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Caterina sull’altalena

Caterina ha 96 anni, gli occhi velati dall’ombra dell’età. Cammina davanti a Vera nella via che congiunge in un triangolo fortuito la sua casa, il negozio di alimentari dove si rifornisce e il luogo di lavoro della ragazza. Caterina esce per prima dal negozio; ha una busta della spesa non troppo grande che ne sbilancia però la figura e Vera la osserva: sembra la vela di una barca che un vento leggero non riesce a gonfiare. Avverte allora un istinto irrefrenabile e si stacca dalla comitiva con cui è in pausa pranzo. Si avvicina delicatamente a quella signora che potrebbe essere sua nonna e infila la mano nella busta per caricarsene il peso. Poi le sorride nel modo più rassicurante che conosce, quello che si regala ai bambini quando credono di aver visto un mostro attraversare il buio.

“Chi è lei? Non la conosco. No, non voglio essere accompagnata! Cioè, vorrei… ma IO non l’ho mai vista prima! Mio figlio dice che è pericoloso farsi accostare dagli sconosciuti!”.

Fabrizio allora interviene. Ha osservato la scena e non può fare a meno di pensare al suo papà: ha la stessa età di Caterina e la stessa fermezza nel voler continuare a vivere invece di sopravvivere: “È il segreto per non invecchiare mai completamente”, gli sente ripetere sempre. Si affianca alle due donne e aggiunge un altro sorriso a quello di Vera. È puro, come il suo, e Caterina accetta le referenze offertele dall’uomo in quella breve porzione di strada. Ha un ardente bisogno di credere alle favole, come tutti del resto; chi dice di non averlo MENTE.

Vera ottiene il carico e le due iniziano a camminare a braccetto. Fabrizio le scorterebbe sulla Luna in sella a un ippogrifo, ma il suo intervallo è finito e il dovere lo chiama. Con uno sguardo pieno di incanto, si sofferma su quel ramo della specie umana che fa ancora nutrire speranze sul futuro dell’albero globale; lui stesso vi appartiene, ma senza esserne spocchiosamente consapevole. Le saluta mentre si allontanano chiacchierando; annuisce con dolcezza perché sa che gli anziani hanno voglia di parlare ma nessuno li ascolta più volentieri. Sa che il dio del tempo divora i buoni propositi, inghiottendoli non appena le parole, nel tentativo di far capolino, si infrangono contro il muro della memoria. Quella degli anziani è seduta su un’altalena ma nessuno trova il tempo e la voglia di spingerla e quindi i ricordi spesso si fermano, come talvolta fa il vento, ingoiati dalla fretta.

Caterina stamani ha preso posto sull’altalena insieme alla sua memoria e sono entrambe immobili, ma Vera ha braccia forti e desiderose di spingere. Le si pone alle spalle e le dà il primo colpo, leggero, affinché la sua nonna adottata non si faccia male. Ascolta il racconto della donna: è appena caduta; era da sola in casa, impegnata nel disbrigo delle piccole faccende quotidiane che ancora si ostina ad assolvere. L’impatto le ha lasciato un po’ di dolori localizzati qua e là e il figlio le ha raccomandato di affidarsi al garzone per la spesa, ma lei vuole sentire il sole sulla pelle; vedere se le gambe rispondono ancora agli stimoli del cervello; dimostrare che si muore solo quando ci si sente inutili. E allora il desiderio è diventato azione: ha disubbidito ed è uscita da sola.

La sua abitazione non è lontana dal negozio di alimentari, ma gli arti malfermi hanno il potere magico di  moltiplicare le distanze e lei invece di rallentare accelera il passo, nel timore che Vera ritardi il suo ritorno a lavoro. Nel momento esatto in cui sta ricevendo una buona azione, Caterina dunque si preoccupa già di restituirla, elevandola al quadrato.

Ci sono dei sottopassi per tornare all’appartamento: il parco è troppo grande e per raggiungere l’ultimo isolato bisogna compiere larghi giri per evitare le scale. Caterina indossa diverse maglie per ripararsi dall’Antartide che spesso investe gli anziani e la ragazza ne avverte il sudore quando le pone un braccio sulla schiena per accarezzarla. Si ama anche con un gesto così, anzi si ama di più con un gesto così che con mille altri ostentati.

Il palazzo non ha ascensore e la donna abita al terzo piano. Vera impallidisce: la scala è ripida, come avrebbe fatto se non avesse incontrato lei? Un pensiero fugace la rimanda a suo padre, al pronto soccorso di qualche mese prima in solitaria: “Figlie mie, voi avete tante cose da fare, che volete che sia una piccola botta alla testa? Non mi hanno neanche messo i punti, tranquille!”.

Caterina si attacca al corrimano; ha le braccia libere adesso, ma nella risalita sopraggiunge uno strano fiatone che a Vera non piace. Allora la ragazza si siede sulle scale per fermare il passo. “Che fai lì per terra? Le scale sono sporche, alzati! Fai tardi al lavoro per colpa mia, dobbiamo salire, ce la faccio, oggi è la mia giornata fortunata, sei arrivata tu, sono stata una stupida, aveva ragione mio figlio: non avrei mai dovuto uscire da sola. Però… guarda che bello il sole!”. I suoi occhi si accendono di gioia. Vera non si alza, la guarda affascinata: è davanti a una donna minuscola, ma la sua immagine riflessa sulla parete è gigante. Con il finto pretesto di esser stanca, resta seduta e attende che il respiro della sua nuova amica torni regolare.

Arrivate in cima, Caterina apre la porta e invita Vera ad entrare, scusandosi del disordine. Vengono così entrambe investite da una luce intensa e da un odore che mescola l’aroma del mare a quello più pungente delle case degli anziani. Sono le case in cui la vita abbandona ad una ad una le stanze per rifugiarsi in un unico ambiente: esso diventa cucina, salotto e insieme camera da letto e il suo ospite fisso è la televisione ad alto volume. Gli anziani hanno case e cuori grandi, ma spesso qualcuno glieli svuota entrambi, insegnando loro l’aridità e la diffidenza.

Vera resta sulla soglia per educazione e rifiuta il bicchiere d’acqua che le viene offerto, non vuole varcare la soglia, non vuole invadere. Si commuove dinanzi a quell’uscio spalancato, il simbolo della facilità con cui si possono ingannare gli anziani: non c’è bisogno di chiavi, di codici o di combinazioni segrete, basta un atto di gentilezza, raro e dimenticato. Riflette. Quanti figli tremano al solo pensiero che i genitori escano da soli a far la spesa e possano cadere? Quanti soffrono d’insonnia perché non hanno avuto altra scelta che quella di portarli in una casa di riposo? Quanti si inventano qualcosa di nuovo ogni giorno per vederli felici ancora una volta, sperando di separarsene il più tardi di mai?

Si affaccia dal ballatoio: in cortile ci sono due altalene. Su una compaiono, come per magia, Caterina e tutti gli anziani del mondo. Si divertono, volano alti. Non c’è nessuno che li spinge, tranne il loro desiderio di salire più su, quasi in cielo. Sull’altra ci sono loro: le persone che ogni giorno li trascurano, li ingannano, li spiano per portargli via un pezzetto di passato, un pezzetto di presente, un pezzetto di futuro. Questa seconda altalena va velocissima, talmente veloce che le assi non reggono e allora ne vengono sbalzati via, lontano. La spinta è violenta e ogni volta che qualcuno di loro è in procinto di atterrare, il suolo li respinge: “Sei feccia, non ti vogliamo qui,  prova a trovare altro asilo per la tua cattiveria!”, fino a quando una scossa potentissima squarcia la crosta terrestre. Queste persone si conficcano a testa in giù nel punto più basso scavato dalla deflagrazione e vanno ad affiancare Lucifero, l’angelo divenuto demone.

“Allora che fai, non entri? Sicura di sentirti bene? Hai cambiato espressione. Sì, lo so… quel cortile non piace neanche a me e le altalene andrebbero riparate, sono anni ormai che non ci sale più nessuno!”.

“Ti spiace se domani ritorno qui con Fabrizio? È molto bravo con gli attrezzi, ci penserà lui, vedrai. Però… ne aggiusteremo solo una. L’altra serve così: malmessa, non chiedermi perché!”.

“Va bene, come vuoi, ma tu non dirai mai a mio figlio che sono scesa da sola a far la spesa, vero? Promettimelo. Saremo unite per sempre da un duplice segreto!”.

La ragazza scende le scale tracciando il segno del giuramento sulle labbra. Mentre si allontana sente il cuore esploderle di tenerezza: Caterina non le ha mai detto il nome di suo figlio.            

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Fiabe

Buonproposito

C’era una volta Lamento. Era nato piangendo come la maggior parte dei bambini, ma a differenza degli altri non aveva mai smesso. Fino ai tredici anni aveva usato le lacrime, poi dovevano avergli detto che era troppo grande o troppo maschio per quelle cose e quindi le aveva sostituite dapprima con dei mugugni e dopo con delle parole fastidiose pronunciate ad alta voce. Se qualcuno cercava di essergli amico, confidandogli dei segreti o qualcosa che lo turbava, lui ascoltava in maniera impaziente e distrattamente rispondeva: “Non sai quello che è capitato a me!” gli rubava dunque la parola e cominciava il racconto delle sue giornate presenti e passate, soffermandosi sui soli dettagli spiacevoli. Quando Lamento compariva sul luogo di lavoro nessuno era felice di vederlo perché seminava malumore e godeva nel provocarne, andando spesso a riferire bugie che si diffondevano velocemente; nascondeva nella tasca destra una boccetta contenente dell’olio misterioso: bastava una sola goccia di quel liquido affinché le menzogne scivolassero lontano e raggiungessero un numero incredibile di persone. Le bugie venivano dunque scambiate per verità e Lamento se ne giovava, così non era l’unico a borbottare sempre.

Un giorno nel suo reparto venne assunta una nuova segretaria, si chiamava Buonproposito. “Beh, e tu che ci fai qua?” – così la accolse – “Non ci serve altro personale! E poi che nome è il tuo? Un nome da maschio su un corpo da femmina, figuriamoci che cosa combinerai! E questi capelli disordinati, per giunta rossi? Nessuno ti ha mai detto che portano sfortuna?” e strizzò l’occhio a Invidia, che prontamente subentrò: “Guarda quanti ne hai, poi! Tutte le fortune agli altri: io li sto perdendo ed erano dorati come la luce del sole! Tu che ne hai a migliaia li trascuri portando in giro questo colore che ricorda un lucchetto arrugginito! Noi saremo i tuoi capi di sezione, quindi non perdiamoci in convenevoli. Lui è Lamento, io Invidia. E quelle pagine che vedi accatastate sulla scrivania in fondo alla stanza devono essere fotocopiate fronte-retro in quadrupla copia entro oggi pomeriggio alle 15!”. “Ma…” – balbettò la ragazza – “sono appena arrivata, saranno migliaia di pagine, mi serve un po’ più di tempo!”. “Salterai la pausa pranzo, si chiama gavetta, ci siamo passati tutti!”. Lamento e Invidia se ne andarono sgignazzando e Buonproposito si rimboccò le maniche; era un lavoro meccanico e lei detestava non avere il cervello in funzione, ma intravide – al di sotto delle infinite pile di pagine da fotocopiare di cui era invasa la scrivania – una bellissima tonalità di turchese. “Ottimo” – pensò – “una volta che l’avrò liberata, la luciderò e mi sembrerà di stare seduta accanto al mare anche mentre lavoro.”

Quella sera non riuscì a tornare a casa per cena e raccontò alla madre qualche bugia di troppo per non farla preoccupare. La mattina dopo Buonproposito conobbe Disperazione. Era una donna sottile sottile, tanto che si diceva passasse attraverso le porte. Qualcuno giurava di averla vista comparire all’improvviso nella propria stanza, senza averne avvertito prima i passi o la voce. Disperazione non si era mai più ripresa dalla morte del marito – Saluto – l’unico grande amore della sua vita. Anche lui lavorava in quella ditta e a Buonproposito raccontarono che arrivava sempre in anticipo, salutando tutti più di una volta nel timore di aver dimenticato qualcuno. Pare che tale abitudine gli fosse derivata dai genitori, i quali erano soliti dire: “Il saluto non si nega a nessuno, appartiene agli angeli. Chiameremo nostro figlio così!”. Però Saluto non era stato fortunato e si era ammalato molto giovane, non si sa di che cosa perché tutte le volte che Disperazione provava a raccontarlo, Lamento le rubava la scena ed esclamava: “Sai che anche io sono malato? Ho una malattia autoimmune pericolosissima che mi porta degli scompensi cardiaci importanti, ogni momento potrebbe essere l’ultimo!”. Ormai erano undici anni che raccontava la stessa storia, quest’ultimo momento doveva essere parecchio ritardatario!”.

Anche quella sera Buonproposito tornò a casa troppo tardi per la cena e la mamma le riferì che le sue amiche avevano chiamato a casa allarmate dal fatto che non rispondesse ai messaggi. La ragazza allora prese il cellulare, dimenticato in borsa da più di 24 ore, e scrisse: “Amiche mie, sto bene, non siate in pena per me. L’acqua con cui mi hanno battezzata è inquinata e stanno provando a contaminarmi, ma io resto impermeabile. Porto nelle tasche il nostro amuleto invisibile e di nascosto fischio, come abbiamo imparato a fare insieme tanti anni fa in quella gita sul Monte San Costanzo. Ci torniamo il prima possibile con Frida? Quando rincaso corre verso di me e mi salta addosso leccandomi: immagino che sia il suo modo di chiedermelo, non l’ho mai vista felice come in quel giorno. Ps: attraverso la mia scrivania vedo il fondo dell’oceano. Chi dice che solo le persone hanno il dono di trasmettere il buonumore? Sicuramente è qualcuno che non ha mai visto il mare. Vi voglio bene.”

I giorni si avvicendavano  senza scossoni quando, due settimane dopo, Buonproposito assistette a una lite furiosa in mensa: Invidia urlava all’indirizzo di Disfattismo, un uomo alle soglie della pensione che era stato rimosso dall’incarico di vicepresidente della società: “RINGIOVANIMENTO e MODERNIZZAZIONE”, aveva motivato l’amministratore delegato. Disfattismo però non aveva mai smesso di sentirsi il capo e tutti i giorni girava per i corridoi, urlando all’indirizzo degli impiegati. Non aveva importanza che avessero commesso azioni scorrette, ogni scusa era buona per palesarsi senza avvisare e seminare ramanzine dai toni stridenti. “Hanno aspettato anche troppi anni per rimuoverti dall’incarico! Non c’è nulla di costruttivo nelle tue critiche! A urlare siamo bravi tutti, avrebbero dovuto assegnarla a me la tua mansione tempo fa, ora sì che si vedrebbe qualche beneficio!”, incalzava Invidia. Disfattismo rimandava al mittente le accuse, le rispondeva che la sua lingua era tanto tagliente quanto disonesta e che pur di far carriera sarebbe stata capace di… Nessuno seppe mai di cosa si sarebbe macchiata la coscienza Invidia per ottenere una promozione perché il diverbio era stato interrotto da Lamento: “Anche io sono stato declassato, nonostante fossi super-efficiente. Adesso mi sforzo il minimo indispensabile, non ho più voglia di slanci inutili, ci sono tanti giovani qua, ci pensino loro! E poi ho nove clienti che seguo da solo, gli altri incarichi mi sono stati rifilati: posso eseguirli anche male dunque, sono giustificato. BUONPROPOSITOOOOOOOOO! Aspettiamo una telefonata alle 14, te l’ho detto già quattro volte stamattina: corri immediatamente a rispondere!

La ragazza sgusciò fuori dalla mensa senza aver finito il pranzo, come capitava ormai da parecchi giorni; aveva avuto per un attimo voglia di rispondere per le righe, ma poi aveva deviato pensiero e direzione, camminando verso la macchinetta del caffè. Lì scoprì che le cialde erano state consegnate in sua assenza ed erano chiuse in involucri color pastello, la vista di quei colori la rasserenò. Bevve un caffè gustoso nella più piacevole delle solitudini e si recò in stanza. Erano le 14.01. Il telefono trillò. “Buonasera, qui EnerSol, con chi ho il piacere di parlare?”. “Salve, sono la dottoressa Speranza, volevo confermare la fornitura dei pannelli solari di cui avevo accennato al capoufficio, c’è o posso lasciar detto a lei?”. “Piacere di conoscerla, dottoressa Speranza,  che bel cognome! Può fare come preferisce, io sono solo la segretaria, posso appuntare la notizia e riferirla.”. “Benissimo. Senza offesa, ma il suo referente sembra essere il depositario di tutti i mali del mondo. Se non aveste dei prezzi così competitivi avremmo ordinato la fornitura altrove. Ci sono possibilità che possa ascoltare una voce piacevole come la sua più spesso? Sa, noi abbiamo sedi in tutta Europa, siamo ricoperti di lavoro, ma abbiamo una sola mission: il benessere. Economico principalmente, eppure anche gli idioti sanno che per arrivare a raggiungerlo bisogna coltivare prima quello interiore. È d’accordo, signorina …?”. Buonproposito si illuminò: “Buonproposito, mi chiamo Buonproposito, e la sua affermazione arriva a portare luce in una giornata che sembrava grigia. Lei in questo modo ha appena superato le cialde colorate del caffè, ehm… mi scusi, come affermazione può sembrare ridicola, ma le assicuro che non lo è, GRAZIE!”.

Le due donne si accordarono: poiché Lamento non avrebbe interrotto la pausa pranzo per nessun motivo al mondo, la dottoressa Speranza avrebbe chiamato ogni lunedì alle 14; in questo modo a interfacciarsi sarebbero state sempre loro due. Iniziarono a sentirsi spesso e a trattenersi al telefono fino al termine della pausa pranzo. Speranza amava di Buonproposito la creatività, la capacità di far fronte alle difficoltà impreviste senza mai perdersi d’animo o tirarsi indietro. Buonproposito, dal canto suo, iniziò a fantasticare sulla voce di quella donna: calda come la zuppa che le preparava sua madre quando rientrava troppo tardi, e matura come una prugna che ha preso il sole sui quattro lati; accogliente come un rifugio quando ti sorprende un acquazzone e imperativa quando occorreva, ma mai scortese. La immaginava simile a un cigno, elegante e soffice.

Un giorno purtroppo Lamento rientrò prima del previsto, era insieme a Disfattismo e Invidia e cercavano qualche cosa da demolire. Buonproposito non si accorse del loro ingresso, intenta com’era a chiacchierare con la dottoressa Speranza; stava mangiando un toast e prestava cura a masticare senza far rumore quando non era il suo turno di parola. I tre si avventarono sulla ragazza con una serie di accuse malevole e infondate: Lamento la accusò di non essere produttiva e di non lavorare abbastanza, ma la situazione peggiorò dopo che le ebbe strappato la cornetta di mano ed ebbe identificato la voce dall’altro capo del telefono. A quel punto intervenne Invidia che la incolpò di voler fare velocemente carriera, sottraendole il cliente più importante del momento. Disfattismo ne approfittò per dimenticare ancora una volta che non aveva più mansioni direttive e aggredì anch’egli verbalmente la ragazza: le disse che quelle cose non sarebbero mai potute accadere quando aveva lui le redini dell’azienda e che era solo un’insignificante arrivista che non sarebbe giunta da nessuna parte se non per direttissima alla porta di uscita! Insieme i tre scrissero una lettera al Direttore Generale, in cui sostenevano di aver visto Buonproposito mettere le mani in cassetti destinati a documenti riservati e di trascorrere ore ed ore al PC dell’ufficio navigando in Internet per affari personali. Conclusero che si era lamentata con la dottoressa Speranza dell’assenteismo continuo dei suoi capi, inducendola, per sveltire le pratiche, a relazionarsi esclusivamente con lei.

Buonproposito fu messa alla porta in malomodo. Invidia rideva, Disperazione era sinceramente dispiaciuta ma non disse una parola, come tutte le persone che vengono trascinate in un bosco oscuro dal proprio dolore e smettono di cercarne la via d’uscita, favorendo così, senza neanche rendersene conto, l’ingresso di altri nella loro stessa perdizione. Buonproposito tornò a casa e, per la prima volta dopo tanti mesi di ingiustizie, pianse. “Cosa penserà di me la dottoressa Speranza? Non mi hanno dato il tempo di salutarla, né di darle spiegazioni. Credo che sia tua coetanea, mamma, non ci siamo mai incontrate ma sono sicura che abbia una fossetta sotto il mento come la tua, e che sappia parlare ai cani, come facesti tu con Frida quando la salvasti, ricordi? Ero partita per il Messico e lei pensava che l’avessi abbandonata, si stava lasciando morire di fame, se non fosse stato per te oggi non ci sarebbe. Mamma, anche la dottoressa Speranza penserà che sono andata via senza salutare, che sono scappata, che ho commesso una cattiva azione?”. La mamma, intenerita, la guardò scuotendo il capo ed asciugandole le lacrime. “Amore, perché ti chiami così, lo ricordi? Necessita che te lo racconti ancora una volta. Io e papà abbiamo perso due fratellini prima di te, avevano già i nomi anche se non sarebbero mai nati, si chiamavano Furore e Buonsenso. Erano gemelli e noi immaginammo che il primo sarebbe stato passionale, pieno di euforia e di istinto, ma che a causa di queste caratteristiche si sarebbe messo facilmente nei guai e che il secondo lo avrebbe compensato seguendolo con la sua ragionevolezza sempre, anche da lontano. Senza riflettere si prendono decisioni sbagliate, piccola mia, e si arriva sempre a conclusioni azzardate. Dopo tanto tempo sei comparsa tu. Come una nevicata in agosto in Basilicata, una pioggia incessante nel Sahara, la siccità a Meghalaya; sei arrivata miracolosamente, come tutte le cose che prima o poi smettiamo di rincorrere perché abbiamo il terrore di immaginarle reali, e così facendo impariamo la rassegnazione. Il contrario della rassegnazione sei tu, Buonproposito, non voglio sentire più queste sciocchezze: la dottoressa Speranza ti conosce, fa’ in modo di trovarla e raccontale la verità!”.

Nelle settimane che seguirono la dottoressa chiamò spesso alla EnerSol chiedendo di Buonproposito. Le rispondevano che la ragazza dai capelli rossi aveva avuto un’altra offerta di lavoro ed era scappata via senza neanche rassegnare le dimissioni. Una volta le dissero che aveva fatto pervenire una lettera da un legale in cui chiedeva un risarcimento danni per molestie. Nessuno le fornì mai un recapito dove poterla rintracciare. Ad aprile, quando erano già trascorsi diversi mesi dal suo licenziamento, Buonproposito andò con Resistenza e Fiducia – le sue migliori amiche – al monte San Costanzo. Frida, scodinzolante, si accomodò in auto e le tre ragazze partirono. Era una giornata primaverile e dopo aver salito il sentiero faticoso che conduce sulla sommità del monte, sistemarono a terra i propri tappetini, stando attente a non calpestare nessun fiore. Frida giocava rincorrendo qualcosa o qualcuno che appariva soltanto a lei e le tre amiche parlavano dei propri progetti, di Lamento, Invidia e Disfattismo che si palesavano, sotto diverse spoglie, nelle vite di ciascuna di loro. Cercavano di camuffarsi, cambiavano nome, ma non serve a niente cambiare il proprio nome se l’animo rimane immutato. Per cambiare identità bisogna cambiare il modo di vedere le cose.

Mentre erano intente a conversazioni di questo tipo, Frida si allontanò molto e allora Fiducia si spaventò, sapeva quale importanza avesse per l’amica quel cane scampato alle tempeste. Resistenza allora, da sempre la più coraggiosa tra loro, andò a cercarla ma non la trovò e tornò delusa e vinta. Buonproposito sussultò: “Ho in tasca il nostro amuleto invisibile, è arrivato il momento di farmi vedere se avete davvero imparato a fischiare!”. Al fischio triplo Frida comparve, era con un altro pastore tedesco più vecchio che aveva il pelo lucente e lo sguardo affilato come quello degli umani. Buonproposito corse incontro ai cani e vide alle loro spalle una sagoma. Nello specchio del lago alla sua sinistra l’acqua rimandava l’immagine di un cigno, ma davanti a lei c’era una donna! Le si appropinquò e la ragazza capì: era la dottoressa Speranza, l’aveva trovata!”.

“Hai i capelli rossi come dicono in ufficio, ma contrariamente a quanto mi hanno riferito, sono bellissimi e lucenti. Ho riflettuto a lungo sulla sorte delle persone che ti hanno cacciata, ormai l’azienda è mia, l’ho comprata. Poiché non sono riuscita a pervenire a nessuna decisione, ho pensato che l’avresti trovata tu. Queste sono le chiavi della EnerSol. Domani mattina sarai tu ad aprire. Ho convocato tutto il personale per le 12, in modo da darti il tempo di riflettere e decidere cosa fare, so che la vendetta non ti appartiene e che farai la cosa giusta. Il tuo nuovo ufficio è al primo piano, ho fatto dipingere ogni parete di un colore pastello, se ricordo bene ti facevano sentire al sicuro, ti ispireranno. Non sei obbligata a mantenere in carica nessuno né a licenziare nessuno, ma allo stesso tempo sarai giustificata qualora volessi declassare chi ti ha trattata male. Io sono anziana ormai, come puoi notare. Ne ho viste di cattiverie, ma non ho mai smesso di credere nelle persone che hanno una luce dentro e la inseguono ad ogni costo. Quella luce io potevo solo sentirla per telefono, mentre ora la vedo. Ti ho portato una cosa, ti servirà. Sarà il nostro segreto”.

La dottoressa tirò fuori dalla borsa la boccetta dell’olio misterioso di cui si serviva Lamento per diffondere il malumore, avrebbe aiutato Buonproposito a far scivolare più velocemente il suo ottimismo, la sua tenacia. La ragazza dai capelli rossi annuiva in silenzio, annuiva a tutto, facendo sì con la testa mentre incredula ascoltava quello che le pareva essere soltanto un sogno. Si pizzicò le guance più e più volte mentre la sagoma della dottoressa si allontanava: non scompariva mai, era là, sempre più in miniatura, a ricordarle che era tutto vero. Le restava solo una domanda: come aveva fatto la dottoressa Speranza a trovarla?

Ormai sola, si girò d’istinto verso il lago. Lo specchio d’acqua le rimandò l’immagine di sua madre, che le strizzò l’occhio e le disse: “Ti aspetto per cena, non fare tardi, hai da sistemare un bel po’ di cose domani.”    

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Giogiò

Questo signore che sta parlando nella casa nuova di Gesù in un pomeriggio afoso come non mai, avvolto in un abito talare viola, mi piace. Sta piangendo per me, ma io non lo conosco. Ha un nome significativo che sa di lotte importanti e immagino sia perennemente impegnato nella caccia, la caccia al male. Mi viene da sorridere perché il mio strumento preferito veniva impiegato alla nascita come segnale di richiamo nelle battute di caccia, anche se quando vi ho poggiato la bocca per la prima volta, ho pensato a ben altro che ad animali uccisi. A saperlo poi che avrei subito la stessa sorte!

Mi presento: mi chiamo Giovan Battista, ma per gli amici sono Giogiò. O meglio, lo ero. Sto guardando da quassù la mia vita e non mi vergogno a dire che mi piacerebbe ancora stare laggiù, ma magari non oggi: piangono tutti lì. Sì, lo so che dovrei essere felice, intorno a me ci sono solo nuvole e beatitudine, ma non mi basta: non ho ancora visto un solo corno e, a dire il vero, neanche un violino, un’arpa, un oboe. Sento, sebbene sia così distante, le urla di mia madre; sta facendo un gran trambusto, lo immaginavo: ci andava giù pesante quando non ci comportavamo secondo le regole di casa, figuriamoci cosa potrebbe fare a quel ragazzo che mi ha sparato – Luca mi pare si chiami – se lo avesse tra le mani. Non lo ha però, e invece tra quelle di lui c’era una pistola, non me lo aspettavo, sono stato colto di sorpresa: il maestro d’orchestra ci insegnava a non perdere mai di vista le sue mani e i suoi occhi, mica gli suonavamo alle spalle! Non so se mi sarei alzato comunque se avessi sospettato che aveva un’arma, forse avrei semplicemente insistito con Marco per lasciar perdere e correre via. Però quella ragazza andava difesa: il motorino che stava parcheggiando è pesante, non è facile da reggere per una dalla corporatura esile come la sua, succede spesso anche a me di sbilanciarmi, che non sono esattamente mingherlino. E poi a Marco la maionese non piace neanche nel panino, figuriamoci in testa! Perché usarla come uno shampoo? Non l’ho capito neanche ora, che sono seduto su un arcobaleno.

Il maestro diceva sempre che gli strumenti sono tutti importanti, nessuno di meno o di più di un altro, e che orchestra fa rima con finestra perché se impari a “guardarci attraverso” ti trovi di fronte a panorami spettacolari. Anche Luca avrebbe dovuto suonare uno strumento, magari reggendolo si sarebbe affacciato su un campo di fiori in primavera e non nel degrado della nostra sventurata città. La pistola produce solo rumore, non è melodiosa come le note. Non ho capito bene quale colpo mi abbia ammazzato, non li ho sentiti arrivare, ho avvertito solo un boato, ma io, al di sopra delle urla, stavo cercando il fa acuto, la mia nota preferita. La cerco sempre, anche quando non sono intento a suonare perché tutto quello che ci circonda si può trasformare in musica, basta non perdere mai la forza di inseguire il ritmo giusto.

Ho chiuso gli occhi e ho pensato che stessi sognando, ho visto il mio corno rilucere: c’era un segnale brillante ad indicarne la traiettoria e allora l’ho seguito. Quando ho riaperto gli occhi Marco non c’era, la ragazza del motorino neanche, e Luca men che mai. C’ero solo io. Ci sono solo io anche ora. Qui non esistono porte e una voce soave di qualcuno che non posso vedere mi ha condotto davanti ad un’apertura gigante: sono improvvisamente al cinema e vedo una piazza contornata di fiori e di scritte, qualcuna recita: “Giogiò vive”, ma allora sono morto davvero? E perché, se non ero neanche malato? Adesso quest’uomo in viola me lo svelerà: ha i tratti buoni, e delle persone buone che conducono battaglie ci si deve sempre fidare, non sono tante.

Faccio fatica a riconoscere i volti della gente, la maggior parte non l’ho mai vista e mi chiedo perché è qui. Per me? Non ero famoso… o lo ero diventato e non lo ricordo? Ah, no, ecco, lo stanno spiegando. Tutti in silenzio, per favore, vorrei ascoltare, vorrei capire! Come sono morto? Luca mi ha sparato sì, ma perché se non gli avevo fatto torto? Ehi, ma le sentite le mie domande? Perché continuate a piangere tutti e non provate a darmi una risposta? Aiut… ma sei impazzito? Mi hai spaventato ad entrare di soppiatto qui alle mie spalle! Ma, aspetta! Io ti conosco! Sei… sei… sei Luca! E che ci fai qua, come hai fatto a salire così in alto, non puoi! Se mi hai ucciso tu, io e te non possiamo vivere nello stesso Aldilà!

“Ciao, Giogiò. Sono stato ucciso anche io.”

“Ah, sì? E da chi? Da Marco, mi ha vendicato? Dalla ragazza del motorino, si è ribellata? Da mia madre, ti ha trovato alla fine?”.

“No, non è stato nessuno di loro. Mi ha ucciso Niente”.

“Non ti sembra di mancarmi di rispetto, Luca? Stai giocando come Ulisse con Polifemo? Dovrò dire che mi ha ucciso un ragazzo che poi è stato a sua volta ucciso da Niente? E poi come fai a conoscere l’Odissea? La gente laggiù sta dicendo che a scuola non andavi mai!”.

“Non c’è bisogno di aver letto dei libri per conoscere Niente. Niente è quando sorge il sole e nessuno insiste per mandarti a scuola; Niente è quando cerchi qualcosa da imparare e tuo padre ti insegna a rubare orologi; Niente è quando hai fame e in casa non c’è nessuno a cucinare; Niente è un campetto di calcio devastato da erbacce e sassi e il sangue che ti scorre quando provi a saltare un avversario che ti corre incontro ringhiando; Niente sono gli amici con cui giocare che non hai, se giocare non significa provare a centrare l’obiettivo con una pistola in una campagna fuori mano; Niente è rientrare alle due di notte a 17 anni e non ricevere alcuna telefonata per sapere dove sei, con chi sei, cosa fai, quando torni. Niente tu non lo conosci, non puoi sapere che bocca grande e spalancata sempre ha. Finisce per ingoiarti perché ti attrae: ha i denti splendenti e ben curati. Ti accorgi che è piena di carie solo una volta che sei entrato; ne avverti l’alito fetido ma ti ha già morso un orecchio e con quell’altro che ti resta non senti più granché. E allora, per paura di perderti, ti fai largo e ti avventuri al suo interno un po’ di più. Ed è lì che ti perdi veramente, ma ormai è tardi. Nessuno ha lasciato fuori un filo rosso da riavvolgere per fuggire. E ti senti forte, assai forte, e invece sei debole, il più debole di Napoli, il più debole d’Italia, il più debole d’Europa, il più debole del mondo. Sei diventato Niente nelle mani di Niente. Hai capito, mò?”.

“Sì, Luca, ho capito. Ma ora che ci è tutto chiaro, non è che possiamo tornare giù? Puoi chiederlo tu al signore di cui sentiamo solo la voce per favore? Io ne ho un po’ timore.”

“Giogiò, ma i’ n’ ‘a sent’ ‘sta voc ch vai ricenn’ tu, allo’ nun aj capit manc ‘o cazz’? È chest’ ‘a differenz tra nuje: a me m’ha accis Nient’, a te t’ha accis ‘n ‘omme ‘e nient’ ! (Giogiò, ma io la voce di cui parli non la sento, allora non hai capito proprio nulla? È questa la differenza tra noi: io sono stato ucciso dal Niente che c’è intorno a me, tu da un uomo che non vale niente, come l’ambiente senza speranza in cui vive).

I ragazzi si guardano ancora come intontiti e poi tornano ad affacciarsi dalla grande apertura sulla piazza. In una stradina laterale a poche centinaia di metri c’è una scuola dell’infanzia. Una mamma giovane, bellissima e sorridente, stringe la mano della propria piccola. Avrà al massimo tre anni, occhi enormi e bizzarri codini che ne fanno intuire la simpatia. È tutta vestita di rosa, compresi lo zainetto e le scarpe, e tiene la mano della mamma, che forse deve lasciare per la prima volta. Non piange e, anche se ha un ciucciotto con la sagoma di Bamby che le copre le labbra, se ne intravede il sorriso: spensierato, fiducioso, incantato. I ragazzi la osservano; a 200 metri il padre di Giogiò stravolto rilascia una dichiarazione: dice che la città ha ucciso suo figlio e urla con rabbia ai ragazzi lì intorno di andare via da Napoli . “Fuggite, dice. Io farò lo stesso!”. Dietro di lui compare a passo lento il signore in abito viola. Lo abbraccia come se ne volesse incamerare ogni frammento di dolore. Qualche attimo dopo si stacca dalla stretta, si rivolge agli stessi ragazzi e sommessamente dice: “Restate. E fate la rivoluzione!”.

La bimba dai codini gli sorride. Sta soffiando dentro il corno di Giogiò, anche se nessuno sa come sia arrivato tra le sue labbra.

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Grammatica emotiva

“E allora Nina, fammi sentire… come dovrebbe essere un uomo immaginario per farti perdere la testa?”.

La solita domanda: Nina aveva perso il conto di quante volte l’aveva ricevuta.

“Buongiorno anche a te, Marcy. Hai dormito male, vedo. E dicevano che in questa terra le Sirene accompagnassero il sonno! Stamani mancava una voce al coro delle idiozie? Come procede la vita privata là fuori? Non so rispondere alla tua domanda, e in ogni caso preferisco continuare a perdere le cose piuttosto che la testa, meglio che resti dove la natura l’ha collocata. Che dici: ha una tale importanza che si griderà allo scandalo?”.

“Questo sarcasmo gratuito lo hai appena inalato insieme all’aroma del caffè? Certo che ha importanza, Nina! Girano voci strane sul tuo conto: l’ultimo con cui sei uscita non vuole neanche più sentirti nominare; l’ho incontrato la settimana scorsa al supermercato e mi ha chiesto se fossi emigrata. Ha detto proprio così: è emigrata finalmente l’amica tua? Dice che non conosci la grammatica emotiva, ti rendi conto? Ora, che lo dicano di me va bene: non piango davanti alle serie Tv; non mi fermo alle edicole per strada a comprare pupazzetti allungabili per i bambini le cui mamme chiedono l’elemosina agli angoli delle città; a tratti divento una misantropa: ucciderei ogni moccioso che piange per un capriccio immotivato, persino il mio, ma tu… dai, tu, che a quasi 40 credi ancora nell’amore! Mi sembra assurdo, mi vuoi spiegare cosa cavolo gli hai fatto?”.

“Marcy, e che ti devo dire? Forse ha ragione lui: dovrei emigrare, tanto a me piacciono tutte le persone, la nazionalità non è mica importante, anzi… ricordi che da adolescente dicevo sempre che volevo vivere in un posto dove si parla spagnolo? Mai dire mai!”.

“La finisci di fare la finta tonta? E poi perché ultimamente non mi racconti più i dettagli delle tue “storienonstorie”?”.

“Lo hai appena detto tu il perché, Marcy! Non sono storie: sono rapporti con uomini che mi affascinano, ma verso i quali non nutro alcun desiderio di condividere la quotidianità; certo che provo sentimenti, ma non quelli che andate cercando voi, è così difficile da capire? Mi piacerebbe solo frequentarli: arricchirmi, arricchirli, tutto qua. Qualcuno perché ha il sorriso generoso anche nelle avversità; qualcun altro perché usa l’ironia meglio di un coltello ma senza ferire nessuno; qualcuno perché ama il calcio ma non è fanatico; qualcun altro perché accende la musica appena apre gli occhi e la ascolta a tutto volume, proprio come me. Qualcuno perché ingoia calorie cartacee e mi consiglia libri a cui forse da sola non riuscirei ad arrivare; qualcun altro perché conosce quella parte del mondo che non ho ancora visitat…”

“Ma ti ascolti, Nina? Che significa? Mi sembra di parlare con un’adolescente! Cosa vuoi fare, la collezionista di uomini che potrebbero essere e non sono? Come compagni non li vuoi, come amici sono loro a non volerti: grazie, finiscono tutti per innamorarsi! Cosa vuoi? Trovare una tua foto al centro di ogni mini-tiro al bersaglio da salotto? Non funziona quest’approccio, fattene una ragione!”.

“Marcy, hai rotto le scatole! Tutte le cose devono avere un senso? Non è che piaceva a te il tipo della grammatica emotiva? Te lo presento se vuoi, così è la volta buona che lasci Matteo, sa di putrefatto il vostro rapporto. Te ne innamorerai: cucina divinamente, suona il violino in maniera magnetica ed è rimasto uno dei pochi romantici in un mondo di cinici, te compresa. Però fa’ attenzione: ha un caratteraccio! Non lascia possibilità di ribattere se pensa di aver ragione, ti passa sopra come un caterpillar, non esiste contraddittorio. Alza la voce e usa toni da sopraffazione se gli pesti i piedi! Devo avergli fatto male, ma non indossavo neanche i tacchi quella sera, ero solo un po’ alticcia e l’ho chiamato chiedendogli un favore per una cena tra amici. Si è risentito perché capitava nella stessa serata in cui mi aveva invitata a teatro a vedere Pirandello!”.

“Mmm…E perché diamine hai rifiutato? Hai avuto paura di diventare il settimo personaggio senza autore?”.

“Avevo Guglielmo a casa, il mio amico romano; quando arriva lui si ferma il mondo per me, lo sai: siamo capaci di parlare per sei ore di seguito in piena notte, senza che nessuno dei due reclami sonno o sogni. È così, punto e basta! E poi, a dirla tutta, era già da un po’ che avvertivo addosso uno sguardo diverso: avevo sempre l’impressione di star seduta ad un tavolino in riva al mare con una candela accesa a due dita dal volto”.

“Ma è una sensazione bellissima! Non è che hai semplicemente paura di bruciarti? Tu ami cenare in riva al mare e anche le candele: a casa tua non si contano! Dimmi la verità: cos’è successo? Sei capitolata con Guglielmo? Convieni finalmente con me che l’amicizia tra uomo e donna non esiste? Ah, ma alla fine con chi sei andata a comprare il divano letto? Avevi detto che lo avremmo scelto insieme!”.

“Marcy, non vorrei essere nei panni di tuo figlio: incarni perfettamente tutti i peggiori stereotipi sulle suocere! Ma che hai? I cinquanta ti hanno devastata, spero che almeno lui espatri prima! Non ho comprato il divano letto, Guglielmo ha dormito con me; da quando sei diventata bigotta anche tu? Hai cambiato comitiva? Qual è il prossimo step? Inizierai a negare il saluto, fingendo distrazione, a conoscenze decennali in cui non ti riesci più a riflettere? Le rimuoverai con noncuranza pianificata dai social, o cosa? Sto iniziando a perdere la pazienza, ti avviso! E poi… non ho paura di bruciarmi! Non mi va una storia in questo momento, tutto qua! Ma in cosa ti sei laureata? In Architettura o in Dietrologia?”.

“In entrambe, cretina!

Nina, le tue sono solo scuse: ripeti queste frasi come un refrain da non so quanto tempo! Non c’è nessun altro step, è che sono preoccupata: sono passati undici anni ormai dalla tua ultima storia e le dicerie su di te non si contano! In ufficio credono tutti che tu stia con una donna; il migliore amico di Piero, invece, ha fatto girare voce che dopo soli tre appuntamenti ti ha archiviato come un malware perché sei poco seria: a mare con Luca, in pizzeria con Fabio, al concerto con Ivan… Lo so che Piero ti piaceva, non succedeva da un secolo; possibile che tu non ti sia chiesta cosa sarebbe successo se fossi stata più attenta e meno istintiva?”.

“Più ATTENTA! ATTENTA a cosa? A Piero non piacevo, altrimenti avrebbe trovato delle parole consone al posto di ruvidi mugugni! E se proprio lo vuoi sapere, la ristrettezza mentale delle persone che stai nominando mi fa venire la pelle d’oca! E poi che male ci sarebbe a stare con una donna, fammi capire! Sei anche intollerante, adesso? Ho ancora il messaggio che mi hai scritto per tirarmi su quando è morta Michela Murgia, stavi vaneggiando allora o adesso? Sono stufa di questa conversazione! Sembri un robot a spasso nel mio cuore per trovare un bullone allentato! Sputa il rospo e dimmi cosa c’è davvero, altrimenti me ne torno in città col primo volo, ti avviso!”.

“Voglio che la smetti di vedere Valerio, ecco qua, contenta? Ti sta fagocitando e neanche te ne accorgi! Quando è stata l’ultima volta che hai visto un tramonto insieme a lui?”.

“Ancora con questa storia di Valerio? Non avevamo tagliato entrambe i capelli proprio per evitare i nodi? Eravamo d’accordo di non toccare più l’argomento. E poi conosci benissimo la risposta: mai.”  

“Appunto. E quando hai ricevuto da lui un fiore, scommetto solo al tuo compleanno!”.

“No, mai.”  

“Quante volte ti sei trovata in difficoltà e gli hai chiesto aiuto?”.  

“Lo sai che non sono brava a chiedere aiut…”  

“QUANTE?!”.  

“Mai.”

“Quante volte sei stata in cima alla sua classifica delle cose da fare?”.

“Marcy, ma cos’è, un concorso a quiz? La prossima domanda quale sarà: Quando ti ha promesso la favola? Guarda che io non mi chiamo Vivian! Lo sai che vive all’estero, non è facile neanche per lu…”  

“QUANTE, maledizione?”

“Mai”.  

“Ok, Nina. Non aggiungerò altro. Non smetterò mai di essere il grillo parlante appoggiato sulla tua spalla. Sarò sempre verde, invisibile agli altri e porterò gli occhiali. Se mi continuerai a soprannominare Catone il Censore metterò ancora bocca e naso su certi tuoi comportamenti, e se mi darai della Nerd tutta libri e frustrazioni, mi approprierò di questo acronimo e lo trasformerò a mio modo: “Nina è Raggio Divino”! Tu per me sei questo, ed è un sacrilegio gettare via una tale ricchezza con la tua nonchalance. Il tempo non torna, Nina! Sei un’incoerente, che ti piaccia sentirlo o no. Torna pure a Bari senza di me. Ti raggiungerò e faremo pace ancora una volta. La mia vita non ha senso senza di te. Quando scivolo nel piattume più nero, tu trovi sempre il modo di raggiungermi, come il vento che entra a sorpresa dalla finestra in una serata estiva particolarmente calda. Arrivi nel momento esatto in cui sto per rassegnarmi all’asfissia; leggi nelle nuvole gli interni di casa mia, come la Sibilla faceva con le foglie, e le cavalchi coraggiosa. Ricordi quando urlasti a Matteo che se non mi invitava a cena fuori, avresti contattato la mia fiamma del liceo per chiedergli se mi ci portava lui? Non l’ho mai visto così spaventato: il giorno dopo ero seduta in riva al mare, con i piedi nella sabbia e un bicchiere di Gewürztraminer gelato tra le mani. Non facevamo l’amore da sette mesi prima che intervenissi tu. Hai il potere di cambiare la vita delle persone, Nina! Tranne la tua. Di Valerio stai raccogliendo le briciole, ma tu non sei un insetto! Sono stanca di vederti sola; sì, lo so che ami questa parola; che tu non ti senti mai sola; che ci sono milioni di persone che ti vogliono bene e che a te piace la tua vita esattamente così com’è; sono certa che a breve comincerai anche a viaggiare senza compagnia: la verità è che basti a te stessa, non c’è niente da fare, hanno tutti ragione. Però fai almeno un tentativo, fallo per me: prova a concederti un’opportunità. Smettila di dire che adori quelli che suonano il pianoforte e poi di rifiutare i loro inviti perché ne hai conosciuto uno dalle dita tozze; di disdegnare i tifosi accaniti perché urlano, se fai tremare le pareti del vicino cantando sotto la doccia; di trovare dei difetti nel portamento di quelli che potrebbero sfilare su una passerella; di riempirti la bocca di risentimento verso chi critica le differenze di età, e poi disprezzare i corteggiamenti di quelli che hanno appena cinque anni meno di te, neanche fossero dei toyboys! Ti ricordo che Francesco era il più bello della spiaggia, e tu volevi rifiutarlo perché aveva un incisivo fuori posto! Se non ci fossimo state io e Chiara, forse non avresti avuto una relazione neanche con lui.  

“Marcy, dammi una ragione valida per fare la cosa che mi chiedi. Deve essere valida, però. Nessuna stronzata. Finora ne ho sentite pure troppe!”.  

“Ti accontento subito: non scrivi più da quando c’è lui nella tua vita, anche questa è una stronzata? Tu fai finta che non sia così, ma aspetti un cenno per correre in Belgio alla prima occasione. Viaggi di meno, molto di meno, a meno che non sia per andare lì, e detesti pure il francese: il colmo dei colmi! Vuoi forse dirmi che non c’è alcuna correlazione tra questa nostra fuga dalla città con il suo congresso a New York? Mi sembra strano, anzi, che tu non sia volata lì, forse è solo perché lunedì torni a lavoro e non avresti avuto il tempo materiale di andare e tornare! Perché non lo ammetti almeno a te stessa?”.  

“Marcy, sono dove devo stare, dove voglio stare, almeno così credevo fino a poco fa, visto che da mezz’ora a questa parte mi stai facendo ricredere! Non scrivo perché ho perso l’ispirazione, lo sai, che c’entra Valerio?”.

“C’entra perché sei troppo impegnata a creare origami con i suoi ritagli di tempo, come fai a non accorgertene? Sembri una scimmietta ammaestrata che salta da un albero all’altro aspettando di rubare una banana ai turisti. Perché è questo, Valerio, Nina: un turista a spasso nella tua vita!”.  

“Ti è uscita malissimo questa, Marcy, ritirala per favore, altrimenti litighiamo di brutto oggi!”.  

“No che non la ritiro. Ok il sesso, va bene: a tutti piace, ma i progetti, i sogni, la cura che riservi a quelli che entrano per qualche motivo nelle tue giornate e che sognavi da ragazzina anche per te, che fine hanno fatto, eh? Sei mai riuscita a stare con lui per più di 48 ore? Risparmiati la fatica di rispondere, lo faccio io per te: MAI! Prima o poi quelle formule che brevetta salveranno il mondo? Perché così almeno potremmo dire che è una costola dell’umanità, e non solo del suo capo. Ne tira le fila come se fosse una marionetta! E non hai neanche l’onestà intellettuale di dirti che ne sei innamorata o che molto più semplicemente è una terra di comodo. Niente messe in discussione, niente sacrifici, niente compromessi: 48 h di fuoco e punto. Poi buchi una ruota e chiami me, ti tamponano col motorino e chiami me, perdi le chiavi di casa e chiami me! Ti sembra una cosa normale?”.  

“Ah, ok, è questo. Pensavo fossimo sorelle, ma evidentemente mi sbagliavo. Non ricapiterà, faccio da me la prossima volta!”.  

“Eccola, signori e signore! Accorrete tutti! Vi presento Nina la risentita: quella che mette la testa nella bocca del leone e quando viene morsa incolpa gli altri di averle detto che era un agnello; quella che trasforma ogni critica in un’offesa personale; quella che o sei d’accordo con lei o sei in odore di rimozione e fa presto a chiamare il carro attrezzi! Cresci, Nina. Le persone che ti amano avranno pur il diritto di affacciarsi nella tua vita e affermare che il panorama fa schifo!”.  

“Stai esagerando, Marcy!”.  

“Vivi, Nina. Smettila di lanciarti col bungee jumping da vette altissime e poi rifugiarti in una palude appena scesa a terra. L’acquitrino non è il tuo habitat, torna a scrivere, torna a vivere! Ti do tempo fino al 30 Settembre, siamo appena al 1: un mese può bastare. Lo chiami tu Valerio o ci penso io? Bruxelles è a poco più di due ore da Bari, vado e torno in giorn… Ma dove vai? Sai che detesto quando parlo e ti volti di spalle. Ti degni di darmi una risposta? Mi stai ascoltando, almen…? Giuro che in questo modo riesci a farmi perdere le staffe soltanto tu, nemmeno Matteo! Vuoi alzare questo sguardo, grafomane in crisi di ispirazione che non sei altro?”.  

Marcella rientra dal terrazzo dov’era a discutere con l’amica e la raggiunge nella stanza dell’appartamento fittato a Minorca. Il rumore del mare è potente e Nina ha uno sguardo assorto; una penna scivola su un foglio in maniera melodiosa e simmetrica, come le dita affusolate di un pianista sui tasti bianchi e neri. I capelli fluenti la infastidiscono e li raccoglie con un fermaglio, mentre la testa dell’amica fa capolino da dietro per spiare cosa stia scrivendo.  

“Grammatica emotiva”, viaggio nelle sensazioni degli esseri umani e non. Di Nina Mauro.  

Marcella fa in tempo a leggere solo questo tra un dondolio di testa ed un altro.  

“Contenta, Marcy? Ricomincio a scrivere!”.

Nina pronuncia queste parole con uno sguardo indemoniato.

Le lacrime le rigano il volto, ma ha comunque la prontezza di coprire con la mano sinistra il foglio; si alza poi repentinamente, senza che l’amica possa decifrare le parole.  

Sotto il titolo, in una grafia più scomposta e disordinata, spunta imperiosa una dedica:

A Valerio, alla nostra storia che credevo magica e immortale. Una leggenda ritiene che le anime gemelle abbiano sette vite di possibilità per incontrarsi ed amarsi. Pare che a noi ne siano rimaste soltanto sei.

Addio.              

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Ricomincio dal -30%

“Cos’è successo? Perché siete tutti accalcati-accaldati al di qua e al di là del cancello?”.

Queste le uniche parole “geniali” che trovo, quando arrivo al luogo dell’appuntamento inzuppata di sudore e come sempre in anticipo, a causa di un’atavica avversione verso il ritardo.

“La serratura elettronica non funziona, è andata via la corrente.”

Una ragazza mi risponde così, in maniera gentile, tra la folla.

“E usare le chiavi è fuori moda? Scappa invece a me in maniera decisamente troppo ironica. “Magari! Mi fa eco lei; sono anni ormai che usiamo solo quella, nessuno sa più dove siano le chiavi!”.

Sento apparirmi in viso uno sguardo perplesso; penso che farò tardi, che ho dovuto aspettare una settimana per ottenere una visita al mio orecchio malmenato dai bagordi di Ibiza, e quindi esclamo d’istinto, noncurante del disagio generale: “Ma io dovrei andare dall’otorino!” La ragazza sorride, senza indispettirsi, forse anche lei detesta arrivare in ritardo. Mi guarda attentamente e strizza l’occhio, voltandosi verso l’interno del palazzo: “È lui l’otorino!”.

Sobbalzo. Rinchiuso al di là da me, c’è il medico deputato a scavare nella grotta dei Ciclopi in cerca di chissà quale inganno. Mi rassereno perciò immediatamente; niente ritardo: medico e paziente sembrano uniti dalla stessa sorte grottesca. Il professore mi è stato consigliato dalla mia migliore amica, Bianca: cuore puro, mani preziose, risata ardente, natura polimorfa: mezza donna e mezza motorino sin dalla tenera età, e pertanto avvezza alle otiti come ai raffreddori. Il professore ha un cognome di quelli altisonanti che mettono soggezione, soprattutto se al: “Chiamalo subito, Santolin è un guru dell’orecchio!”, Bianca aggiunge: “Ti avviso però, non ride mai, deve avere origini tedesche!”.

Resto perplessa e m’interrogo sulle motivazioni oscure per le quali, secondo noi meridionali, i tedeschi non conoscono leggerezza. Cosa ne è stato nel nostro immaginario dell’OktoberFest, che già di per sé assicurerebbe il diritto ad esser felici a vita? Rivedo il dito del medico puntato contro Troisi e lui, spalle al muro, cedere rassegnato all’etichetta di emigrante. Risento quell’accento imperativo che mi ha sempre provocato grande ilarità e che oggi potrebbe invece catapultarmi in un film di Dario Argento, ma poi mi rilasso: Bianca mi conosce come le sue tasche, non mi avrebbe mai mandato da uno che parla in quel modo.

L’otorino non sente ovviamente il mio monologo interiore e neanche la conversazione con la ragazza; questo dovrebbe impensierirmi, ma sono distratta dal modo elegante in cui persevera nella sua occupazione. Ha in mano un mazzo di chiavi che ha tutta l’aria di essere uscito dall’uso quotidiano da un bel po’: impensabile custodire in tasca o in borsa un ammasso di ferraglia così voluminoso. Le prova tutte per aprire dall’interno e da subito mi accorgo che è la persona più distinta e anche più pacata della momentanea congrega. Volo via per un attimo e penso alla saggezza degli anziani, che conservano, conservano, conservano. “Può sempre servire!” mi sembra che abbia appena detto il professore, ma la voce che ho nella testa è quella di papà. I giovani hanno facilmente imparato a buttare, buttare, buttare. Loro invece, gli anziani, conservano, sistemano, riparano, creando bellezza con le schegge, diventando artisti del Kintsugi, perché dalla rottura di un vaso può nascere una migliore e più brillante armonia, esattamente come nella vita. Non è un caso che, tra queste trenta persone, l’unica a possedere le chiavi – FORSE – di quella che ormai ha le fattezze di una prigione, sia proprio questo alto e sobrio signore, che prova senza mai perdere la calma a liberare gli ostaggi, tra l’impazienza della gente che cresce e che comunque – noto – non muove un muscolo per cercare a casa propria quelle chiavi di cui sicuramente deve essere in possesso.

Quando a un certo punto vedo Santolin infilare la mano nella cancellata, indomito, e provare ad aprire la serratura dall’esterno con il braccio scomposto, balzo in avanti e quasi gliele sfilo: “Permette, posso? Provo io che sono dalla parte giusta!”.

Il medico mi guarda e tituba, ma solo per un secondo; sta già sorridendo mentre mi cede il testimone, e io mi scopro a riflettere: “Bianca mia, secondo me non è tedesco!”.

Al passaggio di consegne, un uomo della cricca esclama: “Benissimo, la signora ha le mani fatate!” e a me viene un po’ da maledire e un po’ da lusingarmi; da maledire per il “signora”, perché continuo a sentirmi ostinatamente ragazza, anche se ragazza non lo sono più da un bel pezzo, e da ridere perché so che se avessi avuto gli occhi storti e i denti mancanti, le mie mani avrebbero prodotto – nell’immaginario del tipo di cui sopra – pozioni da pentolone di strega, altro che dita affusolate da bella addormentata!

Nel provare la prima chiave, sento un brivido di emozione: c’è l’ipotesi che sia quella giusta, sarebbe la rivoluzione; la gente scalpita, cerca l’eroe, il Masaniello di turno! Ma niente da fare: la prima non è, la seconda nemmeno, la terza non entra, la quarta non gira, la quinta… Sono in un attimo passata dal tripudio del podio alla mira degli archibugi, quando la sesta scatta: LIBERI TUTTI! Le persone scompaiono alla velocità della luce e la mia fantasia le trasforma velocemente nei polli di un allevamento intensivo liberati dagli operatori di Animal Equality.

Il signore che mi ha chiamato “mani di fata” mi abbraccia, esclamando: “Ha visto? Lo avevo detto che faceva la magia!” e tutti se ne vanno complimentandosi, mentre io resto a chiedermi, non senza un fremito di malcelata soddisfazione, cos’avrò mai fatto per salire sul palcoscenico di questo grande teatro all’aperto che è la mia città.

L’unico a non dileguarsi è lui, Santolin, che rimane  immobile come un vigile nel più intricato degli ingorghi, a indicare la direzione ai fuggitivi. Quando ormai siamo rimasti solo noi due lo ringrazio, varco il portone e dico: “Professore, io vengo da lei!”, e allora esplode in una risata pienissima ma non sonora – ha troppa classe – e i luoghi comuni gli regalano all’istante i natali in Sudamerica: “Bianca mia, lo vedi che non può essere tedesco?”.

Nella sala d’aspetto per il momento ci sono solo io, e ho paura di doverci restare a lungo, visto che Santolin mi ricorda che non funzionano le apparecchiature per lo stesso motivo della nostra appena scampata prigionia.

Io mi siedo buona buona ad aspettare; ho con me Michele Serra in forma rettangolare e Bianca già al telefono a tenermi compagnia, non posso esser preda della noia!

Dopo due minuti mi raggiunge e dice: “Iniziamo a vedere l’orecchio!”. Dentro di me esulto: ha parlato, ha una bella voce calda, chiara e roca allo stesso tempo.

“I suoi dolori” – prosegue – “dipendono probabilmente dalla mascella, ora vediamo” e io sospiro; ho vergogna di dirgli che sono appena tornata da Ibiza e che ho dimenticato per circa una settimana l’esistenza dei  termini: riposo, phon, opportuna distanza dalle casse audio nei locali sulla spiaggia. Gli confido, dunque, un viaggio generico alle Baleari; temo, non so perché, il giudizio di questo signore, da cui mi sento sbugiardata sin dal primo istante e che ride ancora, stavolta allargando anche gli occhi.

È la mia prima visita da un otorino, e dunque sono impreparata a questi multiformi oggetti che usa con la stessa disinvoltura con cui perdo le mie cose ogni giorno. Resto ferma su una sedia comodissima: ha un poggiapiedi che ovviamente non centro al primo colpo e su cui mi deve posizionare lui, occhi al cielo.

La corrente è tornata ed entro in una sala strana: mi sembra di essere nella cabina di comando di un aereo. Sono tentata dal premere tutti i comandi, come quando da ragazza ero in metro e bloccai la scala mobile solo per vedere a cosa servisse il pulsante rosso, mentre a Monia ne usciva uno uguale in viso per la vergogna. Memore dell’imbarazzo che ne conseguì, preferisco non toccare nulla e metto il filtro alle mie azioni. Aspetto le indicazioni e alzo la mano quando avverto i suoni riecheggiare in queste cuffie strane che trovano impaccio nella mia coda massiccia.

Non c’è un filo di aria dentro questo microcosmo e non vedo l’ora di uscire, ho sentito quasi tutto… certo, qualche suono pareva venisse dal Paleozoico, ma sarà una cosa da niente.

Mentre mi fiondo fuori dall’abitacolo al primo segno utile del tecnico, sento raggiungermi una strana domanda: “Com’è possibile che lei ci senta meglio del 2019?”. Allora mi oppongo, è la “mia prima volta!”. Lui insiste e ripete nome e cognome: sono proprio io, e  mentre sto per arrendermi al fatto che la mia memoria si stia velocemente avviando sul viale del tramonto, arriva la domanda giusta: “Data di nascita?”. Sono salva e la mia memoria con me, almeno per ora.

Ritorno nello studio; approfitto di qualunque movimento del professore che non richieda la mia diretta attenzione per guardarmi intorno: ho visto tanti libri solo nello studio del nonno di Mario; provo ancora tristezza per non averli potuti accettare quando propose di regalarmeli, ma lo spazio è una divinità davanti alla quale siamo tutti costretti a sacrificare qualcosa.

In questa stanza si respira cultura: leggo una targa di riconoscimento da parte dell’Associazione OTOSUB e improvvisamente vedo Santolin con pinne, maschera e bombole: adora il mare, ho deciso: “No, Bianca, da’ retta a me, proprio non può essere tedesco!”

Con la stessa espressione che ha tenuto per tutto il tempo, mi comunica che ho avuto un’otite importante, esterna e media, e che a sinistra sento il 30% in meno. Non è una buona notizia: che ne sarà del mio orecchio bionico, disperazione gioiosa dei miei alunni? Tuttavia, l’informazione scivola dolcemente tra le rughe moderate di quest’uomo gentile: un viso tale non può essere portatore di catastrofi.

Si siede quindi alla scrivania per appuntare una serie di medicinali che si aggiungeranno ai pregressi con non poco fastidio, e io continuo a guardare tra i libri; noto degli strani macchinari opportunamente conservati, che sembrano  appartenere ad un’altra epoca.

Conservare, conservare, conservare. Ecco di nuovo la voce del mio papà.

Decido a quel punto che dev’esserci, lì intorno, qualche prova della sua nazionalità: una foto dell’esultanza di Tardelli  o della gioia piena ma compíta di Pertini; l’immagine di Bearzot che abbraccia Pablito, qualche frame delle partite con le regine sudamericane sottomesse. Non ce ne sono. Indizi inutili a pensarci bene, ormai ho deciso!

Sebbene fare domande intelligenti fosse il diktat del giorno precedente, sono pur sempre geneticamente pletorica e tradisco me stessa esclamando: “Prof, sbaglio ad usare i cotton fioc? Quando ero piccola, mamma mi puliva le orecchie con un panno di lino, ma io non lo faccio più: le avrò forse molestate?”. Lui solleva gli occhiali, mi guarda e con calma mi risponde: “Le orecchie non vanno pulite, sono autonom…”, ma io non gli do la possibilità di finire la frase, come se mi avesse appena colpito un anatema, ed esplodo in un: “Sono sporche!”. Stavolta si arrende: la sua risata diventa grassa mentre mi spiega scientificamente perché la mia affermazione è un’eresia, e io incasso, ricordandomi di non essere un otorino e meno che mai un medico di qualsivoglia specie.

Il suo dito non intima, anzi: rimane fermo al suo posto, oserei dire nascosto.

Mi congedo: ho appena deciso che quest’uomo sarà il protagonista di un racconto, ha troppa personalità non esibita, non posso lasciarlo andare via dalla mia memoria così, devo trattenerne il ricordo su carta.

Dopo aver pagato la visita, mi ricordo di non aver posto la domanda più importante e con l’avallo della segretaria, rientro. Lui è chino e concentrato sulle carte, come immagino stesse Galilei dopo aver abiurato, in cerca del modo migliore per gabbare la chiesa, bigotta ed autoreferenziale; gli chiedo: “Prof, posso andare a mare?”. Lui, senza scomporsi, alza lo sguardo e gli occhiali: vuole forse capire se ha appena visitato un’idiota? Non lo so, ma alza nuovamente gli occhi al cielo, risponde educatamente alla domanda e ride, stavolta scuotendo la testa con una dose ben visibile di tenerezza.

Richiudo la porta e me ne vado con una convinzione:  non so se sentirò mai più come il giorno precedente al 4 luglio, ma…

“No, Bianca mia, non scherzare proprio, quest’uomo non è tedesco!”.

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“Lei è la mamma?”

“Lei è la mamma?”

La domanda mi arriva così, a bruciapelo, e io inizio a balbettare; me la rivolge un membro esterno agli esami di maturità di Riccardo. Ad occhio e croce ha la mia stessa età, ma uno stile completamente diverso dal mio; indossa abiti dai colori opachi che non rendono giustizia al suo sguardo vivido, il primo che incontro appena entro. Avverto subito sintonia.

Sono arrivata tardi; ero fuori città per una promessa importante da mantenere e tanto desiderio di non piantare delusioni al posto dei fiori. Coincidenze fortuite, che io avverto invece come influssi discesi dall’alto, mi hanno accompagnata e ho raggiunto il quartiere più caotico di una città già di per sé caotica, in un battibaleno. “Rinuncia, non troverai mai parcheggio lì a quell’ora!”. “Embè? Esistono i garage!”. Rispondo così al conoscente di turno con cui mi ostino a portare avanti conversazioni intrise di ottimismo in maniera unilaterale, e mi dirigo nei pressi dell’istituto.

In quell’istante due anziani signori entrano in auto e liberano un posto; alla guida c’è un uomo e non è lesto nella manovra, ma io non voglio tramettergli fretta; mi fermo ad osservare la coppia: assomigliano ai miei genitori e immagino che siano proprio loro, di ritorno dalla solita passeggiata mattutina per le commissioni innaffiate di caffè. Sento che non sono capitati qui per caso: il clima è desertico e loro non possono tollerare che io compia molteplici giri dell’isolato; sanno che l’aria condizionata in auto non funziona e che non ho avuto il tempo di ricaricare il gas. Cerco di agevolare la manovra, retrocedendo in maniera silenziosa, e mi riavvicino solo quando sono andati via.

La scalinata d’ingresso è a poche centinaia di metri e ogni volta che la valico penso che mi piacerebbe lavorare qui: è un liceo che parla di tradizioni sedimentate e al contempo di una pioggia incessante di critiche, ma io vorrei entrarci lo stesso, munita magari di un ombrello impermeabile all’aridità e alle maldicenze. Mentre percorro i larghissimi corridoi, vedo ragazzini che rosicchiano unghie; alcuni grondano sudore, mentre altri custodiscono tra le mani una sigaretta, desiderosi di accenderla. Qualcuno in particolare attira la mia attenzione, ha un lampo negli occhi che pare dica: “Ora tocca a me!”.

Nel mio messaggio benaugurante della sera precedente, ho dimenticato di chiedere a Riccardo la sua sezione: non la ricordo, ho un vuoto di memoria. Vado dai collaboratori che siedono al grande desk, dinanzi all’ingresso. Pronuncio la parola esami e la domanda mi raggiunge, immediata: “Di che sezione?”.

Ecco, mi sento “la madre” degenere, quella che arriva trafelata e in ritardo, quella che ha la memoria strapiena e non si sbriga a liberarne qualche porzione per lasciare spazio alle informazioni davvero necessarie. Il mio imbarazzo è lì, trasparente, e allora agisco nel modo a me più congeniale: ammetto la mia pecca, la confusione, chiedo aiuto. I collaboratori mi sorridono, apprezzano la dichiarazione di umiltà: “Solo questo so: di non sapere niente”, se non un nome ed un cognome. Allora riportano il telefono alla sua funzione originaria: cercano informazioni e le trovano in tempi record.

L’aula è sull’altro versante; corro, sono sicuramente in tempo, c’è qualcuno lassù che non mi permetterà di perdere questo momento! Attraverso le aule con lo sguardo; ne ho appena scavalcata una, ma il mio piede destro si ferma e mi blocco: ho intravisto in un angolo “L’urlo” di Munch; chi lo ha rubato stavolta deve averlo anche modificato: la bocca del protagonista si apre allo stesso modo, ma gli occhi… gli occhi sorridono, e con i suoi i miei. Non so se Riccardo vuole che entri: i ragazzi a 18 anni portano nell’animo mille tempeste e io le ho vissute tutte senza dimenticarne nessuna, non posso accedere senza ricevere il permesso. Scoprirò solo dopo di aver superato correndo, senza scorgerlo, suo padre, al quale è stato severamente proibito di assistere.

Il consenso che mi viene accordato mi riempie di gioia: so bene che si chiama COMPLICITÀ.

Riccardo è seduto dietro la candidata che sta conferendo e ha le mani lisce e affusolate, come immagino siano state quelle di sua madre; sono arricchite con anelli d’argento, a cui cambia continuamente posizione. È nervoso e mi commuovo al ricordo del bambino paffutello che mi faceva ridere nelle mattinate uggiose in cui neanche il caffè riusciva a riportare un raggio di sole. Chiedo scusa alla studentessa per averla distratta momentaneamente e mi vado a posizionare dietro di lui: lo bacio e gli sussurro: “Ti copro le spalle”. Sarà bravissimo, ma questo lo tengo per me perché so che detesta le frasi melense e in certi casi uno sguardo d’intesa vale più di centomila parole.

“Lei è la mamma?”. Il membro esterno si rivolge a me e io balbetto. “No, sono… sono… sono… una sua insegnante delle scuole medie.”

La donna mi sorride e torna al suo lavoro; Sara, che sta conferendo, riceve diverse domande, e allora capisco: insegna letteratura italiana anche lei, ama quello che amo io, forse perciò ci siamo piaciute subito. La studentessa è preparata, ma a diversi quesiti non trova risposte brillanti e il tempo scorre. All’uscita dirà ai compagni che è stata messa in difficoltà e che la professoressa ce l’aveva con lei? Spero di no; spero che non si accomuni alla massa, spero che dirà di aver ricevuto domande intelligenti e pertinenti e che la vita è così: ci lascia spesso e volentieri senza le giuste risposte; nella loro assenza si cresce, è questo il vero esame di maturità.

Ci accomodiamo mentre la commissione decide il voto della ragazza, e in corridoio posso finalmente abbracciare Riccardo: ormai in altezza mi sovrasta, e io sono emozionata più di lui. Dopo pochi attimi arriva il suo turno. Gli anelli smettono di passare da un dito all’altro e io penso che “il mio ragazzo” è diventato un domatore di ansia. Me lo immagino alle prese con una frusta e una gabbia, da cui fuoriescono migliaia di pensieri in forma di bestie feroci.

A settembre con i miei allievi più piccoli ho stilato una lista di parole vietate: “IO” per rifuggire l’egocentrismo dilatante; “SCHIFO” perché nessuna cosa al mondo merita un vocabolo così volgare e meschino; “TIPO” per contrastare la povertà verbale ormai sovrana, e “ANSIA”, una parola oggi abusata a cui addebitiamo ogni male oscuro.

Riccardo usa quest’ultima parola come stimolo, non come deterrente, e si muove con grande disinvoltura. Io mi commuovo non appena inizia a parlare e una lacrima scende, silenziosa; lui non la vede, è concentrato, ma lei sì, e ho l’impressione voglia chiedermi ancora: “Sicura che lei non è la mamma?”. Mentre procede spedito e io sobbalzo a qualche accento sbagliato, penso che sono fiera di lui: sta volteggiando insieme al suo percorso multidisciplinare organizzato all’impronta con una verve fuori dal comune, e riesce a strappare più volte risate genuine alla commissione intera. Lei non fa domande: è nell’angolo, e io le voglio da subito bene, non perché dubiti della preparazione di Riccardo, ma perché ho questo istinto di protezione verso di lui che non mi molla. Il silenzio della donna lo immagino provenire da una cavità profonda e spesso inesplorata, al cui ingresso c’è scritto EMPATIA.

Sono passati quaranta minuti e Riccardo si gira: l’emozione si è appena trasformata in siccità per le sue corde vocali e chiede acqua. Dietro ci sono i suoi amici, ma io sono la prima a scattare; mi lancio per i corridoi alla ricerca di un distributore automatico e quasi perdo il sandalo, eppure riesco a tornare in maniera così veloce che, una volta a casa, darò una sbirciatina al Guinness dei Primati. Non beve subito. Gli scappa un sorriso largo condito da un: ”Grazie, prof” e io vengo sommersa dall’emozione; penso che non esiste nessun altro posto al mondo dove potrei, dovrei e vorrei essere in questo momento. Qui, ad ammirare lo sguardo di questo ragazzo gentile, che sta per svenire disidratato, ma per bere attende comunque che arrivi una pausa, in modo da non interrompere il discorso.

L’esame è appena finito e ci dirigiamo verso l’uscita. Riccardo è in piedi, dinanzi allo scalone storico. Io e i suoi amici scattiamo delle immagini a futura memoria e d’un tratto mi raggiunge. Con la cura, la precisione e l’amore di un miniatore, rulla una sigaretta. Credo sia per lui, e invece me la porge. Non può sapere che sono una fumatrice anomala e aspiro nicotina solo nelle sere in cui sorseggio del vino con gli amici, ma non ha nessuna importanza, anzi, mi sembra quasi di desiderarla. Il suo gesto premuroso mi riporta a qualche mese fa, in una serata d’inverno in cui mi è venuto a trovare e abbiamo bevuto uno Spritz, chiacchierando di tutto con una confidenza che spesso non raggiungo neanche con i miei coetanei.

Ci avviamo verso l’auto; ho una riunione di chiusura attività tra due ore e un desiderio matto di una doccia, eppure starei fino a sera a sentirlo raccontare dei suoi progetti e dei suoi sogni.

Trovo il tempo di pranzare con papà, che si intenerisce ascoltando il racconto della mia mattinata. Pensavo di aver ereditato la lacrima facile da mamma, ma capisco solo ora che la sua elevazione al quadrato proviene da una duplice genesi.

Arrivo per miracolo puntuale al lavoro e sulle scale scopro che c’è un momento dedicato alle relazioni. La prima a dover conferire sono io e davanti a me si apre il nulla eterno. Ancora una volta nella mia vita UMANI battono CARTE 20 a 0. Faccio appello a tutte le risorse residue e Riccardo mi viene in sostegno. Ho appena pescato un’immagine stimolo; ho svolto io il lavoro su cui relazionare, ho memoria, ho estro: improvviserò. Parlo per due minuti pensando a lui. Alla felicità che mi ha sempre detto di trasmettergli; a quella che mi donano loro, i miei alunni, ogni giorno. Avere figli non vuol dire solo partorirli, ci sono mille modi di essere madre.

Dal microfono invoco la parola felicità: batto sul suo diritto a risiedere nei documenti scolastici, esattamente come per la prima volta nel 1776 entrò in un documento politico.

Applaudono tutti e mi accorgo all’improvviso che ho appena sostenuto gli esami di maturità per la terza volta.

Nel 1994, stamattina e ora.

Una domanda da lontano riecheggia: “Lei è la mamma?”.

E io rispondo a gran voce: “Sì!”.

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Fiabe

Sproporzioni ben motivate

C’era una volta un punto interrogativo. Aveva la testa enorme e il corpo piccolo, ed erano in molti a deriderlo per la sua forma bizzarra.

“È nato invalido!”, diceva qualcuno che aveva la fortuna di essere ben proporzionato.

“È la giusta punizione per chi parla sempre!”, bisbigliò il silenzioso di turno.

“Pensa troppo!”, disse qualcun altro che aveva avuto la fortuna di nascere beota.

“Ha molto cuore!”, esclamò invece una goccia di pioggia, che era di passaggio da quelle parti.

Il punto interrogativo la sentì e, abituato da sempre alle critiche, si meravigliò. Le chiese: “Cos’hai detto? Puoi ripetere?”.

“Certo!”, esclamò sorridente la goccia di pioggia: “Hai molto cuore. Sì, credo sia proprio questa la spiegazione della tua testa enorme. Devi sapere che il cuore e la testa di ognuno di noi sono profondamente legati. Quando il cuore è pieno zeppo di cose, non riesce a contenerle tutte. Potrebbe esplodere, e gli ospedali sono già troppo pieni. Il tuo cuore non avrebbe mai rischiato di vederti entrare in un reparto d’urgenza, e allora ha chiesto aiuto alla testa. Lei lo ama, tutte le parti del corpo lo amano. Ne riconoscono l’energia, la passione, la pienezza.

La tua testa dunque ha fatto spazio. Il cuore vi ha riversato tremila domande, incertezze, sensi di inadeguatezza, agitazioni. La testa, inondata da una tale tormenta, ha rischiato di saltare, lasciandoti in questo modo senza guida, senza direzione. Quindi ha incamerato ma allo stesso tempo, per sopravvivere, ha creato ordine. Ha messo in fila cose che stavano spaiate e alla rinfusa; ha posizionato i ricordi in un angolo ben riparato, di cui solo lei ha le chiavi di accesso. Ha spolverato le foto, tolto le ragnatele dai meccanismi inceppati, oleato gli ingranaggi, silenziato i rumori nefasti. Ha capito che negli angoli c’è polvere sì, ma anche altro spazio da sfruttare, e che per farlo bisogna lasciare indietro qualche cosa. Fare delle rinunce, delle scelte. Capire che non si può tornare indietro.

Mentre la tua testa faceva tutto ciò si gonfiava, certo, ma era ugualmente felice perché, spiando il cuore, lo scorgeva rallentare il respiro e addormentarsi “sereno”.

È questo il motivo per cui hai la testa così grande, figliolo mio. Vanne fiero e non inciampare mai nel tranello dell’offesa gratuita. Chi giudica dà spesso voce alle proprie frustrazioni e guarda solo quello che ha davanti. Non VEDE attraverso. Non SENTE attraverso. La tua testa resterà probabilmente sempre sproporzionata rispetto al tuo corpo. Sarà piena di domande alle quali non troverà risposta ma, dall’alto della sua posizione, non avrà mietuto prigionieri. Anzi, avrà salvaguardato e liberato il tuo cuore. Fidati. Se la testa di un uomo è piccola, anche il suo cuore lo è.”

Finito il suo discorso, la goccia cadde e le sorelle la seguirono. E poi i genitori, gli amici, i parenti e infine anche gli sconosciuti che, dopo aver attentamente ascoltato le parole di quella porzione d’acqua così piccola ma così saggia, decisero di unirsi, solidali, in una grandissima pozzanghera piena di luce.

Nacque un temporale burrascoso. Il punto interrogativo restò lì immobile a guardare. Inerte. Inerme. Poi un lampo si accese e lui … ballò.

La sua testa ciondolava di qua e di là come in una melodia ipnotica e il cuore la guardava estasiato. Lo stesso bagliore improvviso che aveva visto nel cielo, allora, lo attraversò: conteneva alcune parole. Ce n’era traccia nella storia perché erano state pronunciate per la prima volta da un uomo piccolo piccolo con un cuore grande grande; forse piacevano a tutti, ma lui vi era particolarmente affezionato perché gliele aveva lasciate in dono la sua mamma, prima di intraprendere il più lungo dei viaggi.

La frase recitava così: “La vita non è restare ad aspettare che passi la tempesta, ma imparare a ballare sotto la pioggia”.

Fu solo dopo che il punto interrogativo le ebbe gridate ad altissima voce, saltando nella luce proiettata dalle case degli altri, che d’improvviso le nuvole si diradarono e il sole si affacciò, annunciando, luminoso e sproporzionato, un nuovo giorno.

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Pensieri

Scudetto con sgambetto

Non sono mai stata particolarmente attaccata alla maglia del Napoli. Forse è per questo che l’euforia generale per lo scudetto mi imbarazza un po’, nella consapevolezza di non aver mai sacrificato neanche un secondo del mio tempo a tale causa.

Il calcio mi ha sempre appassionata, ma come tutte le adolescenti subivo il fascino dei giocatori; circostanze fortuite hanno poi voluto che la città per cui tifassi avesse anch’essa il mare, ma questo è solo un banale dettaglio.

Sono cresciuta in una casa di donne, e mio padre ne è stato risucchiato. Tutto dedito a lavoro e famiglia, seguiva il Napoli con la sobrietà e la compostezza dell’uomo moderato che è sempre stato. La sua classe mi lascia talvolta ancora basita, quando, in alcune circostanze come quella di domenica scorsa, davanti alla partita con la Salernitana, ha esclamato tutt’a un tratto: “Se stessi in campo ora li lascerei vincere, così da non farli retrocedere… tanto lo scudetto lo abbiamo già vinto, questo è un derby.” L’ho guardato per un attimo e mi sono venute le lacrime agli occhi, per quell’eleganza che i tifosi accaniti non hanno, e che lascia trasparire l’animo nobile che mi ha cresciuta; lui, che guarda fin troppi notiziari, non poteva ignorare le scorrettezze pronunciate dalla città di Salerno in occasione dell’incontro, eppure… “Non esiste il concetto di vendetta per i grandi uomini”, ho pensato sottovoce.

Napoli è la città degli eccessi. Nel bene e nel male. Per questo la odiano in molti. Noi napoletani stessi lo facciamo, perché sappiamo perfettamente quanto difficile viverci sia; ciononostante fatichiamo a distaccarcene, spesso restando abbarbicati al nostro quartiere di nascita e a quattro strade in croce, ignorando realmente quanta antichità e magnificenza nasconda Partenope. Ci proteggiamo in questo modo, e ci convinciamo di vivere bene, ma poi fatichiamo ad andare a lavoro coi trasporti pubblici quasi inesistenti; a buttare un rifiuto nella raccolta giusta perché la differenziata avanza a stento, e “poi, tanto, chi raccoglie la spazzatura la mette tutta insieme”. Ci abituiamo lentamente, senza neanche più esibire indignazione, al degrado di monumenti secolari che gli statunitensi traformerebbero in miniere d’oro, loro che elevano al rango di “sacralità” anche un pelo pubico di Abraham Lincoln. Noi ce ne accorgiamo, eppure lasciamo correre. Prendiamo i motorini per andare ovunque, anche con la pioggia, perché il traffico ci ruba ore preziosissime che non torneranno, e cerchiamo di svolgere qualsiasi attività il meno lontano possibile da casa nostra, in modo da non dover borbottare troppo a lungo. Spesso ignoriamo che a due fermate di metropolitana (ah, per inciso, una delle più belle d’Europa) ci sono mille e più associazioni dedite alla filantropia, e ci lamentiamo anche del superfluo, perché il napoletano si arrangia in qualsiasi circostanza avversa, è vero, ma se si lamenta si arrangia di più. 

Non conosco bene il dialetto. A casa mia non si parlava, e quando il professor Giglio mi assegnò come tesi lo studio di un giornale partenopeo, i cui articoli erano spesso in “volgare”, papà capitolò e mi comprò il vocabolario napoletano-italiano. Ero già grande, ma lui non poteva tollerare che io gli avessi chiesto la traduzione della parola “veppeta” e allora tornò a casa con quell’inaspettato quanto deludente – per la ventenne che ero – regalo. Allora non potevo comprendere, ma papà mi stava regalando le mie origini: nessuno deve ignorarle mai, da qualunque luogo provenga.

Quando rifiutai di partire per l’Erasmus perché il ragazzo che frequentavo allora – un idiota – mi disse: “Vai pure, ma non aspettarti di trovarmi al ritorno!” io, di gran lunga più idiota di lui anche solo per il fatto di averlo scelto, agii d’impulso. Me ne sono pentita talmente tanto che al confronto un tappeto di ceci è un massaggio per le ginocchia, ma ormai la frittata era più che fatta, direi bruciata. Credo, però, di aver imparato molto sulla mia città grazie a quella mancata dipartita. Iniziai in quel periodo a girarne i vicoli, e se non fosse per la mia fallace memoria potrei accompagnare le persone a scovarne le meraviglie; non ho mai smesso di farlo da allora, e ad ogni traversa scopro qualcosa di nuovo.

Detesto i lamentosi, e quindi anche molti napoletani, ma detesto ancora di più quest’odio gratuito che ci stanno riversando addosso in occasione dello scudetto. Anzi, non è che lo detesto, è che proprio non lo capisco. Oltre a favorire la trasformazione in “malament” (persone rancorose e dappoco) di amici con cui sono cresciuta, a cui voglio bene e che ritenevo ingenuamente sani di mente, quest’accanimento è quasi peggiore di quelli terapeutici. Cosa c’è di più raccapricciante di essere tenuti in vita da quasi morti, contro la propria volontà? C’è il fatto di essere condannati alla gogna da vivi, mentre tentiamo come fratelli poveri di una nazione sulla carta ricca, di festeggiare qualcosa che ci siamo conquistati sul campo, con la fatica e talvolta con un pizzico di fortuna, che, non a caso, “aiuta gli audaci”. E’ un gioco in fondo, e tutti i giochi dovrebbero rallegrare, non seminare odio.

Quando lavoravo al bar, nel locale sulla spiaggia più blasonato del tempo, l’Arenile, ci fu la festa per l’addio al calcio di Ciro Ferrara. Ricordo perfettamente Michele tremare mentre preparava la capirihiña a Careca; ricordo Folco e tutti i ragazzi del bar lasciare me e Lorenzo da soli a lavorare: era arrivato Maradona. Ci chiedevano di affidare loro qualsiasi cosa: una forchetta, un piatto, un flut, un seau à glace col Moet per portarli “al pibe de oro”. Le postazioni erano vuote, il personale sembrava drogato e inebetito. Qualcuno piangeva.

Noi due invece ridevamo: ci sembravano tutti idioti e fanatici, ma in realtà non avevamo capito niente. Quello spazio era diventato un santuario e sull’altare ci si doveva per forza inginocchiare.

Da quando è morto Diego – nessuno in città può esimersi dal chiamarlo così – mi sono ritrovata spesso a pensare a quella scena: sono certa che nelle case di tutti coloro che erano presenti quella sera, c’è ancora uno scatto, un autografo, un tatuaggio scolpito nella mente.

Napoli è così: ti resta addosso in eterno. Te ne vai e quasi mai ritorni, se non per venire a salutare parenti e amici; per guardare il Vesuvio; per mangiare la pizza. Qualcuno è nostalgico oltremodo e tenta di ritornare a tutti i costi, rovinando le carriere proprie e quelle delle mogli, nonché la vita futura dei propri figli, perché Napoli, si sa, è una possibilità che spesso si nega persino a sé stessa. Ma noi siamo anche un po’ masochisti, e se dobbiamo farci proprio del male, allora vogliamo che sullo sfondo ci sia il Castel dell’Ovo o la Certosa di San Martino o meglio ancora il Maschio Angioino, perché almeno soffriamo contornati dalla bellezza.

La città si è tinta di azzurro già da un po’; in molti, che non vivono più qua, stanno facendo capolino per immergersi nei colori della propria squadra; per abbracciare le sagome a grandezza naturale dei giocatori; per autotassarsi in modo da rendere Napoli interamente vestita a festa. Io cammino e la guardo: mi mette allegria nella sua incredibile eccentricità; nella sua eleganza sempre scomposta; nella sua sobrietà inesistente; nella sua anima chiassosa e talvolta surreale di cui spesso e volentieri mi vergogno, ma in fondo si chiama Napoli proprio per questo.

Navigo di continuo nel web e di recente sono incappata in notizie – molte delle quali fortunatamente rivelatesi fake – stracolme di odio regionale; sento intonare quella canzoncina che già da piccola trovavo l’emblema della stupidità, della grettezza umana, dell’inconsapevolezza del valore delle parole: “… Lavali col fuoco…!”.

Mi viene allora istintivo guardare il Vesuvio: mi pare improvvisamente umano e mi sta strizzando l’occhio. Si avvicina al mio orecchio e sussurra: “Allora procedo, che dici, erutto?”. Non so cosa rispondere; la sua domanda mi ha spiazzata e quindi faccio cenno di sì con la testa perché mostra un sorriso sornione che mi rassicura. E così spalanca la bocca: dalle sue fauci esce lava dipinta di bianco e di azzurro: striscia, e contro tutte le leggi di gravità, risale fino alle Alpi, senza provocare danno alcuno, ma rendendo le terre fertili e rinvigorendo le ginestre e milioni di altri fiori. E’ il suo modo di ammonire la nazione intera: gli insiemi sopravvivono soltanto a patto che i suoi componenti siano coesi. Se la testa si ammala si muore, certo, ma si può perdere la vita anche – Giamaica docet –  se si ammala un piede o un’anca.

Nella scalata verso questo scudetto, ho intravisto tenderci ben più di uno sgambetto. Come se la felicità di una città potesse nuocere alle altre, non rinvigorirle. E allora ben venga maledirla, aggredirla col turpiloquio, riempirla di volgarità e malaugurio.

Il popolo napoletano non è perfetto, nessun popolo al mondo lo è. La storia gli ha insegnato a vivere di stratagemmi, e lui ha imparato la lezione come il più svelto degli scolari, che purtroppo non capisce mai a che punto bisogna fermarsi. Il calcio, però, è un’altra cosa.

Da noi il sacro e il profano si sono sempre mescolati; l’altare di Maradona ora accoglie più turisti della Chiesa di Santa Chiara, e gli anni di attesa dello scudetto numero tre, come la Trinità, si mescolano simbolicamente all’età di Cristo perché tutto ciò che succede a Napoli ci parla, e lo fa in quel modo caratteristico che a molti non piace e che non rispetta quasi mai le regole del Galateo.

S’ sent’ assaj megl’ si s’allucc'”! (Se si alza il tono della voce, le parole risultano più comprensibili!)

Oggi c’è solo da gioire e lo dovremmo fare tutti. Tifosi e non tifosi. Juventini, milanisti, atalantini e salernitani insieme a noi napoletani. E’ un momento di entusiasmo e di riscatto pieno per un popolo su cui regna la maldicenza spesso senza ragione, in virtù di generalizzazioni e luoghi comuni così odiati da chi ha ancora un po’ di sale in zucca.

Molti di noi, grazie a questa vittoria, hanno riportato in vita per un attimo le persone che hanno perso e che oggi avrebbero voluto accanto, e direi che questo, unito all’amore puro e indiscriminato per il buon calcio, valga da solo l’impresa, al di là di qualsiasi colore.

Oggi siamo tutti chiamati a fare festa.

Domani potremo tornare a lamentarci.

Domani però.

Oggi no.

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Poesie

Posso solo perdere

Ho sette anni e occhi grandi, pieni di sogni.

Ho già visto il mare rosso,

anche se mi avevano detto che si trovava da un’altra parte.

Ho sette anni, eppure in questa barca sto tanto stretto.

Mio fratello mi aveva detto che partivamo,

ma non avevo capito bene per dove.

Ho sette anni e non volevo cambiare casa,

ma nella mia c’è un gioco che si chiama guerra

e mamma dice che posso solo perdere.

Ho sette anni e non so nuotare:

nella mia terra il mare non ha onde, solo papaveri.

Ho sette anni e sento questa parola – POLITICA – ma non la conosco.

Chiederei a mio zio, che mi sta sollevando, che cosa significa,

ma ho sette anni e vorrei aspettare di averne otto.

Ho sette anni e occhi pieni di sogni, grandi.

Erano così grandi, talmente grandi,

che mi sto ancora chiedendo come hai fatto ad ucciderli tutti,

TU.

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Racconti

Sensi di colpa

“Sensi di colpa io? E perché dovrei provarne, Lara?”.

“Dai, Ale, lo sai che ne soffri da sempre; saresti uno scrittore più che prolifico al riguardo, perché non pensi seriamente di scrivere un libro? Potresti intitolarlo “Io e quello che avrei potuto fare, se solo ne avessi avuto il fegato!”.

“Non fa ridere, Lara! Il tuo sarcasmo mi perplime. Non capisco se fai sul serio oppure no.”

“Mi senti per caso farfugliare? Sono molto stanca oggi, e la verità mi esce più fluida. Si è rotto lo scaldino; ho iniziato la giornata con una doccia gelata nella settimana della merla; l’anta della cucina si è staccata d’improvviso: ho rischiato di rimetterci la pelle, e tu che fai? Sei qui al telefono a parlare solo di te: di questa ragazza che hai appena conosciuto e -poverina- non sa ancora in quale guaio si è andata a ficcare; di tua madre che è rimasta sola e ogni volta che vai a trovarla pare ti sia stata affidata la risoluzione del rischio idrogeologico nel mondo; del tuo lavoro che non ti piace ma che resta sempre lo stesso; della casa nella quale non inviti mai nessuno perché ti fa sentire inadeguato e tuttavia non disdici; di un fantomatico figlio che avresti sempre desiderato, ma che- guarda caso- non hai mai avuto; della tua ragazza storica, che era la migliore di sempre, la donna che tutti sognano, la fata delle fiabe …blablablablablabla… e che hai abbandonato come un ladro nel cuore della notte. Ma dai! Che noia atroce! Sono storie che mi hai raccontato milioni di volte; ti avevo chiamato solo per un bicchiere di vino rosso. In alcuni casi è sufficiente dire no, sai? Ah… ogni tanto potresti fingere di chiedere come sto? E’ una frase facile facile, senza nessuna particolare implicazione emotiva. A chi l’ascolta procura piacere, indipendentemente se resti ad ascoltare la risposta, fidati. Ora devo andare; già ho conosciuto la fase depressiva: eviterei volentieri di duplicarla. Niente di personale, o mi ami o mi odi. Buonanotte, si è fatto tardi. Però domani… domani… mi prometti che proverai a sovvertire anche solo uno di questi sensi di colpa? Basta fare esattamente quello che ti passa per la testa, senza costruirvi intorno un castello di scuse, quelle non servono a niente e poi… vuoi mettere la soddisfazione di agire una volta tanto senza filtri? Riservali alle foto su Instagram, o almeno provaci! A domani”.

Lara non fece caso al silenzio che era calato dall’altra parte; il Bimby in funzione, musica Indie ad alto volume, la lavatrice in modalità centrifuga. Alessio aveva incassato, tutto qui. Si sarebbero sentiti il giorno dopo e amici come prima. Invece Alessio piangeva. Dall’altra parte del telefono piangeva, senza singhiozzi, in silenzio. Come quei bambini che cadono e dalla ferita zampilla sangue, ma devono a tutti i costi dimostrare a chi sta intorno che sono dei duri; che otto anni possono di colpo diventare trentotto e allora NO, non si piange: siamo grandi ormai.

L’indomani i due amici non si cercarono.

Alessio si era offeso, non aveva alcuna intenzione di chiamare Lara. La detestava a volte. Sì, perché rappresentava tutto quello che sarebbe voluto essere. Lei c’era stata sempre; quando era fuggito dalla casa in cui viveva con Elena perché aveva una relazione con un’altra e non trovava il coraggio di dirglielo; quando il padre morì e nessun abbraccio era riuscito a riscaldarlo se non il suo, mentre dissacrante diceva: “Era stanco di vivere il tuo vecchio, Ale. Smettila di frignare, dagli tregua: se la merita!”. C’era quando era stato bocciato all’esame di Diritto Privato, dopo un esaurimento nervoso violentissimo che lo aveva ridotto a ripetere in maniera compulsiva sempre le stesse cose: un cervello inceppato come uno scaldino a cui manca l’acqua. E c’era anche quando aveva messo incinta la sua prima ragazza e ad abortire l’aveva accompagnata proprio lei perché gli uomini non potevano entrare, e a casa quella ragazzina dagli occhi chiari e spauriti non lo aveva detto a nessuno. Chissà se un figlio lo aveva avuto, poi…

Ad ogni modo questa volta Lara ci era andata giù troppo pesante: vomitargli addosso tante verità -perché di verità si trattava- e tutte insieme! Per forza non aveva voglia di sentire la sua voce.

Lara, dal canto suo, fu risucchiata dal lavoro: curava la scenografia di un programma che andava in onda tutte le settimane e che ruotava intorno alle chat whatsApp delle madri degli studenti. Lei le considerava il male supremo, e avrebbe pagato oro per avere la stessa faccia tosta con cui il presentatore fingeva di interessarsi agli argomenti clou della trasmissione: offese quotidiane agli insegnanti; organizzazione di lavori a gruppi sulla scia di distribuzioni irrazionali e tendenziose; scelta di locali a tutti i costi alternativi per le feste di compleanno – una volta addirittura una di loro aveva fittato un camper gigante con Barbie umane per portare in giro le amichette della figlia -; indiscrezioni sulla vita privata di chiunque uscisse fuori dal coro, o proprio dalle suddette chat, per ovvi obiettivi di salute mentale.

Tutte le volte che Lara ideava una nuova scenografia, pensava sempre di voler ricreare nello studio un’adunata nordcoreana, una tappa della desertificazione in atto in Sicilia o un segmento di foresta amazzonica in pieno disboscamento. Così, giusto per provocazione; avrebbe volentieri collocato quelle donne lì al centro per vedere fino a che punto arrivava la loro dispercezione della realtà. Erano sperimentalismi degni di nota – pensava -, ma la regista non era lei e neanche la sceneggiatrice.

Le prove durarono fino a tarda sera quel giorno e, tornata a casa, era stremata. Prima di crollare, preparò in quattro e quattr’otto la valigia: l’indomani raggiungeva Leo, il loro amico di sempre, ad Amsterdam. Sarebbe dovuta andare con Alessio ma lui, dinanzi alle proposte che diventavano reali, reagiva in genere così: “Mamma non sta bene, non me la sento di lasciarla da sola, quanto mi piacerebbe però! Ho una causa importante martedì, non posso delegare nessuno, quanto mi piacerebbe però! Ho comprato i biglietti del teatro in quella data: aspettavo Servillo dal vivo da anni, non posso mancare, non mi rimborsano neanche. Quanto mi piacerebbe però!”.

Lara trovava sormontabili tutte le motivazioni, ma piuttosto che fare storie – Alessio era permaloso e lei non sempre riusciva ad essere paziente – aveva solo esclamato: “Tranquillo Ale, vado da sola, Leo ci aspetta da tanto, sarà felice ugualmente; lo sai che ha bisogno di distrarsi, non si è mai ripreso del tutto da quel giorno in cui la moglie gli ha portato via i bambini. A tirarlo su di morale ci penserò io, gli amici servono a questo, no? Però… me lo fai un favore? Potresti evitare di dire sempre che vuoi venire, salvo poi tirarti indietro all’atto effettivo? Alla nostra età si finisce per diventare ridicoli a furia di inventare scuse, e poi ognuno stabilisce le sue priorità, it’s ok. Vorrà dire che stavolta, invece di prenotare come al solito il parcheggio Long Term, mi accompagnerai tu in aeroporto e sventolerai il fazzoletto al gate. Ok? Dai, basta lamentele e rimpianti… Verrai al prossimo!

Così aveva liquidato l’argomento, ma Alessio non l’aveva più chiamata e alle 7.50 aveva l’imbarco. Pazienza. Afferrò il telefonino e prenotò il parcheggio. Non quello dell’ultima volta però. La mano viscida dell’autista della navetta, scivolata casualmente sulle sue gambe nude strette in uno short in piena estate, la ricordava ancora. Una smorfia di disgusto la pervase. “Ora chiamo Alessio e gli chiedo se viene a prendermi!”. Dall’altro lato il suo amico era sul divano davanti a “Le Jene”, la sua trasmissione preferita. Guardava una replica e la conosceva a memoria: quante lacrime per Nadia Toffa, avrebbe rivisto quel servizio all’infinito. Il display si illuminò. “Oh no, Lara! Non ho voglia di accompagnarla domani, farò finta di essermi addormentato, sono le 2 di notte, anche la mia insonnia potrebbe aver capitolato”.

L’indomani aveva la prima causa alle 10, poteva svegliarsi con calma. Lo fece invece all’improvviso alle 7.40 e il suo primo pensiero fu: “Lara! Sta partendo, quanto mi piacerebbe un suo abbraccio stamattina!”.

Sensi di colpa in progress.

Lara intanto era nel corridoio dell’aereo e cercava il proprio posto, sperando ardentemente fosse accanto ad un olandese. La fortuna le arrise e il volo trascorse senza contrattempi.

Trovò il Magere Brug sempre romantico – come avrebbe potuto Van Gogh non ritrarlo?- e decise di attraversarlo a piedi. Leo abitava poco distante da lì.

Le case si muovono nei Paesi Bassi: è un modo per dire agli uomini che sì, hanno avuto la meglio sull’acqua, ma loro mica restano a guardare immobili! Sono abbracciate le une all’altre per un miglior ancoraggio ma, fissando lo sguardo su una lontana dal branco, si evince subito che sono storte; sono, appunto, le dancing house.

Da una di queste si levavano risate fragorose adulte e insieme bambine; Lara le seguì, non ricordava esattamente il civico di Kerkstraat in cui abitava Leo. Col tempo il suo amico aveva vinto la causa in cui lo aveva trascinato la moglie, avida di ricchezze e di vendetta; dimostrato che non aveva mai maltrattato né lei né i suoi adorati gemelli; cambiato tre lavori, quattro case, adottato un cucciolo abbandonato, e finalmente ottenuto i suoi elementari diritti: leggere le favole ai propri bambini tutte le volte che fossero in cerca di magia; soffiare bolle di sapone multiformi e guardarci attraverso mentre prendevano la via del cielo; osservare al microscopio la struttura di tutto ciò che ci circonda, anche l’iride di un’amica appena conosciuta.

Lara bussò e fu subito festa. Ai bambini occorre poco tempo per scegliere se affidarsi o no a degli “sconosciuti”: è il loro incantesimo. Gli adulti hanno dimenticato come si fa, timorosi e diffidenti persino verso sé stessi.

I giorni passavano veloci; era un autunno particolarmente clemente e pareva fossero tutti e quattro in vacanza, ma in realtà lo era solo Lara.

“Come stai? Sono cinque giorni che non ti fai sentire; di certo so solo che sei arrivata a destinazione. Tu e Leo non chiamate mai. Sei arrabbiata con me perché ho dimenticato di accompagnarti? Ah, com’era stavolta il taxi driver? È riuscito a tenere le mani al suo posto o hai scoperto che davvero quel corso di Taekwondo poteva tornarti utile? Fatti viva, non ricordo quando torni, mi piacerebbe venirti a prendere”. Ale

Lara lesse il messaggio la mattina dopo. Quel giorno i bimbi erano con i nonni e ne approfittò per fare un giro della città con Leo: zaino in spalla e occhi in cerca di itinerari non convenzionali. Bevvero qualche birra di troppo – e non solo – così, dopo aver cenato in un ristorante thai e aver fatto sosta in un coffee shop, si ritrovarono a condurre conversazioni improbabili con gente improbabile. Risero e piansero insieme quella notte, e Lara andò in giro agitando il dito medio fino al portone di casa. A Leo, che le domandava divertito a chi fosse rivolto tale gesto, convinto di avere già la risposta, disse solo: “Ai disincantati. Ai bigotti. A chi giudica dalle apparenze. A chi non si fa mai gli stramaledetti cazzi propri. A chi crede sia venuta qui per cercare qualcosa che non riesco a trovare a casa mia. Ai finti open mind.  A quelli che non credono all’amicizia tra uomini e donne, che derelitti! E ad Ale, che da quando lo conosco non mi ha mai detto ti voglio bene, ma continua a ripetere: “Mi piacerebbe!”.

“Lara, occhio al canale, stai camminando a zig zag e la bicicletta mi serve!”.

Il giorno dopo…

“Ciao, Ale… Sì, hai ragione, scusaci. Volevamo chiamarti ma ieri abbiamo esagerato… Sì, pensa che ci siamo svegliati testa e piedi sul divano. Sai che non avevo mai notato che qui le case hanno tutte dei ganci ben visibili in facciata? Leo dice che sono per consentire l’accesso delle bare, ma non capisco perché ultimamente pensa sempre alla morte, si vede che stiamo diventando vecchi; non potrebbero essere per una vasca da bagno, per una lavatrice o – che so –  per un grande forno?… Sì, Ale, sto benone. No, non ho scoperto di avere una malattia terminale, cazzo dici?… Grazie, ma non penso di tornare questa settimana, mi hanno cancellato il volo ieri… Sì, dovrei lavorare, ma detesto quella trasmissione, lo sai che sto cercando un’alternativa da mesi… No, non mi è arrivata risposta da quel giornale, magari! In verità stamattina ho rassegnato le mie dimissioni, volevo dirtelo al ritorno, ma non so con precisione quando sarà… NO che non potevo parlarne prima con te, mi avresti detto di non licenziarmi se prima non avessi trovato un altro impiego, e io sono stufa di sentirti dire quale sarebbe la cosa giusta da fare, siamo diversi: siamo amici anche e soprattutto per questo. Non voglio trascorrere la mia vita ad aspettare il momento propizio per… Ma perché stai urlando, che ti prende?… No che non ho trovato un lavoro qua. Ancora con questi sensi di colpa?… No, non è perché non mi hai accompagnata, ma ti pare?… Sì, ho avvisato i miei genitori, ce la faranno a sopravvivere senza di me, tranquillo.”

“Ma io no!”. E attaccò.

Alessio era infuriato, anche se non capiva esattamente con chi: se con Lara, il cui pensiero in un millesimo di secondo si trasformava in gesto, o con sé stesso, che a furia di costruire giustificazioni per non affacciarsi alla vita, ci stava lentamente rinunciando. Accese una sigaretta. Quanto avrebbe dovuto aspettare per bere ancora vino rosso con la sua amica di sempre? Per quanto tempo avrebbe rimpianto quella serata della settimana precedente in cui la sua proverbiale pigrizia aveva avuto la meglio, e non gli era venuta in soccorso neanche la sincerità?

Chiamò Marco che lavorava in aeroporto, e gli commissionò il primo biglietto per “la città delle dighe”. Era per il mattino successivo ed ebbe tutto il tempo di cambiare idea almeno quindici volte. Lara non lo sapeva, ma Ale dalla morte del padre non aveva più volato. L’ultimo aereo su cui era salito era stato quello per dirgli addio, ma non aveva fatto in tempo. Da allora tutte le volte che si accingeva a solcare i cieli andava in debito di ossigeno. Aveva dovuto rinunciare persino a quell’incarico prestigioso a Malta. Appena comprato il biglietto, infatti, non aveva smesso un attimo di pensare a quella maledetta cabina pressurizzata. Quindi, al momento del viaggio, era partito di nascosto per Roma. Con il treno, chiaro. Girò la capitale i giorni necessari a giustificare la sua assenza e tornò tessendo le lodi de La Valletta.

Ora però stava accadendo qualcosa di diverso. Lara era volitiva: avrebbe trovato lavoro tra i canali, messo su famiglia con un olandese insolitamente moro, e imparato ad andare in bicicletta, lei che era sempre stata imbranata sulle due ruote. Non poteva sopportare il senso di colpa per non averla salutata, per non averla accompagnata, per non averle mai detto che la sua generosità istintiva e gratuita lo lasciava ancora oggi senza parole.

Partì. Si riempì di sonniferi, e una volta a destinazione gli steward furono obbligati a schiaffeggiarlo per fargli riprendere conoscenza. Quando aprì gli occhi era stordito, ma le prime parole che ascoltò erano in inglese e allora capì di avercela fatta.

Decise di prendere un taxi, non era in grado di arrivare a piedi alla meta. Si fermò a fare colazione in un bistrot, accanto al quale c’era un fioraio dove comprò dei tulipani coloratissimi. Nel biglietto vi scrisse: “Tutti credono che i tuoi fiori preferiti siano nati qui, ma le loro origini sono turche. Mi accompagneresti a cercarne le orme quest’estate?”.

Carta di credito alla mano, comprò due biglietti di sola andata per Ankara e noleggiò un’auto. Si fermò poi all’improvviso e scoppiò a ridere: sembrava essersi trasformato in Lara!

Dalle dancing house le voci arrivavano in strada: qualcuno stava giocando a nascondino con dei bambini, quanta energia in quegli schiamazzi! Ale bussò; una ragazzina bionda sdentata gli aprì e corse a rintanarsi tra le gambe del padre! Leo arrivò alla porta e lo strinse così forte che persino i figli ammutolirono; Lara lasciò cadere la benda che le avvolgeva gli occhi: erano bagnati di lacrime.

Fu un momento di sospensione in cui tutto il mondo scomparve. I tre amici erano di nuovo insieme dopo un tempo indefinito, e anche lo spazio assumeva fattezze surreali. Sarebbero potuti essere in qualsiasi punto del mondo.

Aprirono tre Amstel e dopo altre tre. Nessuno chiese ad Ale perché era venuto, né quanto avesse intenzione di trattenersi. Dalla terrazza del Museo delle Scienze videro il sole tramontare tra i tetti, mentre i bambini facevano a gara a disegnare l’arcobaleno più bello. Può in cinque menti esistere nel medesimo istante lo stesso pensiero? Sì: se non era felicità quella, non avrebbero saputo identificarla.

Il week end trascorse in fretta e venne il momento per Ale di ripartire; non era per niente agitato. Leo prestò l’auto agli amici e si recò a lavoro in bicicletta.

Lara guidò lentamente, erano in anticipo.

“Sono felice che tu sia venuto. Scusami per l’altra sera. Dirti ora che non pensavo quelle cose sarebbe ipocrisia, ma non era mia intenzione ferirti, credimi.”

“No, Lara. Non c’è niente di cui scusarsi. Se non fosse stato per le tue parole, non sarei mai venuto qua. Certo, i vini non sono il punto di forza di Amsterdam, ma tu nella mia vita invece lo sei. Basta condizionale. Ci vediamo quando torni, chiamami che ti vengo a prendere. Torna però”.

Si strinsero.

Mentre Ale ingurgitava sonniferi – è vero che non era nervoso, ma era sempre meglio non rischiare – Lara tornò a casa.

Cambiò l’acqua ai tulipani e scorse il biglietto caduto tra i croccantini di Lupita, il cane dalle orecchie enormi che proteggeva la famiglia.

Lo lesse, e gli occhi diventarono lucidi; in un istante afferrò il telefono e scrisse: “Vengo solo se mi accompagni a vedere i camini delle fate, ma dobbiamo provare a calarci all’interno, ti avverto. Torno, te lo prometto. Accadrà di domenica; tu la sera stessa tieniti libero: berremo vino rosso, di quelli seri. Di’ ai sensi di colpa che non sono invitati; loro non lo sanno, ma non hanno una vita propria: siamo noi che li creiamo, e solo noi che abbiamo il potere di distruggerli.

Ps: lo so che dalla morte del tuo vecchio non avevi mai più preso un aereo, e so anche che di Malta ignori persino se sia realmente un’isola. Sono fiera che tu abbia volato ancora. Forse un giorno necessiteremo di un gancio per uscire l’ultima volta dalla nostra casa, ma quante soddisfazioni entreranno insieme a noi in quella cassa? Ne sceglieremo una molto confortevole che ci consenta di avere in eterno il dito medio alzato.

Ti voglio bene. Per sempre”.