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Buonproposito

C’era una volta Lamento. Era nato piangendo come la maggior parte dei bambini, ma a differenza degli altri non aveva mai smesso. Fino ai tredici anni aveva usato le lacrime, poi dovevano avergli detto che era troppo grande o troppo maschio per quelle cose e quindi le aveva sostituite dapprima con dei mugugni e dopo con delle parole fastidiose pronunciate ad alta voce. Se qualcuno cercava di essergli amico, confidandogli dei segreti o qualcosa che lo turbava, lui ascoltava in maniera impaziente e distrattamente rispondeva: “Non sai quello che è capitato a me!” gli rubava dunque la parola e cominciava il racconto delle sue giornate presenti e passate, soffermandosi sui soli dettagli spiacevoli. Quando Lamento compariva sul luogo di lavoro nessuno era felice di vederlo perché seminava malumore e godeva nel provocarne, andando spesso a riferire bugie che si diffondevano velocemente; nascondeva nella tasca destra una boccetta contenente dell’olio misterioso: bastava una sola goccia di quel liquido affinché le menzogne scivolassero lontano e raggiungessero un numero incredibile di persone. Le bugie venivano dunque scambiate per verità e Lamento se ne giovava, così non era l’unico a borbottare sempre.

Un giorno nel suo reparto venne assunta una nuova segretaria, si chiamava Buonproposito. “Beh, e tu che ci fai qua?” – così la accolse – “Non ci serve altro personale! E poi che nome è il tuo? Un nome da maschio su un corpo da femmina, figuriamoci che cosa combinerai! E questi capelli disordinati, per giunta rossi? Nessuno ti ha mai detto che portano sfortuna?” e strizzò l’occhio a Invidia, che prontamente subentrò: “Guarda quanti ne hai, poi! Tutte le fortune agli altri: io li sto perdendo ed erano dorati come la luce del sole! Tu che ne hai a migliaia li trascuri portando in giro questo colore che ricorda un lucchetto arrugginito! Noi saremo i tuoi capi di sezione, quindi non perdiamoci in convenevoli. Lui è Lamento, io Invidia. E quelle pagine che vedi accatastate sulla scrivania in fondo alla stanza devono essere fotocopiate fronte-retro in quadrupla copia entro oggi pomeriggio alle 15!”. “Ma…” – balbettò la ragazza – “sono appena arrivata, saranno migliaia di pagine, mi serve un po’ più di tempo!”. “Salterai la pausa pranzo, si chiama gavetta, ci siamo passati tutti!”. Lamento e Invidia se ne andarono sgignazzando e Buonproposito si rimboccò le maniche; era un lavoro meccanico e lei detestava non avere il cervello in funzione, ma intravide – al di sotto delle infinite pile di pagine da fotocopiare di cui era invasa la scrivania – una bellissima tonalità di turchese. “Ottimo” – pensò – “una volta che l’avrò liberata, la luciderò e mi sembrerà di stare seduta accanto al mare anche mentre lavoro.”

Quella sera non riuscì a tornare a casa per cena e raccontò alla madre qualche bugia di troppo per non farla preoccupare. La mattina dopo Buonproposito conobbe Disperazione. Era una donna sottile sottile, tanto che si diceva passasse attraverso le porte. Qualcuno giurava di averla vista comparire all’improvviso nella propria stanza, senza averne avvertito prima i passi o la voce. Disperazione non si era mai più ripresa dalla morte del marito – Saluto – l’unico grande amore della sua vita. Anche lui lavorava in quella ditta e a Buonproposito raccontarono che arrivava sempre in anticipo, salutando tutti più di una volta nel timore di aver dimenticato qualcuno. Pare che tale abitudine gli fosse derivata dai genitori, i quali erano soliti dire: “Il saluto non si nega a nessuno, appartiene agli angeli. Chiameremo nostro figlio così!”. Però Saluto non era stato fortunato e si era ammalato molto giovane, non si sa di che cosa perché tutte le volte che Disperazione provava a raccontarlo, Lamento le rubava la scena ed esclamava: “Sai che anche io sono malato? Ho una malattia autoimmune pericolosissima che mi porta degli scompensi cardiaci importanti, ogni momento potrebbe essere l’ultimo!”. Ormai erano undici anni che raccontava la stessa storia, quest’ultimo momento doveva essere parecchio ritardatario!”.

Anche quella sera Buonproposito tornò a casa troppo tardi per la cena e la mamma le riferì che le sue amiche avevano chiamato a casa allarmate dal fatto che non rispondesse ai messaggi. La ragazza allora prese il cellulare, dimenticato in borsa da più di 24 ore, e scrisse: “Amiche mie, sto bene, non siate in pena per me. L’acqua con cui mi hanno battezzata è inquinata e stanno provando a contaminarmi, ma io resto impermeabile. Porto nelle tasche il nostro amuleto invisibile e di nascosto fischio, come abbiamo imparato a fare insieme tanti anni fa in quella gita sul Monte San Costanzo. Ci torniamo il prima possibile con Frida? Quando rincaso corre verso di me e mi salta addosso leccandomi: immagino che sia il suo modo di chiedermelo, non l’ho mai vista felice come in quel giorno. Ps: attraverso la mia scrivania vedo il fondo dell’oceano. Chi dice che solo le persone hanno il dono di trasmettere il buonumore? Sicuramente è qualcuno che non ha mai visto il mare. Vi voglio bene.”

I giorni si avvicendavano  senza scossoni quando, due settimane dopo, Buonproposito assistette a una lite furiosa in mensa: Invidia urlava all’indirizzo di Disfattismo, un uomo alle soglie della pensione che era stato rimosso dall’incarico di vicepresidente della società: “RINGIOVANIMENTO e MODERNIZZAZIONE”, aveva motivato l’amministratore delegato. Disfattismo però non aveva mai smesso di sentirsi il capo e tutti i giorni girava per i corridoi, urlando all’indirizzo degli impiegati. Non aveva importanza che avessero commesso azioni scorrette, ogni scusa era buona per palesarsi senza avvisare e seminare ramanzine dai toni stridenti. “Hanno aspettato anche troppi anni per rimuoverti dall’incarico! Non c’è nulla di costruttivo nelle tue critiche! A urlare siamo bravi tutti, avrebbero dovuto assegnarla a me la tua mansione tempo fa, ora sì che si vedrebbe qualche beneficio!”, incalzava Invidia. Disfattismo rimandava al mittente le accuse, le rispondeva che la sua lingua era tanto tagliente quanto disonesta e che pur di far carriera sarebbe stata capace di… Nessuno seppe mai di cosa si sarebbe macchiata la coscienza Invidia per ottenere una promozione perché il diverbio era stato interrotto da Lamento: “Anche io sono stato declassato, nonostante fossi super-efficiente. Adesso mi sforzo il minimo indispensabile, non ho più voglia di slanci inutili, ci sono tanti giovani qua, ci pensino loro! E poi ho nove clienti che seguo da solo, gli altri incarichi mi sono stati rifilati: posso eseguirli anche male dunque, sono giustificato. BUONPROPOSITOOOOOOOOO! Aspettiamo una telefonata alle 14, te l’ho detto già quattro volte stamattina: corri immediatamente a rispondere!

La ragazza sgusciò fuori dalla mensa senza aver finito il pranzo, come capitava ormai da parecchi giorni; aveva avuto per un attimo voglia di rispondere per le righe, ma poi aveva deviato pensiero e direzione, camminando verso la macchinetta del caffè. Lì scoprì che le cialde erano state consegnate in sua assenza ed erano chiuse in involucri color pastello, la vista di quei colori la rasserenò. Bevve un caffè gustoso nella più piacevole delle solitudini e si recò in stanza. Erano le 14.01. Il telefono trillò. “Buonasera, qui EnerSol, con chi ho il piacere di parlare?”. “Salve, sono la dottoressa Speranza, volevo confermare la fornitura dei pannelli solari di cui avevo accennato al capoufficio, c’è o posso lasciar detto a lei?”. “Piacere di conoscerla, dottoressa Speranza,  che bel cognome! Può fare come preferisce, io sono solo la segretaria, posso appuntare la notizia e riferirla.”. “Benissimo. Senza offesa, ma il suo referente sembra essere il depositario di tutti i mali del mondo. Se non aveste dei prezzi così competitivi avremmo ordinato la fornitura altrove. Ci sono possibilità che possa ascoltare una voce piacevole come la sua più spesso? Sa, noi abbiamo sedi in tutta Europa, siamo ricoperti di lavoro, ma abbiamo una sola mission: il benessere. Economico principalmente, eppure anche gli idioti sanno che per arrivare a raggiungerlo bisogna coltivare prima quello interiore. È d’accordo, signorina …?”. Buonproposito si illuminò: “Buonproposito, mi chiamo Buonproposito, e la sua affermazione arriva a portare luce in una giornata che sembrava grigia. Lei in questo modo ha appena superato le cialde colorate del caffè, ehm… mi scusi, come affermazione può sembrare ridicola, ma le assicuro che non lo è, GRAZIE!”.

Le due donne si accordarono: poiché Lamento non avrebbe interrotto la pausa pranzo per nessun motivo al mondo, la dottoressa Speranza avrebbe chiamato ogni lunedì alle 14; in questo modo a interfacciarsi sarebbero state sempre loro due. Iniziarono a sentirsi spesso e a trattenersi al telefono fino al termine della pausa pranzo. Speranza amava di Buonproposito la creatività, la capacità di far fronte alle difficoltà impreviste senza mai perdersi d’animo o tirarsi indietro. Buonproposito, dal canto suo, iniziò a fantasticare sulla voce di quella donna: calda come la zuppa che le preparava sua madre quando rientrava troppo tardi, e matura come una prugna che ha preso il sole sui quattro lati; accogliente come un rifugio quando ti sorprende un acquazzone e imperativa quando occorreva, ma mai scortese. La immaginava simile a un cigno, elegante e soffice.

Un giorno purtroppo Lamento rientrò prima del previsto, era insieme a Disfattismo e Invidia e cercavano qualche cosa da demolire. Buonproposito non si accorse del loro ingresso, intenta com’era a chiacchierare con la dottoressa Speranza; stava mangiando un toast e prestava cura a masticare senza far rumore quando non era il suo turno di parola. I tre si avventarono sulla ragazza con una serie di accuse malevole e infondate: Lamento la accusò di non essere produttiva e di non lavorare abbastanza, ma la situazione peggiorò dopo che le ebbe strappato la cornetta di mano ed ebbe identificato la voce dall’altro capo del telefono. A quel punto intervenne Invidia che la incolpò di voler fare velocemente carriera, sottraendole il cliente più importante del momento. Disfattismo ne approfittò per dimenticare ancora una volta che non aveva più mansioni direttive e aggredì anch’egli verbalmente la ragazza: le disse che quelle cose non sarebbero mai potute accadere quando aveva lui le redini dell’azienda e che era solo un’insignificante arrivista che non sarebbe giunta da nessuna parte se non per direttissima alla porta di uscita! Insieme i tre scrissero una lettera al Direttore Generale, in cui sostenevano di aver visto Buonproposito mettere le mani in cassetti destinati a documenti riservati e di trascorrere ore ed ore al PC dell’ufficio navigando in Internet per affari personali. Conclusero che si era lamentata con la dottoressa Speranza dell’assenteismo continuo dei suoi capi, inducendola, per sveltire le pratiche, a relazionarsi esclusivamente con lei.

Buonproposito fu messa alla porta in malomodo. Invidia rideva, Disperazione era sinceramente dispiaciuta ma non disse una parola, come tutte le persone che vengono trascinate in un bosco oscuro dal proprio dolore e smettono di cercarne la via d’uscita, favorendo così, senza neanche rendersene conto, l’ingresso di altri nella loro stessa perdizione. Buonproposito tornò a casa e, per la prima volta dopo tanti mesi di ingiustizie, pianse. “Cosa penserà di me la dottoressa Speranza? Non mi hanno dato il tempo di salutarla, né di darle spiegazioni. Credo che sia tua coetanea, mamma, non ci siamo mai incontrate ma sono sicura che abbia una fossetta sotto il mento come la tua, e che sappia parlare ai cani, come facesti tu con Frida quando la salvasti, ricordi? Ero partita per il Messico e lei pensava che l’avessi abbandonata, si stava lasciando morire di fame, se non fosse stato per te oggi non ci sarebbe. Mamma, anche la dottoressa Speranza penserà che sono andata via senza salutare, che sono scappata, che ho commesso una cattiva azione?”. La mamma, intenerita, la guardò scuotendo il capo ed asciugandole le lacrime. “Amore, perché ti chiami così, lo ricordi? Necessita che te lo racconti ancora una volta. Io e papà abbiamo perso due fratellini prima di te, avevano già i nomi anche se non sarebbero mai nati, si chiamavano Furore e Buonsenso. Erano gemelli e noi immaginammo che il primo sarebbe stato passionale, pieno di euforia e di istinto, ma che a causa di queste caratteristiche si sarebbe messo facilmente nei guai e che il secondo lo avrebbe compensato seguendolo con la sua ragionevolezza sempre, anche da lontano. Senza riflettere si prendono decisioni sbagliate, piccola mia, e si arriva sempre a conclusioni azzardate. Dopo tanto tempo sei comparsa tu. Come una nevicata in agosto in Basilicata, una pioggia incessante nel Sahara, la siccità a Meghalaya; sei arrivata miracolosamente, come tutte le cose che prima o poi smettiamo di rincorrere perché abbiamo il terrore di immaginarle reali, e così facendo impariamo la rassegnazione. Il contrario della rassegnazione sei tu, Buonproposito, non voglio sentire più queste sciocchezze: la dottoressa Speranza ti conosce, fa’ in modo di trovarla e raccontale la verità!”.

Nelle settimane che seguirono la dottoressa chiamò spesso alla EnerSol chiedendo di Buonproposito. Le rispondevano che la ragazza dai capelli rossi aveva avuto un’altra offerta di lavoro ed era scappata via senza neanche rassegnare le dimissioni. Una volta le dissero che aveva fatto pervenire una lettera da un legale in cui chiedeva un risarcimento danni per molestie. Nessuno le fornì mai un recapito dove poterla rintracciare. Ad aprile, quando erano già trascorsi diversi mesi dal suo licenziamento, Buonproposito andò con Resistenza e Fiducia – le sue migliori amiche – al monte San Costanzo. Frida, scodinzolante, si accomodò in auto e le tre ragazze partirono. Era una giornata primaverile e dopo aver salito il sentiero faticoso che conduce sulla sommità del monte, sistemarono a terra i propri tappetini, stando attente a non calpestare nessun fiore. Frida giocava rincorrendo qualcosa o qualcuno che appariva soltanto a lei e le tre amiche parlavano dei propri progetti, di Lamento, Invidia e Disfattismo che si palesavano, sotto diverse spoglie, nelle vite di ciascuna di loro. Cercavano di camuffarsi, cambiavano nome, ma non serve a niente cambiare il proprio nome se l’animo rimane immutato. Per cambiare identità bisogna cambiare il modo di vedere le cose.

Mentre erano intente a conversazioni di questo tipo, Frida si allontanò molto e allora Fiducia si spaventò, sapeva quale importanza avesse per l’amica quel cane scampato alle tempeste. Resistenza allora, da sempre la più coraggiosa tra loro, andò a cercarla ma non la trovò e tornò delusa e vinta. Buonproposito sussultò: “Ho in tasca il nostro amuleto invisibile, è arrivato il momento di farmi vedere se avete davvero imparato a fischiare!”. Al fischio triplo Frida comparve, era con un altro pastore tedesco più vecchio che aveva il pelo lucente e lo sguardo affilato come quello degli umani. Buonproposito corse incontro ai cani e vide alle loro spalle una sagoma. Nello specchio del lago alla sua sinistra l’acqua rimandava l’immagine di un cigno, ma davanti a lei c’era una donna! Le si appropinquò e la ragazza capì: era la dottoressa Speranza, l’aveva trovata!”.

“Hai i capelli rossi come dicono in ufficio, ma contrariamente a quanto mi hanno riferito, sono bellissimi e lucenti. Ho riflettuto a lungo sulla sorte delle persone che ti hanno cacciata, ormai l’azienda è mia, l’ho comprata. Poiché non sono riuscita a pervenire a nessuna decisione, ho pensato che l’avresti trovata tu. Queste sono le chiavi della EnerSol. Domani mattina sarai tu ad aprire. Ho convocato tutto il personale per le 12, in modo da darti il tempo di riflettere e decidere cosa fare, so che la vendetta non ti appartiene e che farai la cosa giusta. Il tuo nuovo ufficio è al primo piano, ho fatto dipingere ogni parete di un colore pastello, se ricordo bene ti facevano sentire al sicuro, ti ispireranno. Non sei obbligata a mantenere in carica nessuno né a licenziare nessuno, ma allo stesso tempo sarai giustificata qualora volessi declassare chi ti ha trattata male. Io sono anziana ormai, come puoi notare. Ne ho viste di cattiverie, ma non ho mai smesso di credere nelle persone che hanno una luce dentro e la inseguono ad ogni costo. Quella luce io potevo solo sentirla per telefono, mentre ora la vedo. Ti ho portato una cosa, ti servirà. Sarà il nostro segreto”.

La dottoressa tirò fuori dalla borsa la boccetta dell’olio misterioso di cui si serviva Lamento per diffondere il malumore, avrebbe aiutato Buonproposito a far scivolare più velocemente il suo ottimismo, la sua tenacia. La ragazza dai capelli rossi annuiva in silenzio, annuiva a tutto, facendo sì con la testa mentre incredula ascoltava quello che le pareva essere soltanto un sogno. Si pizzicò le guance più e più volte mentre la sagoma della dottoressa si allontanava: non scompariva mai, era là, sempre più in miniatura, a ricordarle che era tutto vero. Le restava solo una domanda: come aveva fatto la dottoressa Speranza a trovarla?

Ormai sola, si girò d’istinto verso il lago. Lo specchio d’acqua le rimandò l’immagine di sua madre, che le strizzò l’occhio e le disse: “Ti aspetto per cena, non fare tardi, hai da sistemare un bel po’ di cose domani.”    

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Sproporzioni ben motivate

C’era una volta un punto interrogativo. Aveva la testa enorme e il corpo piccolo, ed erano in molti a deriderlo per la sua forma bizzarra.

“È nato invalido!”, diceva qualcuno che aveva la fortuna di essere ben proporzionato.

“È la giusta punizione per chi parla sempre!”, bisbigliò il silenzioso di turno.

“Pensa troppo!”, disse qualcun altro che aveva avuto la fortuna di nascere beota.

“Ha molto cuore!”, esclamò invece una goccia di pioggia, che era di passaggio da quelle parti.

Il punto interrogativo la sentì e, abituato da sempre alle critiche, si meravigliò. Le chiese: “Cos’hai detto? Puoi ripetere?”.

“Certo!”, esclamò sorridente la goccia di pioggia: “Hai molto cuore. Sì, credo sia proprio questa la spiegazione della tua testa enorme. Devi sapere che il cuore e la testa di ognuno di noi sono profondamente legati. Quando il cuore è pieno zeppo di cose, non riesce a contenerle tutte. Potrebbe esplodere, e gli ospedali sono già troppo pieni. Il tuo cuore non avrebbe mai rischiato di vederti entrare in un reparto d’urgenza, e allora ha chiesto aiuto alla testa. Lei lo ama, tutte le parti del corpo lo amano. Ne riconoscono l’energia, la passione, la pienezza.

La tua testa dunque ha fatto spazio. Il cuore vi ha riversato tremila domande, incertezze, sensi di inadeguatezza, agitazioni. La testa, inondata da una tale tormenta, ha rischiato di saltare, lasciandoti in questo modo senza guida, senza direzione. Quindi ha incamerato ma allo stesso tempo, per sopravvivere, ha creato ordine. Ha messo in fila cose che stavano spaiate e alla rinfusa; ha posizionato i ricordi in un angolo ben riparato, di cui solo lei ha le chiavi di accesso. Ha spolverato le foto, tolto le ragnatele dai meccanismi inceppati, oleato gli ingranaggi, silenziato i rumori nefasti. Ha capito che negli angoli c’è polvere sì, ma anche altro spazio da sfruttare, e che per farlo bisogna lasciare indietro qualche cosa. Fare delle rinunce, delle scelte. Capire che non si può tornare indietro.

Mentre la tua testa faceva tutto ciò si gonfiava, certo, ma era ugualmente felice perché, spiando il cuore, lo scorgeva rallentare il respiro e addormentarsi “sereno”.

È questo il motivo per cui hai la testa così grande, figliolo mio. Vanne fiero e non inciampare mai nel tranello dell’offesa gratuita. Chi giudica dà spesso voce alle proprie frustrazioni e guarda solo quello che ha davanti. Non VEDE attraverso. Non SENTE attraverso. La tua testa resterà probabilmente sempre sproporzionata rispetto al tuo corpo. Sarà piena di domande alle quali non troverà risposta ma, dall’alto della sua posizione, non avrà mietuto prigionieri. Anzi, avrà salvaguardato e liberato il tuo cuore. Fidati. Se la testa di un uomo è piccola, anche il suo cuore lo è.”

Finito il suo discorso, la goccia cadde e le sorelle la seguirono. E poi i genitori, gli amici, i parenti e infine anche gli sconosciuti che, dopo aver attentamente ascoltato le parole di quella porzione d’acqua così piccola ma così saggia, decisero di unirsi, solidali, in una grandissima pozzanghera piena di luce.

Nacque un temporale burrascoso. Il punto interrogativo restò lì immobile a guardare. Inerte. Inerme. Poi un lampo si accese e lui … ballò.

La sua testa ciondolava di qua e di là come in una melodia ipnotica e il cuore la guardava estasiato. Lo stesso bagliore improvviso che aveva visto nel cielo, allora, lo attraversò: conteneva alcune parole. Ce n’era traccia nella storia perché erano state pronunciate per la prima volta da un uomo piccolo piccolo con un cuore grande grande; forse piacevano a tutti, ma lui vi era particolarmente affezionato perché gliele aveva lasciate in dono la sua mamma, prima di intraprendere il più lungo dei viaggi.

La frase recitava così: “La vita non è restare ad aspettare che passi la tempesta, ma imparare a ballare sotto la pioggia”.

Fu solo dopo che il punto interrogativo le ebbe gridate ad altissima voce, saltando nella luce proiettata dalle case degli altri, che d’improvviso le nuvole si diradarono e il sole si affacciò, annunciando, luminoso e sproporzionato, un nuovo giorno.

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Riconversione

C’era una volta un velo. Era convinto di essere nato per proteggere le donne dalla malasorte e augurare loro un sorridente destino, tuttavia man mano che trascorrevano gli anni e viaggiava, iniziava a dubitare dei motivi della sua creazione. In principio era talmente leggero e sottile che lo chiamavano “tessuto di vento” ed era così orgoglioso di questo soprannome che iniziò a gongolarsi. Qualcuno pensò che fosse superbo; lui, invece, semplicemente amava assumere i colori delle fiamme e mostrarsi giallo, rosso, arancione, senza ritegno. Perché averne? “Perchéééé?! Non erano quelli, forse, i colori dell’imbarazzo, dell’ira, delle bugie?” lo rimproveravano gli altri indumenti, invidiosi.

Il velo non se ne curava tanto. Era bello, elegante e col passar del tempo divenne sempre più ornamentale, cingendo il capo delle sacerdotesse, delle imperatrici e delle spose. Fu ad un certo punto però che l’invidia prevalse e il mondo lo privò dei colori. “È destinato alle spose” – dicevano – “deve essere bianco, come la purezza, come la castità, come la Vergine”. Al velo dunque furono sottratte le fiamme. A lui non piaceva essere bianco, a dire il vero. Si sentiva più a suo agio sfiorando l’arcobaleno, era decisamente più in linea con il suo umore: sempre allegro, sempre propositivo. Ma non si lasciò turbare da quel destino avverso: niente doveva scalfire il suo messaggio originario. Continuava a sorridere a denti aperti, dunque. Lo si vedeva rigido solo quando spirava forte il vento, ma in quei casi, con un filo di voce sottile come la prima stoffa in cui era stato generato, consigliava alle donne di legarlo stretto, e in tal modo restava a loro avviluppato.

Un giorno una di loro, malauguratamente, non seguì il suo consiglio e il velo si snodò. Attraversò continenti, regioni e città, fino a toccarne una che si raccontava fosse la figlia dell’antica Persia, terra di leggende e di tessuti preziosi. Aveva viaggiato tanto però, troppo. Aveva strisciato per terra; era finito in fessure strettissime dalle quali si era miracolosamente salvato senza strapparsi, e le persone, a furia di tirarlo cercando di recuperarlo, lo avevano trasformato. Quando si fermò era nero e non si piaceva; pare che non si specchiasse neanche più, perché di tutti i colori del mondo il nero era quello che aveva sempre detestato. “Va d’accordo con ogni altra tinta, è vero, ma quanti presagi funesti e quante lacrime vedo nella porta delle immagini”.

Tale porta era un uscio sul mondo che il velo apriva con un soffio tutte le volte che non riusciva, con la sua sola inventiva, ad avere una rappresentazione della realtà. Fino a quel momento non gli si erano mai parate dinanzi immagini drammatiche, ma ciò che vide quel giorno lo impaurì. Si vergognava, certo, dell’aspetto che aveva, ma non era quello che lo turbava nel profondo. Avvertiva uno strano presentimento. Era come se in quel viaggio avesse perso il significato della propria genesi; sentiva di averne assunto un altro, ma non riusciva a indovinare quale. Chiese allora maggiori dettagli alla porta delle immagini, che gli restituì figure violente di guerre, di prepotenze, di usurpazioni. Nella porta vedeva sé stesso nelle mani di uomini con i volti cupi e seri, che con la forza costringevano donne impaurite e silenziose ad indossarlo. A chi non ubbidiva… “Basta, non voglio più guardare! Se sono così letale, scapperò. Andrò via, tornerò da dove sono venuto, scomparirò. Devo solo riprendere il mio viaggio e riapparire in posti dove posso essere di aiuto, non nuocere!”.

Fu così che si incamminò. Volava di nascosto, sotto le porte, attraverso le finestre. Diventava piccolo piccolo e quando passava accanto alle donne era fortunato: guardavano sempre da un’altra parte. Poi un giorno si ammalò; era troppo stanco e affaticato e aveva la febbre alta, doveva fermarsi. Si accasciò per terra senza volerlo e quando riprese conoscenza, disse fra sé e sé: “Ancora un pochino e riprenderò il mio viaggio”, ma una ragazza lo notò.

Era bella, di una bellezza mediterranea; si accompagnava ai genitori e al fratello. Era curiosa, tanto. E ribelle, tantissimo, lo dicevano i suoi occhi, neri come la pece. Mahsa raccolse il velo e lo indossò. Aveva capelli voluminosi e fluenti, che il velo non seppe e non volle contenere: perché mai coprire tanta bellezza? Aveva già dimenticato le immagini mostrategli dalla porta. Le si accomodò intorno al capo in maniera disordinata, capricciosa e bizzarra, se rapportata a quella delle donne intorno a lei. Fu in quel preciso istante che arrivarono degli uomini in divisa. La accusarono di non conoscere le regole di quella terra, di non essere realmente “fedele”, di non avere rispetto per i propri fratelli e per Allah. Mahsa era confusa: cosa aveva fatto di così grave? In fondo era in vacanza nella capitale, lei che veniva dalla provincia e voleva solo conoscere, vedere, toccare, ammirare i fasti di un antico regno. Le venne in mente quel poliziotto thailandese che, tanti anni prima, aveva sequestrato la macchina fotografica alla cugina perché aveva osato schernire una statua di Buddha acefala. Hadis aveva posizionato la propria testa sul corpo della statua: atto impensabile, abominio, sacrilegio: il militare le aveva aperto l’apparecchio e lasciato bruciare la pellicola, così da essere sicuro che l’offesa non si perpetuasse. Ma lei, a differenza della cugina, non aveva con sé macchine fotografiche; non c’erano pellicole da bruciare, non era Buddha il dio ferito. Si strinse il velo intorno a sé, rassegnata. “Meglio fare come dicono, seguirli al centro di detenzione – la sola parola mi mette angoscia –  e frequentare un’ora quel corso sul corretto posizionamento del hijab. Questa è polizia morale, già il nome mi mette a disagio, non sia mai che…  Ci sono altre donne, bene, non sono l’unica che sfoggia un abbigliamento inappropriato. Ci tratterranno poco, avranno famiglie a cui tornare, bambini da abbracciare…”

Mahsa però non uscì. I genitori la attendevano e anche il fratello, ma non arrivava mai. La polizia disse che era stata trasferita in ospedale perché aveva accusato un malore, una ragazza di ventidue anni in piena salute, che strano! Altre attese, altri tormenti, altre paure. Mahsa non tornò mai più. Il velo piangeva mentre le si stringeva al collo, cercando di coprirne i lividi. Avevano provato ad usarlo per farle del male, ma lui era divenuto rigido, compatto, inafferrabile. Allora avevano usato le mani, picchiando forte. Lui aveva tentato di librarsi in cielo e le guardie si erano spaventate; lo avevano perciò tagliato, spezzettato, distrutto. I suoi brandelli erano infine caduti sul corpo straziato della ragazza. “Ora così forse imparerà a usarlo bene, le servirà al cospetto di Allah!”, ridevano.

Il velo invece piangeva. Stava per lasciare questo mondo, ma fece in tempo ad aprire un’ultima volta la porta delle immagini: apparve Mahsa, viva, con una luce strana negli occhi e uno sguardo intrepido, sprezzante. Aveva il sorriso un po’ amaro delle persone che hanno perso qualcosa di prezioso, e in memoria di quel qualcosa intraprendono la più pericolosa delle battaglie. Le sue mani erano nere, come quelle di chi scava in miniere profondissime, e dalle cavità oscure di elementi insabbiati e preziosità nascoste, trae alla luce una pepita d’oro: la verità. Apparve allora, alle sue spalle, un’altra immagine. Il velo, nel suo residuo afflato di vita, osservò: vide tante donne che strappavano i suoi fratelli; le vide fiere e orgogliose di questo gesto; le vide rabbiose, le vide combattenti. Scorse i suoi fratelli volare via; ammirò le spose felici a volto scoperto; vide le donne, finalmente libere, incontrare lo sguardo di chi desideravano, e infine osservò tutti i veli raccolti davanti ad una fabbrica.

L’insegna recava la scritta: RICONVERSIONE. Si affacciò e capì: la religione non c’entrava nulla; i suoi fratelli erano in fila, felici di andare incontro al proprio destino. Si ricompose miracolosamente e si posizionò accanto a loro. Destinazione: annientamento e riconversione. Avrebbero perso la loro forma originaria, sarebbero scomparsi a favore di figure astratte, colorate, indefinibili, impalpabili, come talvolta riescono ad essere soltanto i sogni.

“Se smettiamo di desiderarla, non esisterà mai una realtà migliore. Tutti quelli che lottano per cercarla, la stanno già realizzando”, disse a gran voce il velo, mentre, a testa alta, si apprestava a fare il suo ingresso nella catena di montaggio.

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Alla finestra

C’era una volta una finestra che non era mai sola. Una donna ironica e sublime le faceva compagnia da decenni. Erano buone amiche e si appoggiavano l’una all’altra nei momenti di maggior bisogno. Spesso la finestra lasciava appoggiare a sé altre persone, ma niente la riscaldava come il calore di quella donna. Passavano i giorni, i mesi, gli anni, e le due erano sempre là, inseparabili, a guardare oltre le siepi, le nuvole e le scie di fumo lasciate dalle sigarette. Poi il fumo scomparve: era nocivo, e l’orizzonte diventó più nitido. La donna si allontanò per un po’ e la finestra rimase sola. Qualcuno si appoggiava di tanto in tanto, ma lei era sempre lì che sperava di vedere la sua “metà” attraversare il verde e tornare a casa. E così fu. Le sue preghiere furono ascoltate e le due amiche divennero ancora più inseparabili. Chi se ne andava riceveva da entrambe un lungo saluto, ancor più amorevole del solito. Chi arrivava trovava già la porta aperta e il salotto inondato di profumi: la finestra faceva dolcemente la spia.

Poi un giorno arrivò un mostro, entrò nelle abitazioni e la gente fu costretta a non uscire. Gli ospiti d’onore divennero i balconi, ma in quella casa la finestra non perse mai il suo podio nel cuore della donna. Non c’era un attimo in cui le amiche non fossero lì a chiacchierare. Poi la donna fu costretta di nuovo ad andarsene. La finestra piangeva giorno e notte e il suo pianto era talmente straziante che commuoveva tutti: piangevano le tapparelle, i pavimenti, i balconi, le mura, i vasi, gli abitanti di quella casa e di tutte quelle in cui giungeva l’eco delle lacrime.

Fu così che un giorno iniziò a piangere anche la Luna. “Cos’hai nel cuore, finestra? Il tuo pianto è così devastante che non posso fare a meno di versare anche io le tue stesse lacrime, sebbene non sappia il motivo da cui sono generate”, disse l’astro luminoso. “Perdonami, Luna. Tu saprai bene cos’è la nostalgia. Sono solo una finestra al cospetto della regina del cielo, però, vedi… Ecco… Io… Aspetto il ritorno… Il νόστος di una persona, di una porzione lunga di vita, di un benessere interiore, del calore di una mano dolcissima perennemente appoggiata sulle spalle. Piango così perché non so quando questo ritorno avverrà e, poiché i giorni senza di lei aumentano, temo che possa non arrivare più. Potresti per me, dolce Luna, andare a vedere se ha stretto amicizia con un’altra finestra? Ti prometto che non sarò gelosa. Se dovesse aver trovato qualcuno a cui appoggiarsi e che la rende felice, lo sarò anch’io: mi basta solo sapere che stia bene”. La luna rispose che non poteva abbandonare il cielo e che durante le ore in cui veniva sostituita dal Sole, era troppo stanca per andare a cercare la donna: chissà dov’era finita! Le consigliò dunque di aspettare con pazienza il suo ritorno.

Ma i giorni passavano. Il mostro continuava ad assalire le case e la finestra era sempre più triste e spaventata. Fu allora che la Luna decise di partire, e si eclissò. Lasciò il cielo sguarnito per diverse ore e cominció a cercare la donna in ogni dove. Finché non la trovò. Era debole, malferma e non le restava più molto tempo. La Luna pianse nuovamente, avvolse la donna coi suoi getti argentei e si congedò. Ma prima di farlo, la guardò a lungo: com’era bella! Non ne aveva mai vista una di simili fattezze. Aveva sentito dire che le persone col cuore puro, poco prima che esso smetta di battere, riversano tutta la bellezza del proprio animo nel viso, ma pensava fosse solo una leggenda. Invece no: era vero. Lei era la Luna, la regina del cielo, ma chissà quante cose ancora le erano ignote.

Con questa nuova consapevolezza si rimise in viaggio, e prima che toccasse di nuovo a lei splendere in cielo, tornò dalla finestra. “L’ho trovata!” le disse. “Stai tranquilla. È in un posto dove ci sono mille finestre piene di luce e lei si diverte nel cambiare continuamente posizione: da una si affaccia e vede il mare; da un’altra i prati pieni di fiori colorati e profumati; da un’altra ancora le montagne innevate… Dovunque si sporga, il panorama riluccica e il suo sorriso risplende. Nel suo viso si riflette il tuo e quello di tutti coloro che la amano e non sopportano che sia lontana. Mi ha chiesto di riferirti che ti pensa sempre e che non ti dimenticherà mai, ma anche che sarebbe disposta a tornare, qualora tu glielo chiedessi. Tornerebbe ad affacciarsi solo da te. A vedere a volte le nuvole, a volte la pioggia; altre volte la tempesta, le rapine, le violenze; a sentire le urla di chi litiga per futili motivi. Lì queste cose non ci sono, ma, nonostante ciò, dice che per te sarebbe disposta a rinunciare alla pace. Che dici? Vado a riprenderla?”. “Sì, dolce Luna, sì, sì, sì! Non desidero altro. Grazie. Grazie. Grazie!!! Che Dio benedica te e tutti quelli che pensano prima al bene degli altri!”. “Quindi Dio deve lasciarti fuori dalle sue benedizioni, finestra?”. “E perché mai, Lu…” Si fermó all’istante. “Ho capito, Luna cara. Ho capito. Scusa. Perdona il mio egoismo. Lascia che la mia amica veda solo le cose belle. Il mostro, le risse, le urla, non le appartengono. Lei era già di un’altra dimensione, ancor prima di lasciare questa. Vai e portale un bacio per me. È l’ultimo favore che ti chiedo”.

La luna allora, commossa, tornò dalla donna e portò con sé la finestra, qualche attimo dopo averle donato sembianze umane. La donna riconobbe subito la sua compagna di sempre, la prese nella sua mano grande, le si avvicinò e la baciò intensamente. I loro visi erano tristi perché consapevoli che non si sarebbero più riviste, ma le loro anime allegre, perché sapevano che quel bacio le avrebbe tenute insieme in eterno, e prima o poi ricongiunte.
Oggi la donna alla finestra non c’è più, ma le persone che la amano guardano ancora testardamente in quella direzione, tutte le volte. Il primo istinto è quello di piangere, ma dura un attimo. La finestra si sporge e ricorda loro dei campi fioriti, del sole luminoso e dei mostri ancora a spasso, di cui lei non sentirà mai più parlare.

È in quel momento esatto che la lacrima si tramuta in sorriso, e in quella forma permane.

Per te. Non smetterò mai di guardare verso quella finestra.

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Fiabe

La coscienza dei numeri

C’erano una volta i numeri. Molti di loro erano nati per stare da soli, ma gli altri… Gli altri quella sera sembravano attratti da una forza magnetica e naturale. Allora non persero tempo e si riunirono: erano 365. Uno tentò di scappare, ma fu fermato. “Dove credi di andare, 365?”.

“Fingi di non avermi visto: Eleonora mi sta aspettando; non è stata invitata e non riesce a capire perché. Stasera se non torno a casa e la consolo, dicendo che nessuno aveva intenzione di escluderla, finisce male – già lo so – altro che Eris e la guerra di Troia”.

“Ma… Ma… Ma stai scherzando o dici sul serio?”.

“Mai stato così serio in vita mia. E tu non capisci perché sei single, tutto qui!”.

“Mmm… Mi sa che devo spiegarti un paio di cose. Dimmi: se addizioni a noi un altro numero, il totale è sempre lo stesso?”.

“Certo che no, saremmo 366, embè?”.

“Embè, 366 non è il numero che stanno aspettando le tre sorelle stasera. Noi ci siamo riuniti per questo. Per strappare loro un sorriso accanto alle lacrime. Per farle stare meglio, o forse peggio, ma in ogni caso per tenere loro compagnia nel ricordo. 366 non ha la stessa simbologia. Ne hanno bisogno. La tua fidanzata ci sarà anche domani, e tu sarai lì per lei. Noi dobbiamo essere 365 adesso, domani non occorrerà più”.

“Ho capito, ma chi le conosce queste sorelle, chi sono? Posso mai dire ad Eleonora che l’abbandono per delle sconosciute?”.

“E’ qui che sbagli. Non sono delle sconosciute. Il loro sorriso è lo stesso che hai tu quando ti sforzi di non pensare a qualcosa che ti arreca sofferenza. Le loro mancanze sono le stesse che hai tu quando pare che l’aria che ti serve per respirare scappi via. Qualcuna camuffa meglio; qualcuna non ha paura di ammettere che il suo dolore le è passato addosso come un bulldozer; qualcuna ha smesso di fare le cose che faceva prima perché non hanno più lo stesso sapore”.

“Tanta costernazione. Ma non ho capito cosa potrei fare per loro, ammesso che volessi fare qualcosa”.

“Resta. Genera catarsi insieme a noi. Forma il 365. Aspetta che contino sulle loro dita fino a farci entrare tutti. Distruggi insieme a noi la nostalgia, e acuisci i ricordi affinchè il tempo non li scolorisca, ma li rinsaldi alla memoria con una fiamma ossidrica. Fatti toccare. Contare. Accarezzare. Respingere. Amare. Odiare. Falle ridere. Falle piangere. Ma non le abbandonare. A volte tutti insieme trasportiamo tanto di quel dolore che se non le accarezziamo, potrebbero soccombere. Non lo meritano, te lo assicuro. Sono allegre, erano allegre, devono continuare a esserlo. Il sorriso è la linfa, il sale della vita. Ti mostro una foto. Vedrai che capirai subito quello che sto dicendo”.

Il numero mostrò allora a 365 le sorelle di cui gli aveva raccontato, e questi venne improvvisamente abbagliato da una luce intensissima, come quando ci si risveglia dopo un sonno lunghissimo, portato avanti senza interruzioni.

“OOOOOOOOOOOh! E questo biancore splendente non c’è più?”.

“A tratti, mio caro. Qualcuna è più brava. Qualcuna meno. Qualcuna finge. Noi siamo 365, siamo tanti, siamo forti: dobbiamo aiutarle! Ma che stai facendo? Sei al telefono? Non hai capito niente di quello che sto provando a dirti? Sei irrimediabilmente insensibile e io che spreco il mio tempo con un anaffettivo come t…

“Ssssssshhhhhh, un po’ di silenzio, per favore! Amore… amore! Non torno a casa stas… Sì, che ti amo! Ma… stammi a sentire un attimo… tu il mondo lo desideri triste o felice? No, non è una domanda stupida, rispondi ti prego. Ecco, lo sapevo: ti piacciono più i sorrisi che le lacrime. E allora aspetta che passi questa giornata, amore mio. Il dolore di una parte del mondo si dissolverà e se alzerai gli occhi al cielo vedrai tre cuori leggeri su un tappeto volante. No, non devi provare a salirci anche tu, devi solo guardare in quella direzione e salutare le tre donne che lo cavalcano… Stanno cercando di raggiungere qualcuno che hanno perso, e solo se stasera resto qua ci riusciranno. Lo so, lo so: Ti amo anch’io.”

CLIC.

“Allora, amico? Che hai da guardarmi con quella bocca spalancata? Non avevamo una missione importante da compiere? Sbrigati, dai: è tardi, andiamo ad abbracciare le tre sorelle, c’è bisogno di più sorrisi nel mondo!”.

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Fiabe

Sirene

C’era una volta una sirena bianca che divenne rossa.
C’era una volta una sirena divenuta rossa che non si fece più scovare. Le persone allora presero a cercarla. Non era forse mai esistita? L’avevano tutti sognata?
A volte le cose troppo belle scompaiono, e noi ci sentiamo d’improvviso fuori posto, dei folli visionari. E forse lo siamo.
Noi peró le vediamo. Bianche, rosse, con l’aureola e col volto di chi ci è più caro. Sono divine, e insieme umane. Nuotano; danzano; cantano; vanno a votare con convinzione nei referendum perché quelli dei pesci un senso ce l’hanno; si cullano fra le onde e se riusciamo ad avvicinarle cullano anche noi. Solo che si spostano. Hanno una coda luccicante che mal si adatta alla stasi. Guai però a provare a riportarle nel posto dove le abbiamo incontrate : annegheremmo. Sono sfere triangolari, mine pacifiste, spigoli morbidi, presenze tanto insistenti da non poter essere inesistenti.
Hanno occhi imploranti e chiedono di essere lasciate libere. A noi è dato solo cestinare le reti. Non abbiamo alcun diritto di provare ad avvilupparle nel tentativo di tenerle per sempre con noi. Ci insegneranno a vederle anche se non ci sono, quando ne hai più bisogno, quando la grotta è troppo profonda e hai paura di entrarvi, quando l’acqua è fredda e hai i piedi già ghiacciati, o quando stai semplicemente inseguendo la corrente sbagliata.
C’era una volta una sirena bianca che divenne rossa.
C’era una volta una sirena bianca divenuta rossa che insegnò alle persone a riconoscere i colori.