Non sono mai stata particolarmente attaccata alla maglia del Napoli. Forse è per questo che l’euforia generale per lo scudetto mi imbarazza un po’, nella consapevolezza di non aver mai sacrificato neanche un secondo del mio tempo a tale causa.
Il calcio mi ha sempre appassionata, ma come tutte le adolescenti subivo il fascino dei giocatori; circostanze fortuite hanno poi voluto che la città per cui tifassi avesse anch’essa il mare, ma questo è solo un banale dettaglio.
Sono cresciuta in una casa di donne, e mio padre ne è stato risucchiato. Tutto dedito a lavoro e famiglia, seguiva il Napoli con la sobrietà e la compostezza dell’uomo moderato che è sempre stato. La sua classe mi lascia talvolta ancora basita, quando, in alcune circostanze come quella di domenica scorsa, davanti alla partita con la Salernitana, ha esclamato tutt’a un tratto: “Se stessi in campo ora li lascerei vincere, così da non farli retrocedere… tanto lo scudetto lo abbiamo già vinto, questo è un derby.” L’ho guardato per un attimo e mi sono venute le lacrime agli occhi, per quell’eleganza che i tifosi accaniti non hanno, e che lascia trasparire l’animo nobile che mi ha cresciuta; lui, che guarda fin troppi notiziari, non poteva ignorare le scorrettezze pronunciate dalla città di Salerno in occasione dell’incontro, eppure… “Non esiste il concetto di vendetta per i grandi uomini”, ho pensato sottovoce.
Napoli è la città degli eccessi. Nel bene e nel male. Per questo la odiano in molti. Noi napoletani stessi lo facciamo, perché sappiamo perfettamente quanto difficile viverci sia; ciononostante fatichiamo a distaccarcene, spesso restando abbarbicati al nostro quartiere di nascita e a quattro strade in croce, ignorando realmente quanta antichità e magnificenza nasconda Partenope. Ci proteggiamo in questo modo, e ci convinciamo di vivere bene, ma poi fatichiamo ad andare a lavoro coi trasporti pubblici quasi inesistenti; a buttare un rifiuto nella raccolta giusta perché la differenziata avanza a stento, e “poi, tanto, chi raccoglie la spazzatura la mette tutta insieme”. Ci abituiamo lentamente, senza neanche più esibire indignazione, al degrado di monumenti secolari che gli statunitensi traformerebbero in miniere d’oro, loro che elevano al rango di “sacralità” anche un pelo pubico di Abraham Lincoln. Noi ce ne accorgiamo, eppure lasciamo correre. Prendiamo i motorini per andare ovunque, anche con la pioggia, perché il traffico ci ruba ore preziosissime che non torneranno, e cerchiamo di svolgere qualsiasi attività il meno lontano possibile da casa nostra, in modo da non dover borbottare troppo a lungo. Spesso ignoriamo che a due fermate di metropolitana (ah, per inciso, una delle più belle d’Europa) ci sono mille e più associazioni dedite alla filantropia, e ci lamentiamo anche del superfluo, perché il napoletano si arrangia in qualsiasi circostanza avversa, è vero, ma se si lamenta si arrangia di più.
Non conosco bene il dialetto. A casa mia non si parlava, e quando il professor Giglio mi assegnò come tesi lo studio di un giornale partenopeo, i cui articoli erano spesso in “volgare”, papà capitolò e mi comprò il vocabolario napoletano-italiano. Ero già grande, ma lui non poteva tollerare che io gli avessi chiesto la traduzione della parola “veppeta” e allora tornò a casa con quell’inaspettato quanto deludente – per la ventenne che ero – regalo. Allora non potevo comprendere, ma papà mi stava regalando le mie origini: nessuno deve ignorarle mai, da qualunque luogo provenga.
Quando rifiutai di partire per l’Erasmus perché il ragazzo che frequentavo allora – un idiota – mi disse: “Vai pure, ma non aspettarti di trovarmi al ritorno!” io, di gran lunga più idiota di lui anche solo per il fatto di averlo scelto, agii d’impulso. Me ne sono pentita talmente tanto che al confronto un tappeto di ceci è un massaggio per le ginocchia, ma ormai la frittata era più che fatta, direi bruciata. Credo, però, di aver imparato molto sulla mia città grazie a quella mancata dipartita. Iniziai in quel periodo a girarne i vicoli, e se non fosse per la mia fallace memoria potrei accompagnare le persone a scovarne le meraviglie; non ho mai smesso di farlo da allora, e ad ogni traversa scopro qualcosa di nuovo.
Detesto i lamentosi, e quindi anche molti napoletani, ma detesto ancora di più quest’odio gratuito che ci stanno riversando addosso in occasione dello scudetto. Anzi, non è che lo detesto, è che proprio non lo capisco. Oltre a favorire la trasformazione in “malament” (persone rancorose e dappoco) di amici con cui sono cresciuta, a cui voglio bene e che ritenevo ingenuamente sani di mente, quest’accanimento è quasi peggiore di quelli terapeutici. Cosa c’è di più raccapricciante di essere tenuti in vita da quasi morti, contro la propria volontà? C’è il fatto di essere condannati alla gogna da vivi, mentre tentiamo come fratelli poveri di una nazione sulla carta ricca, di festeggiare qualcosa che ci siamo conquistati sul campo, con la fatica e talvolta con un pizzico di fortuna, che, non a caso, “aiuta gli audaci”. E’ un gioco in fondo, e tutti i giochi dovrebbero rallegrare, non seminare odio.
Quando lavoravo al bar, nel locale sulla spiaggia più blasonato del tempo, l’Arenile, ci fu la festa per l’addio al calcio di Ciro Ferrara. Ricordo perfettamente Michele tremare mentre preparava la capirihiña a Careca; ricordo Folco e tutti i ragazzi del bar lasciare me e Lorenzo da soli a lavorare: era arrivato Maradona. Ci chiedevano di affidare loro qualsiasi cosa: una forchetta, un piatto, un flut, un seau à glace col Moet per portarli “al pibe de oro”. Le postazioni erano vuote, il personale sembrava drogato e inebetito. Qualcuno piangeva.
Noi due invece ridevamo: ci sembravano tutti idioti e fanatici, ma in realtà non avevamo capito niente. Quello spazio era diventato un santuario e sull’altare ci si doveva per forza inginocchiare.
Da quando è morto Diego – nessuno in città può esimersi dal chiamarlo così – mi sono ritrovata spesso a pensare a quella scena: sono certa che nelle case di tutti coloro che erano presenti quella sera, c’è ancora uno scatto, un autografo, un tatuaggio scolpito nella mente.
Napoli è così: ti resta addosso in eterno. Te ne vai e quasi mai ritorni, se non per venire a salutare parenti e amici; per guardare il Vesuvio; per mangiare la pizza. Qualcuno è nostalgico oltremodo e tenta di ritornare a tutti i costi, rovinando le carriere proprie e quelle delle mogli, nonché la vita futura dei propri figli, perché Napoli, si sa, è una possibilità che spesso si nega persino a sé stessa. Ma noi siamo anche un po’ masochisti, e se dobbiamo farci proprio del male, allora vogliamo che sullo sfondo ci sia il Castel dell’Ovo o la Certosa di San Martino o meglio ancora il Maschio Angioino, perché almeno soffriamo contornati dalla bellezza.
La città si è tinta di azzurro già da un po’; in molti, che non vivono più qua, stanno facendo capolino per immergersi nei colori della propria squadra; per abbracciare le sagome a grandezza naturale dei giocatori; per autotassarsi in modo da rendere Napoli interamente vestita a festa. Io cammino e la guardo: mi mette allegria nella sua incredibile eccentricità; nella sua eleganza sempre scomposta; nella sua sobrietà inesistente; nella sua anima chiassosa e talvolta surreale di cui spesso e volentieri mi vergogno, ma in fondo si chiama Napoli proprio per questo.
Navigo di continuo nel web e di recente sono incappata in notizie – molte delle quali fortunatamente rivelatesi fake – stracolme di odio regionale; sento intonare quella canzoncina che già da piccola trovavo l’emblema della stupidità, della grettezza umana, dell’inconsapevolezza del valore delle parole: “… Lavali col fuoco…!”.
Mi viene allora istintivo guardare il Vesuvio: mi pare improvvisamente umano e mi sta strizzando l’occhio. Si avvicina al mio orecchio e sussurra: “Allora procedo, che dici, erutto?”. Non so cosa rispondere; la sua domanda mi ha spiazzata e quindi faccio cenno di sì con la testa perché mostra un sorriso sornione che mi rassicura. E così spalanca la bocca: dalle sue fauci esce lava dipinta di bianco e di azzurro: striscia, e contro tutte le leggi di gravità, risale fino alle Alpi, senza provocare danno alcuno, ma rendendo le terre fertili e rinvigorendo le ginestre e milioni di altri fiori. E’ il suo modo di ammonire la nazione intera: gli insiemi sopravvivono soltanto a patto che i suoi componenti siano coesi. Se la testa si ammala si muore, certo, ma si può perdere la vita anche – Giamaica docet – se si ammala un piede o un’anca.
Nella scalata verso questo scudetto, ho intravisto tenderci ben più di uno sgambetto. Come se la felicità di una città potesse nuocere alle altre, non rinvigorirle. E allora ben venga maledirla, aggredirla col turpiloquio, riempirla di volgarità e malaugurio.
Il popolo napoletano non è perfetto, nessun popolo al mondo lo è. La storia gli ha insegnato a vivere di stratagemmi, e lui ha imparato la lezione come il più svelto degli scolari, che purtroppo non capisce mai a che punto bisogna fermarsi. Il calcio, però, è un’altra cosa.
Da noi il sacro e il profano si sono sempre mescolati; l’altare di Maradona ora accoglie più turisti della Chiesa di Santa Chiara, e gli anni di attesa dello scudetto numero tre, come la Trinità, si mescolano simbolicamente all’età di Cristo perché tutto ciò che succede a Napoli ci parla, e lo fa in quel modo caratteristico che a molti non piace e che non rispetta quasi mai le regole del Galateo.
“S’ sent’ assaj megl’ si s’allucc'”! (Se si alza il tono della voce, le parole risultano più comprensibili!)
Oggi c’è solo da gioire e lo dovremmo fare tutti. Tifosi e non tifosi. Juventini, milanisti, atalantini e salernitani insieme a noi napoletani. E’ un momento di entusiasmo e di riscatto pieno per un popolo su cui regna la maldicenza spesso senza ragione, in virtù di generalizzazioni e luoghi comuni così odiati da chi ha ancora un po’ di sale in zucca.
Molti di noi, grazie a questa vittoria, hanno riportato in vita per un attimo le persone che hanno perso e che oggi avrebbero voluto accanto, e direi che questo, unito all’amore puro e indiscriminato per il buon calcio, valga da solo l’impresa, al di là di qualsiasi colore.
Oggi siamo tutti chiamati a fare festa.
Domani potremo tornare a lamentarci.
Domani però.
Oggi no.