“Marco, perché non mi parli più di Marta? È da un po’ che non la vedo. Non credo che avesse realmente da fare sabato scorso, non sarebbe mai mancata alla festa a tema di Laura, l’avevamo organizzata in ogni dettaglio. Mi aveva detto che aveva comprato la parrucca di Marilyn e quel vestito bianco dalle linee morbide che ha fatto perdere la testa agli uomini di mezzo mondo! Non vedeva l’ora di indossarlo, avevamo anche concordato che avrei cercato nel bagno della festeggiata un phon per farle svolazzare le pieghe dopo un certo numero di spritz; impazziva al sol pensiero di come ti saresti ingelosito. Lei si sarebbe girata con quel sorriso disarmante e tu avresti allargato le braccia senza arrabbiarti, perché tanto la conosci come le tue tasche e sai che ne avrebbe mantenuti stretti i lembi; alla fine è timida, e poi ha occhi solo per t…
“Rita, finiscila!”.
Marco risponde infastidito e torna verso la cucina per versarsi un altro calice di Merlot.
“Finirla di fare cosa? Cos’è successo? Non mi dire che hai cestinato anche lei: è bellissima e poi è sempre allegra, non come quella mummia che frequentavi l’anno scorso! Senti, a me Marta fa tornare la voglia di viverla con slancio questa vita senza più trampolini. E poi, se non ne parli con me con chi lo farai? I tuoi amici affrontano con serietà solo gli argomenti pallone e lavoro, tu sei diverso, anche se ti sforzi di apparire come loro!”.
“Finirla di pensare sempre che conosci le persone meglio di chiunque altro, per esempio! A me piace il calcio! Certo, il lavoro è un argomento noioso, ma di cosa vuoi parlare alla nostra età: delle merendine ipocaloriche o delle ultime scarpe di Michael Jordan che vengono indossate per tutto, tranne che per volare sotto al canestro? Dai, Rita, e cresci una buona volta! Poi chi ti ha detto che sono diverso? Francesco Piccolo e la storia dell’animale che ci portiamo dentro deve averti deviata, leggi di meno! Oppure leggi Bukowski, D’Annunzio, Miller … Vedi tu, ma falla finita!”.
“Da quando l’amore è un argomento censurato, scusa? Venerdì abbiamo giocato a tabù tutta la sera e non mi pare che quando hai pescato la parola amore, tu abbia detto tra gli indizi: inesistente!”.
“Ma perché vuoi parlare sempre delle mie relazioni? Se tu fingi di aver trovato la quadra e di non desiderare nient’altro all’infuori della tua allegra famigliola, non significa che tutti necessariamente dobbiamo cercare questo!”.
“Di cosa stai parlando? Quando avevi intenzione di dirmi ciò che pensi della mia vita? Io starei dunque recitando una grande menzogna? E in quale teatro? Devo regalare qualche biglietto, almeno divento famosa!”.
“Te lo sto dicendo adesso. Sai bene che se Giulio non fosse scomparso all’improvviso, staresti ancora con due piedi in una scarpa. Hai scoperto poi dov’è fuggito pur di non sentirti dire ancora una volta che un giorno avresti mollato tutto per andare a vivere con lui? Povero illuso! Solo il bene che ti voglio mi ha impedito di dirgli quella sera che non lo avresti fatto mai. Sei stata fortunata che mi fossi fermato al quarto negroni, al quinto non avrei più retto quella sua faccia da cane bastonato!”.
Rita aveva avuto una storia extraconiugale con Giulio, un suo collega; si erano incontrati dieci anni prima durante degli scavi a Pylos, sulla costa sud-occidentale della Grecia. Tra i reperti archeologici venuti alla luce avevano ritrovato un oggetto ovale lungo circa 4 centimetri e simile a una grossa perla, ma nessuno era riuscito a classificarlo. Mentre tutti lo avevano denigrato per dedicarsi agli altri reperti rinvenuti nel sepolcro di un antico guerriero vissuto nel XV secolo a.C., Giulio con un’intuizione geniale lo aveva ripulito e aveva riconosciuto le forme di un’antica pietra su cui si osservavano le scene di guerra descritte dal grande Omero. La pietra – scoprì – andava indossata al polso come un orologio e infatti nelle scene rappresentate il guerriero ne aveva uno simile. I due non avevano mai visto nulla di così raffinatamente inciso: i dettagli erano talmente precisi che immaginarono fossero stati realizzati attraverso una lente d’ingrandimento. Rita era estasiata, non riusciva a nascondere lo stupore e Giulio le strizzò l’occhio: avrebbe detto al direttore dei lavori che era stata un’intuizione di duplice genesi. La invitò dunque a pranzo, durante il quale non fecero altro che formulare ipotesi sulla natura di quelle incisioni. Rita arrivò a dire che l’artefice doveva essere miope per lavorare tanto bene da vicino, e quella giornata finì così: tra una supposizione, un’epigrafe, tanta polvere e litri di caffè.
Ciò che subentrò dopo tra di loro era qualcosa che non aveva forma, esattamente come quella pietra che avevano ritrovato. In un mese di scavi Rita aveva taciuto sul suo matrimonio, rimandando il discorso ogni giorno per un motivo diverso, e quando Giulio lo aveva scoperto era troppo tardi per divincolarsi: ormai erano permeati l’uno dell’altra. Una volta tornati a casa, in Salento, iniziarono due anni di sotterfugi e bugie rubate ai più svariati repertori. Giulio, allo stremo, aveva infine chiesto il trasferimento in Grecia, l’unico scenario dove riteneva che la bellezza classica potesse superare quella moderna e dolorosa della sua amante. Aveva preferito allontanarsi: stare vicino a lei gli causava troppo dolore, ma la separazione gliene procurava altrettanto; sperava in un angolo remoto del cuore di vederla comparire da un momento all’altro, con uno zaino scarno di vestiti e pieno di futuro.
Rita, dal canto suo, aveva semplicemente fatto finta di niente, e anche se il marito sbadigliava non appena iniziava a parlare dell’opus reticulatum, aveva spinto il ricordo di quella pietra in un angolo lontanissimo della mente e del cuore. Era codarda? Si chiedeva ripetutamente le mattine in cui non riusciva a scacciare quel pensiero assillante. Così ricominciò ad essere una perfetta moglie e diventò anche una perfetta madre, ma si trasformò in una mediocre archeologa, visto che aveva smesso di viaggiare e non aveva più tempo per scavare. Ma il ricordo genera solchi profondi come le depressioni oceaniche e anche se negli abissi non c’è vita, si resta inconsapevolmente in attesa di qualche onda che smuova la quiete.
“Ok, non ne vuoi parlare e getti montagne di sterco sulla mia vita, va bene. Apprezzo la sincerità, un po’ meno il tentativo scorretto di ricusare le domande tirando in ballo cose vecchie di un decennio, ma non accetterò la provocazione. Vado a casa: Luca domani ha il compito di greco, ho promesso di aiutarlo con Euripide, ne riparliamo quando avrai la luna meno storta!”.
“Non ci sarà quel giorno, Rita! Piuttosto leggi Schopenhauer se ti resta tempo stasera, tanto sei abituata a dormire poco. Nel dilemma del porcospino troverai la risposta al trasferimento di Giulio e alla mia fine della relazione con Mart…”
“Allora vi siete lasciati! Ma perché Marco, perché? Era perfetta per te!”.
“ESCII!!! ORAAAAA!”.
“Ok, ok. A domani”.
Rita uscì dall’appartamento di Marco e in due minuti arrivò al suo; abitavano a due isolati dello stesso parco, vivevano in simbiosi. Appena entrata in casa, organizzò mentalmente il da farsi; diede un bacio fugace ai ragazzi, lanciò una rapida occhiata alla versione originale di “Medea” da tradurre dopocena, svuotò l’asciugatrice e stava per ordinare le pizze quando raggiunse la cucina e … pouf! Come per magia, la tavola era già pronta e ai fornelli suo marito impiattava un gustosissimo risotto allo champagne.
“Giornata dura?”. Le chiese Alberto. “Hai una faccia!”.
“No, tesoro… scusami. Senti, ma tu ricordi la storia dei porcospini di Schopenhauer al liceo? La Pagano l’aveva spiegata?!”.
“Rita, quella capace a scuola e acculturata sei tu e quello bravo a cucinare sono io, ricordi? Non sconvolgere gli asset della coppia per favore, che mi destabilizzi; io dei ricci so solo quella battutaccia che circolava nei bagni dei maschi, figurati se associo quei topi con le spine ad un filosofo austriaco!”.
“Era tedesco! E comunque hai ragione, andiamo a cenare dai, che poi devo aiutare Luca a tradurre Euripide. Sembra che tu non abbia mai studiato il greco, porca miseria! Cosa facevi in classe, oltre a scolarti vodka ai frutti nascosto all’ultimo banco?”.
“Solo quello, amore. Solo quello”.
Rita, dopo aver assolto tutte le incombenze ancora pendenti, andò a letto alle due. Alberto russava e lei ne fu sollevata: era un po’ che non aveva voglia di fare l’amore e non le andava di fingere un malore anche quella sera. Si addormentò dopo aver digitato su Google: dilemma del porcospino di Schopenhau… ma non terminò neanche la frase che il telefono le cadde accanto: aveva il 16 percento di batteria e la mattina successiva lo trovò quasi scarico, ma non aveva tempo: doveva accompagnare i ragazzi a scuola.
Trascorse una settimana nella quale Rita evitò accuratamente di chiedere notizie di Marta all’amico. Marco sembrava sereno, e lei in fondo chi era per scuotere la superficie di un mare che si desidera calmo? Nessuno.
Fu solo dopo circa sei mesi che Rita incrociò Marta al supermercato. Erano entrambe in dubbio dinanzi alle zuppe surgelate – non sarà più sana se la cucino io? si chiedevano – quando si voltarono e si riconobbero. Dall’abbraccio istintivo al desiderio di condividere un aperitivo il passo fu brevissimo e si ritrovarono di comune accordo in uno di quei localini che affacciano sul mare, da cui in autunno sale una brezza sottile e odorosa.
“Non ti ho più vista. Alla festa di Laura ho aspettato che comparissi ogni momento. Avevo messo a soqquadro il bagno per trovare il phon ed ero pronta per lo sketch di cui avevamo a lungo parlato. Perché sei scomparsa?”.
“Dovresti chiederlo al tuo amico, non trovi?”.
“Sì, l’ho fatto, ma dice cose strane, ruba teorie filosofiche, cita il mondo animale, io non ci ho capito granché però tu mi piaci e volevo aiutarti. Sai che ho un grosso ascendente su di lui… se provassi a spiegarmi, saprei dove agire per provare a fargli cambiare idea!”.
“Rita, ma davvero sei così ingenua da pensare che tu possa intervenire con qualche risultato? Marco dà retta solo a sé stesso, non c’è spazio nella sua vita per i ripensamenti, sei stupida se credi diversamente. Quella sera mi ha chiamato mentre ero intenta a fissare la parrucca di Marylin e mi ha detto solo che preferiva non venissi. Tutto qua, senza ulteriori spiegazioni. Non ce n’era bisogno, erano giorni ormai che mi parlava in continuazione dei personaghi. No, non dei personaggi, sì, hai capito bene: dei personaghi! Come non li hai mai sentiti nominare, ma davvero? Strano, ero convinta ne avesse discusso con te, visto che la prima volta che li ha citati si riferiva alla tua storia con un certo Giulio. Va be’, vuol dire che dovrò cominciare dal principio.
I personaghi sono, a detta sua, dei personaggi ricoperti di aghi. Sono persone che, inizialmente da sole, cercano compagnia. Trovano, a gran fatica, qualcuno con cui sono in sintonia e iniziano a frequentarsi: vanno a cena fuori, chiacchierano al telefono a fine giornata e ogni tanto guardano il mare che si gonfia e si sgonfia a seconda delle stagioni. Una mattina si svegliano e iniziano purtroppo a comparire i primi aghi. Quando si baciano si urtano, provano dolore e sanguinano. Per reazione provano dunque ad allontanarsi, ma hanno un forte desiderio reciproco e si riavvicinano. Hanno ancora voglia di fare delle cose insieme: andare a un concerto, ad esempio, ma le spine sono sempre in agguato. Una volta, ad un candlelight per esempio, mi abbracciò, mi tenne stretta e mi diede un bacio leggerissimo e delicato sul collo (li adoro); poi si ritrasse d’improvviso con un gesto istintivo e collerico. Io chiesi spiegazioni con lo sguardo e lui indicò i miei orecchini, esclamando che ne sceglievo sempre di appuntiti e respingenti. Erano gli aghi che prendevano forma: stava iniziando la nostra metamorfosi.
Nei giorni successivi scomparve; io ero impegnata tra viaggi di lavoro e problemi vari di gestione familiare. Provai a chiamarlo ma rispondeva a monosillabi e allora preferii lasciar decantare il suo malessere. Il sabato della settimana dopo mi invitò a cena. Disse che gli ero mancata e che aveva avuto un gran da fare, quindi non diedi importanza all’accaduto, però quella sera avvenne un altro episodio strano. Dopo aver preparato una cena a base di pesce e di candele sulle note di Erykah Badu, facemmo l’amore e mi chiese di restare a dormire da lui. Ci addormentammo avvolti in un plaid lilla che conoscerai bene – è sempre sul suo divano – e mi tenne stretta per ore. Diceva di avere freddo e che sentire il mio corpo avvinto al suo era in grado di acquietarne il tremolio, ma al mio risveglio non c’era più.
Lo trovai all’alba in salotto. Ancora una volta senza parlare, gli chiesi spiegazioni e lui mi rispose che non avevo tolto le forcine dai capelli e lo avevo punto. Erano gli aghi, li sentiva ancora, ma io non avevo nessuna forcina tra i capelli quella sera. È continuata così ancora per qualche settimana, fino alla festa di cui mi chiedi spiegazioni. Gli aghi si moltiplicavano di giorno in giorno. Iniziai a non indossare più orecchini né bracciali né collane; lasciavo i capelli sciolti e eliminavo da casa qualsiasi oggetto appuntito. Preferivo le forme morbide e coprivo qualsiasi spigolo come si fa nelle case in cui circolano bambini, ma non servì a nulla. La sera prima della festa andammo a una mostra di Salgado, il nostro fotografo preferito. Fu davanti ad una delle più belle immagini di “Amazonia” che, dopo avermi cinto la schiena con quelle braccia che ormai conoscevo a memoria, si ritrasse ancora una volta. Il pretesto fu una cintura che lui stesso mi aveva regalato e che aveva delle piccole borchie in superficie. Ero disorientata, ma avevo capito tutto.
Non l’ho mai più visto da allora.”
“Cosa avevi capito, Marta? A me sembra la storia di due psicopatici, hai consigliato a Marco un buon analista? Ho tanti numeri, sai che sono stata in terapia per anni, dovrebbe andarci anche lui. E pure tu, se mi posso permettere, che assecondi le follie di un finto sarto che non ha mai maneggiato un ago in vita sua!”.
“Marco aveva ragione sul tuo conto, Rita. Mi aveva assicurato che non avresti capito. I personaghi li inventiamo noi, mi pare fin troppo scontato che non esistano. Ci pungono anche se sono apparentemente innocui. Ci fanno del male, anche se stiamo bene con loro, anzi… quanto più stiamo bene con loro più ci fanno del male. Li allontaniamo per questo motivo: li riteniamo pericolosi. Ci attraggono come calamite, ma ne abbiamo paura. Temiamo il momento in cui si stancheranno di noi, e allora li ricopriamo di spilli per avere un pretesto per allontanarli. Una volta distanti però ci mancano e facciamo di tutto per rivederli, e in questo modo ci pungiamo ancora. Le ferite ci ricordano il motivo per cui ce ne siamo separati e quindi ci sentiamo costretti a guarire. Prendiamo la più grossa pietra nei dintorni e ve la posizioniamo sopra; in quel momento cessiamo di pensare alle minacce esterne, alle insicurezze, alle ferite. Sentiamo freddo, è vero, ma in fin dei conti basta comprare una coperta in più e il gioco è fatto. Sono scelte. Gli aghi pungono e nessuno vuole soffrire deliberatamente, capisci ora? Marco diceva che anche tu sei stata un personago per Giulio ”.
“No, non capisco. Continuo a ritenerla un’idiozia. Qual è il motivo per cui due persone che stanno bene insieme e potrebbero amarsi devono stare lontani? Non ha senso!”.
“Io non lo so se ha un senso, Rita. Rispetto semplicemente l’idea di Marco. Forse si sbagliava su te e Giulio: magari per lui era diverso, era stufo della situazione, non ti amava più ed era davvero giunto il momento di separarsi. Conosci tu la verità! Ora devo andare: Valentina mi aspetta, andiamo a vedere un film al cinema, anzi… se ti va di venire con no…”
“No, no. Mi ha fatto piacere vederti, un po’ meno sentire questa storia assurda, spero che tu sia davvero convinta di ciò che dici e non stia soffrendo, io starei malissimo al posto tuo”.
“Soffrire? E perché? Si soffre per le cose che tentiamo di modificare senza riuscirci, non per quelle che sono già scritte da secoli di filosofia. L’uomo non ha grande capacità di azione di fronte ai personaghi!”.
“Sarà…”.
Le due si congedano e Rita, alquanto perplessa, sceglie di tornare a piedi. Si è fatto tardi e tre chilometri sono tanti, ma non ha nessuna voglia di rincasare con la mente in stato d’assedio.
Lungo la strada, all’altezza del bar che vende i dolci più buoni del Salento, si ferma per una pausa. Si siede in un locale appartato ed estrae dalla borsa il portafogli: ha una tasca sul retro che non apre mai, “la tasca dei segreti”. Dal biglietto piegato quattro volte si affaccia il numero di Giulio, associato al finto nome “orologiaio”.
Il telefono squilla due volte, tre… al quarto trillo quella voce mai dimenticata risponde: “RITA!!!! Sei tu?”.
“Giulio, ascolta… io ero ricoperta di aghi perciò sei andato via anni fa senza dirmi nulla? Ti prego, ho bisogno di sapere la verità!”.
“Schopenhauer, eh? Domani prendo il primo volo, devo parlarti, dovevamo farlo prima. Ti amo, non ho mai smesso di farlo.”
A Vincenzo, che è un disastro nelle parole crociate, ma che in filosofia era mille volte più bravo di me.
Grazie.