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Quando muore Dylan


Quando muore Dylan, muore una parte di tutti quelli che sono stati adolescenti negli anni ‘90.
Quando muore Dylan, realizzi che per guardare la parte piena d’incanto della tua vita, devi voltarti indietro.
Quando muore Dylan, muore la tv condivisa, le corse affannate per un programma che avresti potuto vedere solo in quel momento, perché non fruibile – così poco poeticamente – on demand.
Quando muore Dylan, muore il primo bello e maledetto che hai sognato di avere accanto, il cui stereotipo sapevi essere necessariamente da evitare, ma che sarebbe stato fatalmente inevitabile.
Quando muore Dylan, muore quel personaggio che metteva d’accordo uomini e donne, quello di cui non potevi dire “Non mi piace”, se non rischiando di voler essere falsamente anti-convenzionale.
Quando muore Dylan, d’istinto stacchi il cervello dai problemi quotidiani, dalla famiglia acciaccata, dal malgoverno italiano, dalle piccole e grandi delusioni dell’amore e del lavoro. Si spalanca uno spazio nella mente e nel cuore, e glielo dedichi interamente, pensando che il remake non lo avresti tollerato – sarebbe stato grottesco – ma ora più che mai non ha motivo di esistere.
Quando muore Dylan, muore di nuovo anche Lucio Dalla, in questa prima settimana di marzo che dovrebbe essere l’annuncio della primavera, e che invece pare aver subito il peggiore dei malefici.
Quando muore Dylan,
te lo immagini da un’altra parte, ancora una volta con la sigaretta in bocca e quelle rughe sulla fronte così inspiegabilmente sexy.
E niente… quando muore Dylan, ed è pure lunedì, il passo verso una gran bella settimana di merda è brevissimo.
Ciao, Luke.
Cresciuta insieme a te,
morta oggi un pochino insieme a te.

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Il Pomodoro

“Mens sana in corpore sano”. Giovenale ci perdonerà se stiamo stravolgendo il significato della sua famosa locuzione per parlare di cibo. Un buon pomodoro non sarà certo l’equivalente di una serie di flessioni, ma noi siamo profondamente convinti che il mangiar sano contribuisca in egual modo alla salvaguardia del nostro spirito e della nostra mente. Magari con l’aggiunta di una decina di addominali al giorno 😉

E allora, come non scomodare il pomodoro per cominciare le nostre dissertazioni farcite di cucina e cultura?

Il pomodoro, o pomo d’oro – come suggerisce il suo etimo che ne richiama il colore originario – arriva da noi tardi, al pari di un innamorato da sempre atteso e verso cui inevitabilmente ci accostiamo pieni di remore. Attira la nostra curiosità, è fascinoso, ma non sappiamo con precisione come avvicinarlo, se sarà velenoso o ci farà del male. Allora lo circumnavighiamo, come i colonizzatori dell’Età moderna che, cercando nuovi territori e maggiori ricchezze, lo scoprono in America e lo portano fino in Europa. E noi?  Da secoli pieni di pregiudizi e facilmente impressionabili, assegniamo al pomodoro la stessa sorte della patata, e con le piante di entrambi decoriamo gli ambienti; qualche cavaliere le regala alle donne come atto d’amore, complice il colore, nel frattempo “divenuto” rosso, da sempre simbolo di passione. Se gli Usa fossero già esistiti nel 1600 e il pomodoro fosse stato generato là, lo avremmo adottato nel giro di un battibaleno, come abbiamo fatto in tempi moderni con Halloween e i quiz a risposta multipla, fenomeni culturali che non ci appartengono minimamente, ma – si sa – … il potere attira emulazione, la povertà no.

Quante potenzialità dunque, non colte all’inizio della sua comparsa, nel pomodoro! Che spreco! Meno male che l’uomo conserva di Ulisse la curiosità e l’ingegno e, come se lo sentisse ancora incitare i suoi compagni: “Fatti non foste per viver come bruti, ma per seguire virtute e canoscenza”, travalica i limiti e taglia il pomodoro, lo osserva, ne ricava il succo, addirittura – UDITE, UDITE-  lo assaggia! E – diamine se è buono!

Ma non vince ancora le sue diffidenze: il pomodoro non ha la meglio neanche contro le continue carestie del XVII secolo, e comincia ad apparire sporadicamente sulle tavole solo a fine ‘700. E’ un cuoco napoletano, Ippolito Cavalcanti, discendente del più famoso Guido, amico di Dante, a compiere l’ardito atto di inserire il “pomo della discordia” in un ricettario, ovvero la “Cucina teorico-pratica”. Ipotetico protagonista del popolarissimo “Master Chef”, il duca afragolese pubblica nel 1837 la notizia delle nozze della pasta con il pomodoro. Un matrimonio di quelli all’antica che non sfocerà mai in divorzio, testimonianza del fatto che la coppia funziona più che bene e resiste fieramente a qualche incidente di percorso. Da lì è tutto un filare di muri che crollano, passando attraverso il sempre napoletanissimo Puccio D’Aniello, contadino di Acerra meglio conosciuto come Pulcinella, che sorride alla vita, nonostante le mille avversità, e si consola rifugiandosi nell’agognato piatto di spaghetti al pomodoro, con cui buona parte dell’iconografia tradizionale lo rappresenta. I giochi sono fatti e il pomodoro regna sovrano. Entra addirittura nell’arte e invade la società di massa, diventando il soggetto della celebre serigrafia di Andy Warhol, nonché della orecchiabile canzone di Rita Pavone, che soddisfa orecchie e palati di piccini e non. E poco importi che il pomodoro contenga qualche allergene che risulta molesto a dei poveri sfortunati. Noi preferiamo esaltarne la tomatina, piccola molecola naturale impegnata nella lotta ai microbi, all’invecchiamento e all’atrofia muscolare. “Mens sana in corpore sana” per tornare al nostro incipit.

Parafrasando Gian Burrasca, quindi: “W il pomodoro”, le sue infinite specie, i suoi colori che prendono linfa dal sole, le sue forme più disparate, i suoi odori inconfondibili, i suoi mille nomi e i suoi impieghi multiformi.

E se – per concludere – traessimo spunto dagli amanti bevitori? Anche loro, difatti, hanno saputo trovarne un utilizzo, inserendolo nel mondo dell’alcool con il gustosissimo e raffinato Bloody Mary. Ognuno di noi potrebbe, dunque, prendere questo eclettico frutto e farlo divenire ciò che vuole, come nel migliore degli incantesimi.