche quanto mai indovinate, esattamente dove deve arrivare.

Ad maiora. Ammesso che sia possibile.

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Meno santi da morti

I morti sono tutti santi. Ah, no: non è vero.

I santi sono ancora vivi. Ah, no: non è vero nemmeno questo.

E allora?

I santi e i morti vengono festeggiati insieme, e io non mi ero mai chiesta il perché. Vado allora a cercarne le motivazioni e trovo una serie di rimpalli tra feste pagane e cristiane che, a dire il vero, mi annoiano un po’. Provo quindi a costruire una spiegazione tutta mia, sulla scia di quello che ascolto in una mattinata uggiosa in cui mi sono alzata presto, anche se non devo andare a lavoro.

I santi non sono persone eccezionali. Non compiono miracoli, altrimenti non ci sarebbe speranza per questo mondo scellerato. Non hanno l’aureola e non sono quelli i cui ritratti sono appesi nelle chiese. I santi vivono tra di noi, e qualcuno è morto. Sono quelli che hanno poco tempo per sé e non lo passano a mugugnare per i torti subiti; sono quelli che hanno paura, tanta, e la scavalcano, stando attenti a non inciampare nello sgambetto di ritorno. I santi non hanno il cuore imbottito di oro, ma di fibre muscolari che pesano quanto pochi etti di un salume qualsiasi. Sanno che la perfezione non esiste e hanno tanti difetti che provano a modificare, senza mai dire: “Sono fatto così!”. Portano con sé ben nascosta una dose in più di pazienza, per quando incontreranno qualcuno che cercherà di fargliela perdere.

Spesso tendiamo a rendere i morti santi. Attribuiamo loro delle qualità che non avevano, ne riempiamo la vita di leggende e di episodi trasfigurati dalla nostalgia, è un processo naturale: ci mancano. Tentiamo di renderli migliori. Dal posto in cui si trovano, loro sorridono. Vorrebbero dire: “Ma io questa cosa non l’ho mai detta! Ma io questa cosa non l’ho mai fatta!” e noi non li ascoltiamo, abbiamo bisogno di ricordarli nel modo che desideriamo, intenti a santificarli; pensandoli buoni, li rendiamo buoni. Molti invece non lo sono mai stati. Alcuni avevano eccessi di ira, di disonestà, di rancore. Molti ci hanno deluso, tradito, sbeffeggiato. Se fossero vivi ne parleremmo male,  magari alle spalle, ma ai morti ci hanno insegnato a portare rispetto e quindi non si può essere sinceri, non sarebbe corretto quanto dire una bugia.

I santi sono quelli che di tempo per parlar male del prossimo non ne hanno. Non vengono bruciati vivi in piazza, ma inceneriscono ogni maldicenza nella fattibilità di un tempo destinato ad opere belle. Sudare, faticare in prima persona nel raccogliere le olive e poi gustare con la famiglia il proprio olio a tavola, è un’opera bella. Ripulire le strade dalla spazzatura, controllando che in terra non ci sia più una sola carta, è un’opera bella. Cercare un libro in biblioteca per qualcuno che ne necessita e trovarlo a tutti i costi, anche se non è stato archiviato bene e sarebbe più facile dire: “Non c’è più, mi spiace!”, è un’opera bella. Fermare l’auto all’improvviso per aiutare chi è appena caduto da una bicicletta, senza aspettare che lo faccia qualcun altro, è un’opera bella. Accontentare l’ultimo cliente di una giornata che ci ha riservato solo quintali di stress e non dirgli: “Spiacenti, abbiamo appena chiuso!” è un’opera bella. Ascoltare un amico che ha un turbamento, che ha paura, che si trova in bilico sul filo della vita senza essere un equilibrista, è un’opera bella.

Tutti noi siamo potenziali santi e siamo ancora vivi, possiamo diventarlo. Chi è morto sa bene in cuor suo se lo è stato oppure no, non gli serve la nostra trasfigurazione, meno che mai se ha vissuto conoscendo la differenza tra il tempo della vita e quello della morte. I più puri lasciano il loro esempio a guidare coloro che restano.

Occorrono meno santi da morti, non saranno loro a salvarci.

Prestiamo più attenzione ai santi da vivi, loro sì che possono insegnarci qualcosa.

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Scudetto con sgambetto

Non sono mai stata particolarmente attaccata alla maglia del Napoli. Forse è per questo che l’euforia generale per lo scudetto mi imbarazza un po’, nella consapevolezza di non aver mai sacrificato neanche un secondo del mio tempo a tale causa.

Il calcio mi ha sempre appassionata, ma come tutte le adolescenti subivo il fascino dei giocatori; circostanze fortuite hanno poi voluto che la città per cui tifassi avesse anch’essa il mare, ma questo è solo un banale dettaglio.

Sono cresciuta in una casa di donne, e mio padre ne è stato risucchiato. Tutto dedito a lavoro e famiglia, seguiva il Napoli con la sobrietà e la compostezza dell’uomo moderato che è sempre stato. La sua classe mi lascia talvolta ancora basita, quando, in alcune circostanze come quella di domenica scorsa, davanti alla partita con la Salernitana, ha esclamato tutt’a un tratto: “Se stessi in campo ora li lascerei vincere, così da non farli retrocedere… tanto lo scudetto lo abbiamo già vinto, questo è un derby.” L’ho guardato per un attimo e mi sono venute le lacrime agli occhi, per quell’eleganza che i tifosi accaniti non hanno, e che lascia trasparire l’animo nobile che mi ha cresciuta; lui, che guarda fin troppi notiziari, non poteva ignorare le scorrettezze pronunciate dalla città di Salerno in occasione dell’incontro, eppure… “Non esiste il concetto di vendetta per i grandi uomini”, ho pensato sottovoce.

Napoli è la città degli eccessi. Nel bene e nel male. Per questo la odiano in molti. Noi napoletani stessi lo facciamo, perché sappiamo perfettamente quanto difficile viverci sia; ciononostante fatichiamo a distaccarcene, spesso restando abbarbicati al nostro quartiere di nascita e a quattro strade in croce, ignorando realmente quanta antichità e magnificenza nasconda Partenope. Ci proteggiamo in questo modo, e ci convinciamo di vivere bene, ma poi fatichiamo ad andare a lavoro coi trasporti pubblici quasi inesistenti; a buttare un rifiuto nella raccolta giusta perché la differenziata avanza a stento, e “poi, tanto, chi raccoglie la spazzatura la mette tutta insieme”. Ci abituiamo lentamente, senza neanche più esibire indignazione, al degrado di monumenti secolari che gli statunitensi traformerebbero in miniere d’oro, loro che elevano al rango di “sacralità” anche un pelo pubico di Abraham Lincoln. Noi ce ne accorgiamo, eppure lasciamo correre. Prendiamo i motorini per andare ovunque, anche con la pioggia, perché il traffico ci ruba ore preziosissime che non torneranno, e cerchiamo di svolgere qualsiasi attività il meno lontano possibile da casa nostra, in modo da non dover borbottare troppo a lungo. Spesso ignoriamo che a due fermate di metropolitana (ah, per inciso, una delle più belle d’Europa) ci sono mille e più associazioni dedite alla filantropia, e ci lamentiamo anche del superfluo, perché il napoletano si arrangia in qualsiasi circostanza avversa, è vero, ma se si lamenta si arrangia di più. 

Non conosco bene il dialetto. A casa mia non si parlava, e quando il professor Giglio mi assegnò come tesi lo studio di un giornale partenopeo, i cui articoli erano spesso in “volgare”, papà capitolò e mi comprò il vocabolario napoletano-italiano. Ero già grande, ma lui non poteva tollerare che io gli avessi chiesto la traduzione della parola “veppeta” e allora tornò a casa con quell’inaspettato quanto deludente – per la ventenne che ero – regalo. Allora non potevo comprendere, ma papà mi stava regalando le mie origini: nessuno deve ignorarle mai, da qualunque luogo provenga.

Quando rifiutai di partire per l’Erasmus perché il ragazzo che frequentavo allora – un idiota – mi disse: “Vai pure, ma non aspettarti di trovarmi al ritorno!” io, di gran lunga più idiota di lui anche solo per il fatto di averlo scelto, agii d’impulso. Me ne sono pentita talmente tanto che al confronto un tappeto di ceci è un massaggio per le ginocchia, ma ormai la frittata era più che fatta, direi bruciata. Credo, però, di aver imparato molto sulla mia città grazie a quella mancata dipartita. Iniziai in quel periodo a girarne i vicoli, e se non fosse per la mia fallace memoria potrei accompagnare le persone a scovarne le meraviglie; non ho mai smesso di farlo da allora, e ad ogni traversa scopro qualcosa di nuovo.

Detesto i lamentosi, e quindi anche molti napoletani, ma detesto ancora di più quest’odio gratuito che ci stanno riversando addosso in occasione dello scudetto. Anzi, non è che lo detesto, è che proprio non lo capisco. Oltre a favorire la trasformazione in “malament” (persone rancorose e dappoco) di amici con cui sono cresciuta, a cui voglio bene e che ritenevo ingenuamente sani di mente, quest’accanimento è quasi peggiore di quelli terapeutici. Cosa c’è di più raccapricciante di essere tenuti in vita da quasi morti, contro la propria volontà? C’è il fatto di essere condannati alla gogna da vivi, mentre tentiamo come fratelli poveri di una nazione sulla carta ricca, di festeggiare qualcosa che ci siamo conquistati sul campo, con la fatica e talvolta con un pizzico di fortuna, che, non a caso, “aiuta gli audaci”. E’ un gioco in fondo, e tutti i giochi dovrebbero rallegrare, non seminare odio.

Quando lavoravo al bar, nel locale sulla spiaggia più blasonato del tempo, l’Arenile, ci fu la festa per l’addio al calcio di Ciro Ferrara. Ricordo perfettamente Michele tremare mentre preparava la capirihiña a Careca; ricordo Folco e tutti i ragazzi del bar lasciare me e Lorenzo da soli a lavorare: era arrivato Maradona. Ci chiedevano di affidare loro qualsiasi cosa: una forchetta, un piatto, un flut, un seau à glace col Moet per portarli “al pibe de oro”. Le postazioni erano vuote, il personale sembrava drogato e inebetito. Qualcuno piangeva.

Noi due invece ridevamo: ci sembravano tutti idioti e fanatici, ma in realtà non avevamo capito niente. Quello spazio era diventato un santuario e sull’altare ci si doveva per forza inginocchiare.

Da quando è morto Diego – nessuno in città può esimersi dal chiamarlo così – mi sono ritrovata spesso a pensare a quella scena: sono certa che nelle case di tutti coloro che erano presenti quella sera, c’è ancora uno scatto, un autografo, un tatuaggio scolpito nella mente.

Napoli è così: ti resta addosso in eterno. Te ne vai e quasi mai ritorni, se non per venire a salutare parenti e amici; per guardare il Vesuvio; per mangiare la pizza. Qualcuno è nostalgico oltremodo e tenta di ritornare a tutti i costi, rovinando le carriere proprie e quelle delle mogli, nonché la vita futura dei propri figli, perché Napoli, si sa, è una possibilità che spesso si nega persino a sé stessa. Ma noi siamo anche un po’ masochisti, e se dobbiamo farci proprio del male, allora vogliamo che sullo sfondo ci sia il Castel dell’Ovo o la Certosa di San Martino o meglio ancora il Maschio Angioino, perché almeno soffriamo contornati dalla bellezza.

La città si è tinta di azzurro già da un po’; in molti, che non vivono più qua, stanno facendo capolino per immergersi nei colori della propria squadra; per abbracciare le sagome a grandezza naturale dei giocatori; per autotassarsi in modo da rendere Napoli interamente vestita a festa. Io cammino e la guardo: mi mette allegria nella sua incredibile eccentricità; nella sua eleganza sempre scomposta; nella sua sobrietà inesistente; nella sua anima chiassosa e talvolta surreale di cui spesso e volentieri mi vergogno, ma in fondo si chiama Napoli proprio per questo.

Navigo di continuo nel web e di recente sono incappata in notizie – molte delle quali fortunatamente rivelatesi fake – stracolme di odio regionale; sento intonare quella canzoncina che già da piccola trovavo l’emblema della stupidità, della grettezza umana, dell’inconsapevolezza del valore delle parole: “… Lavali col fuoco…!”.

Mi viene allora istintivo guardare il Vesuvio: mi pare improvvisamente umano e mi sta strizzando l’occhio. Si avvicina al mio orecchio e sussurra: “Allora procedo, che dici, erutto?”. Non so cosa rispondere; la sua domanda mi ha spiazzata e quindi faccio cenno di sì con la testa perché mostra un sorriso sornione che mi rassicura. E così spalanca la bocca: dalle sue fauci esce lava dipinta di bianco e di azzurro: striscia, e contro tutte le leggi di gravità, risale fino alle Alpi, senza provocare danno alcuno, ma rendendo le terre fertili e rinvigorendo le ginestre e milioni di altri fiori. E’ il suo modo di ammonire la nazione intera: gli insiemi sopravvivono soltanto a patto che i suoi componenti siano coesi. Se la testa si ammala si muore, certo, ma si può perdere la vita anche – Giamaica docet –  se si ammala un piede o un’anca.

Nella scalata verso questo scudetto, ho intravisto tenderci ben più di uno sgambetto. Come se la felicità di una città potesse nuocere alle altre, non rinvigorirle. E allora ben venga maledirla, aggredirla col turpiloquio, riempirla di volgarità e malaugurio.

Il popolo napoletano non è perfetto, nessun popolo al mondo lo è. La storia gli ha insegnato a vivere di stratagemmi, e lui ha imparato la lezione come il più svelto degli scolari, che purtroppo non capisce mai a che punto bisogna fermarsi. Il calcio, però, è un’altra cosa.

Da noi il sacro e il profano si sono sempre mescolati; l’altare di Maradona ora accoglie più turisti della Chiesa di Santa Chiara, e gli anni di attesa dello scudetto numero tre, come la Trinità, si mescolano simbolicamente all’età di Cristo perché tutto ciò che succede a Napoli ci parla, e lo fa in quel modo caratteristico che a molti non piace e che non rispetta quasi mai le regole del Galateo.

S’ sent’ assaj megl’ si s’allucc'”! (Se si alza il tono della voce, le parole risultano più comprensibili!)

Oggi c’è solo da gioire e lo dovremmo fare tutti. Tifosi e non tifosi. Juventini, milanisti, atalantini e salernitani insieme a noi napoletani. E’ un momento di entusiasmo e di riscatto pieno per un popolo su cui regna la maldicenza spesso senza ragione, in virtù di generalizzazioni e luoghi comuni così odiati da chi ha ancora un po’ di sale in zucca.

Molti di noi, grazie a questa vittoria, hanno riportato in vita per un attimo le persone che hanno perso e che oggi avrebbero voluto accanto, e direi che questo, unito all’amore puro e indiscriminato per il buon calcio, valga da solo l’impresa, al di là di qualsiasi colore.

Oggi siamo tutti chiamati a fare festa.

Domani potremo tornare a lamentarci.

Domani però.

Oggi no.

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Pensieri

Qatar 2022

Per una lunga frazione della mia vita ho amato profondamente il calcio. Non ho fratelli, e mi piaceva a quei tempi essere il figlio maschio di mio padre, con il quale mi trovavo spesso a discorrere, tra l’ignoranza generale di una famiglia composta da sole donne, delle regole del fuorigioco e di punizioni e penalty non concessi per umane distrazioni arbitrali. Allora esisteva solo la moviola post partita ed era quasi poetico protestare per quel fallo fuori o dentro l’area che, anche se conclamato, non avrebbe di certo cambiato il risultato di una partita.

Era l’epoca di “Tutto il calcio minuto per minuto”, della voce carezzevole di Bruno Pizzul e di quella, assai elegante e mai sopra le righe, di Carlo Nesti. Era il tempo in cui non si faceva fatica a memorizzare i nomi dei calciatori in campionato, perché di stranieri in squadra ne erano ammessi al massimo tre, e dunque lo sforzo era ragionevole e limitato. All’epoca ero romantica, come talvolta ancora sono, e il calcio mi pareva il gioco di squadra per antonomasia, io che ho sempre praticato la palla a volo e che di quest’ultima seguivo poco o niente. Il rettangolo verde, invece, mi stregava, e allo stesso tempo i suoi protagonisti. Chi mi conosceva bene a quel tempo sa che mi ero avvicinata al “gioco degli 11” esclusivamente per un vezzo di ragazzina; credevo seriamente di essere innamorata di Gianluca Vialli, dei suoi ricci fluenti e del suo modo di parlare, compìto e formalmente corretto, molto distante dai mugugni di tanti giocatori del tempo e -ahimè- contemporanei.

Ho sempre avuto una fissazione spiccata per le parole, e ad alcuni miei alunni che trascurano la scuola per ambire a diventare il Totti di turno, raccomando spesso: “Se diventerai famoso, ti prego di non dire mai nelle interviste che ero la tua insegnante di italiano, capito?”. “Ma perché, prof.?”. “Tu non dirlo e basta!”.

Erano anni in cui obbligavo il mio papà a macinare chilometri per questo o quell’allenamento; per questa o quella partita… quanta pazienza al volante mentre fastidiosissime sedicenni parlavano di “cose da uomini” e veneravano autografi destinati quanto prima alla teca perché innaffiati di pioggia. Tuttavia non gli ho mai sentito proferire una critica o un lamento; si divertiva, piuttosto, mio padre: martire ante-litteram.

Erano anni di radioline portatili, di telecronache solo ascoltate, e di attese lunghissime di quel momento in cui le orecchie avrebbero finalmente passato il testimone agli occhi. Per me il calcio era musica; era Italia’90; erano Gianna Nannini e Bennato; era l’opportunismo di Schillaci, la grazia del “principe”, l’infallibilità di Baresi, libero per ruolo e anche dagli avversari, che dribblava come non ho mai più visto fare a nessuno; era la faccia seria e al contempo delusa di Azeglio Vicini. Che ribrezzo pensare alla vincitrice di allora, quella Germania che ancora si chiamava Ovest, mentre il muro dei muri lasciava il posto alla speranza che non ne avremmo mai sollevato un altro. Quante illusioni davanti a quello schermo!

Oggi il calcio si chiama anche Qatar. Un minuscolo stato di cui negli anni ’90 probabilmente ignoravo persino l’esistenza. Un territorio poco più grande dell’Abruzzo, ma con uno dei Pil pro-capite più alti al mondo; un piccolo emirato ai cui fondi di investimento piace anche l’Italia, tanto da acquisirne il marchio Valentino, la compagnia di volo Meridiana e gli alberghi più sfarzosi della Costa Smeralda. Un paese minuscolo che viveva di ostriche e che possiede le sole cose oggi indispensabili -così pare- al mondo: il gas e il petrolio. Un puntino sulla carta geografica che organizza i mondiali di calcio e balza alle cronache per presunte tangenti volte ad ottenerne l’assegnazione; che col suo clima proibitivo sposta addirittura le stagioni, come se il riscaldamento globale non bastasse già di per sé; e che schiavizza, sottraendo loro finanche i passaporti, i lavoratori stranieri intenti a costruire i nuovi templi del calcio. Il risultato è eccezionale: uno stadio che prende la forma delle vele delle imbarcazioni atte a pescare le perle, o forse, più semplicemente, quella di una vagina. Sarà colpa della pareidolia, ma d’altronde come non celebrare la fecondità delle donne in un paese che esalta tutti i giorni i diritti umani femminili, negandoli in un “sistema di tutela maschile”? Vai con la fiera dei paradossi, e già che ci siamo: neghiamola la fascia coi colori dell’arcobaleno; violiamolo qualche altro diritto civile, perché solo quelli delle donne son pochi; calpestiamo i gusti sessuali e le minoranze, tanto abbiamo una scritta per tutte sul braccio: No discrimination, che tradotto significa letteralmente: Ipocrisia.

Con buona pace dei miei connazionali e dei tifosi del calcio italiano in ogni dove, dico con convinzione: sono felice che l’Italia sia la grande esclusa di questa competizione, che non partecipi. Temo sarebbe stata la prima a non indossare i colori dell’arcobaleno, e quanto imbarazzo avrei provato nel leggere sui bicipiti dei nostri calciatori: “Sposiamoci tutti, ma solo in chiesa però!”.

Amore e odio di quello che per me era una volta il calcio.