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Personaghi

“Marco, perché non mi parli più di Marta? È da un po’ che non la vedo. Non credo che avesse realmente da fare sabato scorso, non sarebbe mai mancata alla festa a tema di Laura, l’avevamo organizzata in ogni dettaglio. Mi aveva detto che aveva comprato la parrucca di Marilyn e quel vestito bianco dalle linee morbide che ha fatto perdere la testa agli uomini di mezzo mondo! Non vedeva l’ora di indossarlo, avevamo anche concordato che avrei cercato nel bagno della festeggiata un phon per farle svolazzare le pieghe dopo un certo numero di spritz; impazziva al sol pensiero di come ti saresti ingelosito. Lei si sarebbe girata con quel sorriso disarmante e tu avresti allargato le braccia senza arrabbiarti, perché tanto la conosci come le tue tasche e sai che ne avrebbe mantenuti stretti i lembi; alla fine è timida, e poi ha occhi solo per t…

“Rita, finiscila!”.

Marco risponde infastidito e torna verso la cucina per versarsi un altro calice di Merlot.

“Finirla di fare cosa? Cos’è successo? Non mi dire che hai cestinato anche lei: è bellissima e poi è sempre allegra, non come quella mummia che frequentavi l’anno scorso! Senti, a me Marta fa tornare la voglia di viverla con slancio questa vita senza più trampolini. E poi, se non ne parli con me con chi lo farai? I tuoi amici affrontano con serietà solo gli argomenti pallone e lavoro, tu sei diverso, anche se ti sforzi di apparire come loro!”.

“Finirla di pensare sempre che conosci le persone meglio di chiunque altro, per esempio! A me piace il calcio! Certo, il lavoro è un argomento noioso, ma di cosa vuoi parlare alla nostra età: delle merendine ipocaloriche o delle ultime scarpe di Michael Jordan che vengono indossate per tutto, tranne che per volare sotto al canestro? Dai, Rita, e cresci una buona volta! Poi chi ti ha detto che sono diverso? Francesco Piccolo e la storia dell’animale che ci portiamo dentro deve averti deviata, leggi di meno! Oppure leggi Bukowski, D’Annunzio, Miller … Vedi tu, ma falla finita!”.

“Da quando l’amore è un argomento censurato, scusa? Venerdì abbiamo giocato a tabù tutta la sera e non mi pare che quando hai pescato la parola amore, tu abbia detto tra gli indizi: inesistente!”.

“Ma perché vuoi parlare sempre delle mie relazioni? Se tu fingi di aver trovato la quadra e di non desiderare nient’altro all’infuori della tua allegra famigliola, non significa che tutti necessariamente dobbiamo cercare questo!”.

“Di cosa stai parlando? Quando avevi intenzione di dirmi ciò che pensi della mia vita? Io starei dunque recitando una grande menzogna? E in quale teatro? Devo regalare qualche biglietto, almeno divento famosa!”.

“Te lo sto dicendo adesso. Sai bene che se Giulio non fosse scomparso all’improvviso, staresti ancora con due piedi in una scarpa. Hai scoperto poi dov’è fuggito pur di non sentirti dire ancora una volta che un giorno avresti mollato tutto per andare a vivere con lui? Povero illuso! Solo il bene che ti voglio mi ha impedito di dirgli quella sera che non lo avresti fatto mai. Sei stata fortunata che mi fossi fermato al quarto negroni, al quinto non avrei più retto quella sua faccia da cane bastonato!”.

Rita aveva avuto una storia extraconiugale con Giulio, un suo collega; si erano incontrati dieci anni prima durante degli scavi a Pylos, sulla costa sud-occidentale della Grecia.  Tra i reperti archeologici venuti alla luce avevano ritrovato un oggetto ovale lungo circa 4 centimetri e simile a una grossa perla, ma nessuno era riuscito a classificarlo. Mentre tutti lo avevano denigrato per dedicarsi agli altri reperti rinvenuti nel sepolcro di un antico guerriero vissuto nel XV secolo a.C., Giulio con un’intuizione geniale lo aveva ripulito e aveva riconosciuto le forme di un’antica pietra su cui si osservavano le scene di guerra descritte dal grande Omero. La pietra – scoprì – andava indossata al polso come un orologio e infatti nelle scene rappresentate il guerriero ne aveva uno simile. I due non avevano mai visto nulla di così raffinatamente inciso: i dettagli erano talmente precisi che immaginarono fossero stati realizzati attraverso una lente d’ingrandimento. Rita era estasiata, non riusciva a nascondere lo stupore e Giulio le strizzò l’occhio: avrebbe detto al direttore dei lavori che era stata un’intuizione di duplice genesi. La invitò dunque a pranzo, durante il quale non fecero altro che formulare ipotesi sulla natura di quelle incisioni. Rita arrivò a dire che l’artefice doveva essere miope per lavorare tanto bene da vicino, e quella giornata finì così: tra una supposizione, un’epigrafe, tanta polvere e litri di caffè.

Ciò che subentrò dopo tra di loro era qualcosa che non aveva forma, esattamente come quella pietra che avevano ritrovato. In un mese di scavi Rita aveva taciuto sul suo matrimonio, rimandando il discorso ogni giorno per un motivo diverso, e quando Giulio lo aveva scoperto era troppo tardi per divincolarsi: ormai erano permeati l’uno dell’altra. Una volta tornati a casa, in Salento, iniziarono due anni di sotterfugi e bugie rubate ai più svariati repertori. Giulio, allo stremo, aveva infine chiesto il trasferimento in Grecia, l’unico scenario dove riteneva che la bellezza classica potesse superare quella moderna e dolorosa della sua amante. Aveva preferito allontanarsi: stare vicino a lei gli causava troppo dolore, ma la separazione gliene procurava altrettanto; sperava in un angolo remoto del cuore di vederla comparire da un momento all’altro, con uno zaino scarno di vestiti e pieno di futuro.

Rita, dal canto suo, aveva semplicemente fatto finta di niente, e anche se il marito sbadigliava non appena iniziava a parlare dell’opus reticulatum, aveva spinto il ricordo di quella pietra in un angolo lontanissimo della mente e del cuore. Era codarda? Si chiedeva ripetutamente le mattine in cui non riusciva a scacciare quel pensiero assillante. Così ricominciò ad essere una perfetta moglie e diventò anche una perfetta madre, ma si trasformò in una mediocre archeologa, visto che aveva smesso di viaggiare e non aveva più tempo per scavare. Ma il ricordo genera solchi profondi come le depressioni oceaniche e anche se negli abissi non c’è vita, si resta inconsapevolmente in attesa di qualche onda che smuova la quiete.

“Ok, non ne vuoi parlare e getti montagne di sterco sulla mia vita, va bene. Apprezzo la sincerità, un po’ meno il tentativo scorretto di ricusare le domande tirando in ballo cose vecchie di un decennio, ma non accetterò la provocazione. Vado a casa: Luca domani ha il compito di greco, ho promesso di aiutarlo con Euripide, ne riparliamo quando avrai la luna meno storta!”.

“Non ci sarà quel giorno, Rita! Piuttosto leggi Schopenhauer se ti resta tempo stasera, tanto sei abituata a dormire poco. Nel dilemma del porcospino troverai la risposta al trasferimento di Giulio e alla mia fine della relazione con Mart…”

“Allora vi siete lasciati! Ma perché Marco, perché? Era perfetta per te!”.

“ESCII!!! ORAAAAA!”.

“Ok, ok. A domani”.

Rita uscì dall’appartamento di Marco e in due minuti arrivò al suo; abitavano a due isolati dello stesso parco, vivevano in simbiosi. Appena entrata in casa, organizzò mentalmente il da farsi; diede un bacio fugace ai ragazzi, lanciò una rapida occhiata alla versione originale di “Medea” da tradurre dopocena, svuotò l’asciugatrice e stava per ordinare le pizze quando raggiunse la cucina e … pouf! Come per magia, la tavola era già pronta e ai fornelli suo marito impiattava un gustosissimo risotto allo champagne.

“Giornata dura?”. Le chiese Alberto. “Hai una faccia!”.

“No, tesoro… scusami. Senti, ma tu ricordi la storia dei porcospini di Schopenhauer al liceo? La Pagano l’aveva spiegata?!”.

“Rita, quella capace a scuola e acculturata sei tu e quello bravo a cucinare sono io, ricordi? Non sconvolgere gli asset della coppia per favore, che mi destabilizzi; io dei ricci so solo quella battutaccia che circolava nei bagni dei maschi, figurati se associo quei topi con le spine ad un filosofo austriaco!”.

“Era tedesco! E comunque hai ragione, andiamo a cenare dai, che poi devo aiutare Luca a tradurre Euripide. Sembra che tu non abbia mai studiato il greco, porca miseria! Cosa facevi in classe, oltre a scolarti vodka ai frutti nascosto all’ultimo banco?”.

“Solo quello, amore. Solo quello”.

Rita, dopo aver assolto tutte le incombenze ancora pendenti, andò a letto alle due. Alberto russava e lei ne fu sollevata: era un po’ che non aveva voglia di fare l’amore e non le andava di fingere un malore anche quella sera. Si addormentò dopo aver digitato su Google: dilemma del porcospino di Schopenhau… ma non terminò neanche la frase che il telefono le cadde accanto: aveva il 16 percento di batteria e la mattina successiva lo trovò quasi scarico, ma non aveva tempo: doveva accompagnare i ragazzi a scuola.

Trascorse una settimana nella quale Rita evitò accuratamente di chiedere notizie di Marta all’amico. Marco sembrava sereno, e lei in fondo chi era per scuotere la superficie di un mare che si desidera calmo? Nessuno.

Fu solo dopo circa sei mesi che Rita incrociò Marta al supermercato. Erano entrambe in dubbio dinanzi alle zuppe surgelate – non sarà più sana se la cucino io? si chiedevano – quando si voltarono e si riconobbero. Dall’abbraccio istintivo al desiderio di condividere un aperitivo il passo fu brevissimo e si ritrovarono di comune accordo in uno di quei localini che affacciano sul mare, da cui in autunno sale una brezza sottile e odorosa.

“Non ti ho più vista. Alla festa di Laura ho aspettato che comparissi ogni momento. Avevo messo a soqquadro il bagno per trovare il phon ed ero pronta per lo sketch di cui avevamo a lungo parlato. Perché sei scomparsa?”.

“Dovresti chiederlo al tuo amico, non trovi?”.

“Sì, l’ho fatto, ma dice cose strane, ruba teorie filosofiche, cita il mondo animale, io non ci ho capito granché però tu mi piaci e volevo aiutarti. Sai che ho un grosso ascendente su di lui… se provassi a spiegarmi, saprei dove agire per provare a fargli cambiare idea!”.

“Rita, ma davvero sei così ingenua da pensare che tu possa intervenire con qualche risultato? Marco dà retta solo a sé stesso, non c’è spazio nella sua vita per i ripensamenti, sei stupida se credi diversamente. Quella sera mi ha chiamato mentre ero intenta a fissare la parrucca di Marylin e mi ha detto solo che preferiva non venissi. Tutto qua, senza ulteriori spiegazioni. Non ce n’era bisogno, erano giorni ormai che mi parlava in continuazione dei personaghi. No, non dei personaggi, sì, hai capito bene: dei personaghi! Come non li hai mai sentiti nominare, ma davvero? Strano, ero convinta ne avesse discusso con te, visto che la prima volta che li ha citati si riferiva alla tua storia con un certo Giulio. Va be’, vuol dire che dovrò cominciare dal principio.

I personaghi sono, a detta sua, dei personaggi ricoperti di aghi. Sono persone che, inizialmente da sole, cercano compagnia. Trovano, a gran fatica, qualcuno con cui sono in sintonia e iniziano a frequentarsi: vanno a cena fuori, chiacchierano al telefono a fine giornata e ogni tanto guardano il mare che si gonfia e si sgonfia a seconda delle stagioni. Una mattina si svegliano e iniziano purtroppo a comparire i primi aghi. Quando si baciano si urtano, provano dolore e sanguinano. Per reazione provano dunque ad allontanarsi, ma hanno un forte desiderio reciproco e si riavvicinano. Hanno ancora voglia di fare delle cose insieme: andare a un concerto, ad esempio, ma le spine sono sempre in agguato. Una volta, ad un candlelight per esempio, mi abbracciò, mi tenne stretta e mi diede un bacio leggerissimo e delicato sul collo (li adoro); poi si ritrasse d’improvviso con un gesto istintivo e collerico. Io chiesi spiegazioni con lo sguardo e lui indicò i miei orecchini, esclamando che ne sceglievo sempre di appuntiti e respingenti. Erano gli aghi che prendevano forma: stava iniziando la nostra metamorfosi.

Nei giorni successivi scomparve; io ero impegnata tra viaggi di lavoro e problemi vari di gestione familiare. Provai a chiamarlo ma rispondeva a monosillabi e allora preferii lasciar decantare  il suo malessere. Il sabato della settimana dopo mi invitò a cena. Disse che gli ero mancata e che aveva avuto un gran da fare, quindi non diedi importanza all’accaduto, però quella sera avvenne un altro episodio strano. Dopo aver preparato una cena a base di pesce e di candele sulle note di Erykah Badu, facemmo l’amore e mi chiese di restare a dormire da lui. Ci addormentammo avvolti in un plaid lilla che conoscerai bene – è sempre sul suo divano – e mi tenne stretta per ore. Diceva di avere freddo e che sentire il mio corpo avvinto al suo era in grado di acquietarne il tremolio, ma al mio risveglio non c’era più.

Lo trovai all’alba in salotto. Ancora una volta senza parlare, gli chiesi spiegazioni e lui mi rispose che non avevo tolto le forcine dai capelli e lo avevo punto. Erano gli aghi, li sentiva ancora, ma io non avevo nessuna forcina tra i capelli quella sera. È continuata così ancora per qualche settimana, fino alla festa di cui mi chiedi spiegazioni. Gli aghi si moltiplicavano di giorno in giorno. Iniziai a non indossare più orecchini né bracciali né collane; lasciavo i capelli sciolti e eliminavo da casa qualsiasi oggetto appuntito. Preferivo le forme morbide e coprivo qualsiasi spigolo come si fa nelle case in cui circolano bambini, ma non servì a nulla. La sera prima della festa andammo a una mostra di Salgado, il nostro fotografo preferito. Fu davanti ad una delle più belle immagini di “Amazonia” che, dopo avermi cinto la schiena con quelle braccia che ormai conoscevo a memoria, si ritrasse ancora una volta. Il pretesto fu una cintura che lui stesso mi aveva regalato e che aveva delle piccole borchie in superficie. Ero disorientata, ma avevo capito tutto.

Non l’ho mai più visto da allora.”

“Cosa avevi capito, Marta? A me sembra la storia di due psicopatici, hai consigliato a Marco un buon analista? Ho tanti numeri, sai che sono stata in terapia per anni, dovrebbe andarci anche lui. E pure tu, se mi posso permettere, che assecondi le follie di un finto sarto che non ha mai maneggiato un ago in vita sua!”.

“Marco aveva ragione sul tuo conto, Rita. Mi aveva assicurato che non avresti capito. I personaghi li inventiamo noi, mi pare fin troppo scontato che non esistano. Ci pungono anche se sono apparentemente innocui. Ci fanno del male, anche se stiamo bene con loro, anzi… quanto più stiamo bene con loro più ci fanno del male. Li allontaniamo per questo motivo: li riteniamo pericolosi. Ci attraggono come calamite, ma ne abbiamo paura. Temiamo il momento in cui si stancheranno di noi, e allora li ricopriamo di spilli per avere un pretesto per allontanarli. Una volta distanti però ci mancano e facciamo di tutto per rivederli, e in questo modo ci pungiamo ancora. Le ferite ci ricordano il motivo per cui ce ne siamo separati e quindi ci sentiamo costretti a guarire. Prendiamo la più grossa pietra nei dintorni e ve la posizioniamo sopra; in quel momento cessiamo di pensare alle minacce esterne, alle insicurezze, alle ferite. Sentiamo freddo, è vero, ma in fin dei conti basta comprare una coperta in più e il gioco è fatto. Sono scelte. Gli aghi pungono e nessuno vuole soffrire deliberatamente, capisci ora? Marco diceva che anche tu sei stata un personago per Giulio ”.

“No, non capisco. Continuo a ritenerla un’idiozia. Qual è il motivo per cui due persone che stanno bene insieme e potrebbero amarsi devono stare lontani? Non ha senso!”.

“Io non lo so se ha un senso, Rita. Rispetto semplicemente l’idea di Marco. Forse si sbagliava su te e Giulio: magari per lui era diverso, era stufo della situazione, non ti amava più ed era davvero giunto il momento di separarsi. Conosci tu la verità! Ora devo andare: Valentina mi aspetta, andiamo a vedere un film al cinema, anzi… se ti va di venire con no…”

“No, no. Mi ha fatto piacere vederti, un po’ meno sentire questa storia assurda, spero che tu sia davvero convinta di ciò che dici e non stia soffrendo, io starei malissimo al posto tuo”.

“Soffrire? E perché? Si soffre per le cose che tentiamo di modificare senza riuscirci, non per quelle che sono già scritte da secoli di filosofia. L’uomo non ha grande capacità di azione di fronte ai personaghi!”.

“Sarà…”.

Le due si congedano e Rita, alquanto perplessa, sceglie di tornare a piedi. Si è fatto tardi e tre chilometri sono tanti, ma non ha nessuna voglia di rincasare con la mente in stato d’assedio.

Lungo la strada, all’altezza del bar che vende i dolci più buoni del Salento, si ferma per una pausa. Si siede in un locale appartato ed estrae dalla borsa il portafogli: ha una tasca sul retro che non apre mai, “la tasca dei segreti”.  Dal biglietto piegato quattro volte si affaccia il numero di Giulio, associato al finto nome “orologiaio”.

Il telefono squilla due volte, tre… al quarto trillo quella voce mai dimenticata risponde: “RITA!!!! Sei tu?”.

“Giulio, ascolta… io ero ricoperta di aghi perciò sei andato via anni fa senza dirmi nulla? Ti prego, ho bisogno di sapere la verità!”.

“Schopenhauer, eh? Domani prendo il primo volo, devo parlarti, dovevamo farlo prima. Ti amo, non ho mai smesso di farlo.”    

A Vincenzo, che è un disastro nelle parole crociate, ma che in filosofia era mille volte più bravo di me.

Grazie.

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Rallenta

“Ma perché, mi spieghi perché mi hai ferita?”
“Scusa, dici a me?”.
“Vedi qualcun altro qua intorno, scusa! Ci siamo solo io e te! Perdo sangue, hai intenzione di aiutarmi o anche tu vai di fretta come tutti ultimamente? Almeno riparate ai danni che commettete, maledizione!”
“Senti, capisco che tu sia nervosa, a tutti capitano le cattive giornate e sì, lo vedo anche io che stai sanguinando da una gamba, ma che posso fare, scusami… guardami: non ho le mani, come avrei potuto ferirti?”.
“Sempre a cercare scuse! Non fa niente, dai, capita, ma dimmi almeno come fare per arrivare al più vicino Pronto Soccorso!”.
“Non puoi! C’è una competizione di auto stamani in costiera, le strade son chiuse, conviene che torni verso casa tua!”.
“E tu come fai a sapere che non vivo qua? Ci siamo appena conosciuti!”.
“Nello stesso modo in cui ho potuto ferirti senza averne alcuna intenzione!”.

Poco convinta, risalgo in auto e sbatto la portiera. Sento un “Ahi”, ma ci presto poca attenzione, voglio arrivare presto: credo che la ferita richieda dei punti. In farmacia me lo confermano, e allora provo a raggiungere l’ospedale, ma lo sconosciuto aveva ragione: non è possibile. Allora tiro un sospiro, mi animo di coraggio e parto. Dovrebbe volerci all’incirca un’ora.

Arrivata in città, il medico del Pronto Soccorso bypassa i punti. È nervoso? Va di fretta anche lui? È una ferita da poco conto? Dal referto non pare, ma non pongo ulteriori domande. “Si strapperebbero, la pelle è troppo sottile”, mi bacchetta all’ultima, e desisto: d’altronde di mestiere non faccio la rubamestieri.
Torno a casa dolorante e cominciano dei giorni lunghi lunghi, in cui non so bene che fare con questo squarcio che sembra un’apertura in una galassia rossa. È domenica, che giorno da sfigati per farsi male, il giorno in cui anche il Signore riposa, il giorno di quelli che hanno i santi in Paradiso, il giorno… Ma dai, ho anche io i miei santi! Eccolo, il primo: Fabio, il chirurgo che non dorme mai.
“Una cura c’è”. “E allora perché fa così male?”.
“Lo capirai”, mi sembra che sussurri una voce: “Sappi attendere”.

Ora che ci penso, Fabio è solo il secondo, anzi no, il terzo, anzi no, il quarto santo di questa giornata! Ho visto i primi due tenermi compagnia al telefono a fasi alterne, in quelle curve che non finiscono mai. Il terzo raggiungere di corsa il Pronto Soccorso, quasi prima che arrivassi io. Ha in mano una pizzetta nel caso il mio codice verde dovesse diventare acromatico, e negli occhi un po’ di sana preoccupazione, che non diventa mai allarmismo. “Ok, un’altra. Niente paura, che vuoi che sia, abbiamo visto di peggio in questi ultimi anni!”.

Nei giorni si susseguono tanti santi: hanno le spoglie di una focaccia fatta con le proprie mani; quelle di un torroncino Strega o di mille contorni scelti con cura; si travestono di voci che ti fanno compagnia al telefono, di messaggi caldi in un inverno che stenta a diventare freddo; hanno la faccia del mio papà, felice come un bambino nel tornarsi a prendere cura di me. Hanno le sembianze di un telefono usato, che a me sembra il più nuovo tra i nuovi; di pacchi di medicine che non mi sono mai sembrate così curative; della connessione wifi che ha ridato la musica al mio fungo Sonos, che pareva essere diventato commestibile, privato delle note.

Hanno le fattezze di una donna piccola piccola, che fa con cura tutto quello che le dico mentre osserva scendere delle lacrime imprigionate: mette acqua, disinfetta, taglia, mi osserva senza mai dire una parola di troppo. C’è chi piange, si dispera, si lamenta, getta ingiurie: noi ci hanno rivestite col coraggio. Stringiamo strofinacci nelle labbra e canticchiamo tra i denti, soffrendo a nostro modo.
Non si parte a Capodanno: è arrivata l’ennesima tassa da pagare. Pazienza, coraggio!
La storia con Carlo non va, è agli sgoccioli. Pazienza, coraggio!
La mia ha superato anche gli sgoccioli. Pazienza, coraggio!

E poi si va: la ferita ora è pulita. A terra in bagno ci sono cadaveri di garze, bende, cerotti, saponi neutri, spugnette, cloredixina e acido ialuronico. La guerra è finita: abbiamo vinto noi. E mentre ripuliamo, io sto già pensando a cosa doverti preparare, donnina mia, perché tu sai, perché tu sei. Piccola piccola. Grande grande.
Mi guarda mentre smetto di zoppicare all’improvviso e mi avvio velocemente in cucina; so che mi vuole troppo bene per pensare che io sia Keyser Söze.
Spritziamo ingannando l’orticaria: che venga anche lei stasera, non ci sottometteremo di certo negandoci un piacere. Lo spritz è rosso, curerà anche l’anemia. Pazienza, coraggio!

È passata un’intera settimana e ancora non ho capito cosa voleva dire quello sconosciuto domenica scorsa. Oggi è lunedì e sto tornando a lavoro, sono felice, mi è sembrato di rivivere una parentesi Covid, quella che anche se la sciogli, l’equazione non si risolve mai.
Esco di corsa come sempre. Come sempre stracolma di libri, di pensieri per i ragazzi, dell’ombrello che stamani piove, degli spiccioli per il caffè.

“Allora non ci siamo spiegati proprio!”.
È quella stessa voce, la riconosco. “Ahi”, mi dice quando sbatto la portiera per ripartire.
“Scusa, ma che intendi? Ma chi ti conosce!”.
“Come sei stata questa settimana?”.
“Male, cioè… bene, cioè… male ma anche bene, non lo saprei dire con certezza. Ma tu chi sei?”.
“Visto che hai le idee confuse, ti dipano io la nebbia. Avevi bisogno di rallentare, ecco svelato il mistero. Non puoi fare tutto da sola, nessuno può. Per i primi giorni hai pensato che stessi perdendo tantissime cose, e invece le stavi ritrovando. Da quanto tempo non accendevi tante candele profumate per casa? Da quanto non ti concedevi il lusso di lavorare ai documenti di scuola, inframmezzandoli con una tisana, con un libro di poesie, con quella canzone di Allevi che ogni volta devi cercare perché non ricordi mai come si chiama?”.

“Tantissimo, non me lo ricordo più. E avevo perso, lo sai, l’abitudine di aiutare gli uccellini. Sì, aiutarli! A superare l’inverno. Quando ero piccola, mamma svuotava sul balcone le briciole e poi mi sgridava se arrivavo d’improvviso facendo baccano: gli uccellini infatti scappavano al più piccolo rumore e non tornavano più. Tutte queste sere ho mangiato smollicando il più possibile e ho sparpagliato le briciole sul balcone. Appena mi svegliavo, l’indomani, loro erano lì, ed io, silenziosissima, mi fermavo – sì, mi fermavo, che bella parola!- ad osservarli.

Era il mio momento di ricongiungimento al creato, il modo che mi ha lasciato lei per empatizzare con la natura, per fare del mio piccolo pezzo di mondo un piccolo pezzo migliore di mondo. Non lo facevo da un po’, hai ragione, torno sempre troppo stanca la sera. Ma aspetta un attimo, tu sei…”
“Sì, sono io, ti avevo detto che non ti avevo colpita di proposito quella mattina, io non ho mani. A ferirti invece sei stata proprio tu: mi hai tirata in maniera forte, distratta, maldestra, come tutte le persone che fanno le cose pensando già alla successiva. Senza amore, senza attenzione, senza cura. Io non ferisco le persone, loro sono già brave a farlo da sole, non hanno bisogno di una portiera.
Rallenta. Non aver bisogno di ferirti per farlo.
A più tardi”.

Grazie di cuore a tutti: questi giorni non sono ancora finiti e già mi sento stracolma di debiti, ma – mi risponderebbe qualcuno – l’amore è gratis. Grazie a lui, ancor di più.

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Pensieri

Presente

La presenza nella vita degli altri è un affare complicato. Soprattutto di quelli autonomi, per niente allarmisti, che dicono sempre: “Va tutto bene”. Quelli che arrossiscono, farfugliando poche parole confuse quando gli chiedono di sé.

La presenza non si prende in appello. Non è un urlo dato a prima mattina in risposta a uno stimolo. È esserci senza un richiamo, così, spontaneamente, anche nell’assenza. È stare seduti su quella sedia, anche se non ci siamo.

La presenza è roba difficile nei tempi odierni. Corriamo, andiamo più veloce del vento, e a volte ci incrociamo senza neanche osservare il viso di chi ci è di fronte. Ha dormito? È preoccupato? Avrà ricevuto una notizia dolorosa? Che sono quelle macchie sul viso ? Le aveva l’ultima volta che l’ho visto?

E invece no. Stiamo pensando alla carne da ritirare; a quale figlio dover andare a prendere; al ritardo che ci allungherà i tempi di uscita dall’ufficio; allo studio del medico di base che chiuderà a breve.

La presenza oggi è un miracolo. A casa tutti bene, posso andare a dormire sereno, il tetto ha tenuto. C’è tempesta fuori, come potrei accorgermi anche di cosa succede agli altri? Hai visto mai il corridore di una maratona che si ferma a guardare a pochi metri una farfalla con un’ala spezzata? O nella finale degli ATP il tennista avvertire il cinguettio soffocato di un uccellino? Noooooooo, siamo atleti, non c’è tempo. Dobbiamo vincere. Siamo i campioni della sfida tra quattro mura; i detentori della felicità microcosmica; i pluripremiati che mai premieranno. Non abbiamo tempo pure per te.

E quando ci sorprenderai, indignandoti per la prima volta sul serio per la nostra assenza, ci affanneremo a rispondere: ” Io? E che ho fatto?”. Beh, lì c’è il vero significato della parola distanza.

Fare attenzione è un diktat. Con un pennarello indelebile scrivete sull’involucro della vostra persona: “Fragile, maneggiare con cura” e andatevene a spasso, esibendolo. Intorno a voi, soli, pochissimi.

Sono quelli giusti, gli unici per cui ne valga la pena.

Presente.

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Racconti

Grottescamente carezze

Trascorriamo poco tempo insieme.

La vita a quaranta, cinquanta, richiede produttività, impegno, e noi produciamo e ci impegniamo. Tu produci dobloni ed emozioni insieme; io mi limito alle emozioni, con i dobloni non ci ho mai saputo fare. Spesso il nostro filo è mamma: mi piace ricordarla con te perché scopro sempre qualcosa che non sapevo o che avevo dimenticato.
Oggi siamo in giro per lei.

Anche al cimitero vigono le regole; se regnasse l’anarchia diventerebbe velocemente la Foresta Nera e tutti spingerebbero qualche bottone per avere la tomba in prima fila, come nel più gettonato dei lidi turistici. Noi alle regole crediamo e allora andiamo a comprare le piantine che, in un unico vaso, ridaranno decoro e omogeneità ai sepolcri. Il vivaio non è lontano, ma l’orcio che ci portiamo dietro sul motorino è enorme e ho la sensazione di stare dietro a un ubriaco: sbandiamo un pochino, e il pensiero vola a quel terriccio sotto la chiesa che in una mattina di tanti anni fa mi sorprese a culo a terra insieme a te. Là scoprii che pure tu potevi cadere.

Mi tengo forte mentre cerchi un asset difficile da sostenere e arriviamo al vivaio. Ma… dove sono le piante? È 9 novembre, perché già ci appaiono le renne luminose? Aiuto! I bambini ci circondano, mentre noi, accecate dalle luci di Las Vegas, corriamo a cercare le creature verdi. “Sono state spostate di là”, dice un commesso dall’aria gentile con la pettorina “Green Village”, mentre mandrie affamate divorano tranci di pizze innaffiate da fiumi di coca-cola.

Siamo felici di vedere che la direzione indicata è lontana dalla folla, ma le piante sono sfortunatamente al buio e le scegliamo con la torcia dei nostri telefoni, sicure che alla luce saranno esattamente il contrario di ciò che avevamo intenzione di scegliere. Due ragazze sorridono a queste nostre consapevolezze espresse ad alta voce e tutte e quattro esplodiamo in una sonora risata. Alla luce le piante sono belle, invece. A mamma piaceranno, avrà riso della nostra tenacia, della mancanza di esitazione, del problem solving spiccato e mantenuto anche nelle situazioni più grottesche.

A casa il vaso si palesa per le sue misure sproporzionate e occorre comprare ancora chili di terreno. Pesa un accidenti nella salita verso il regno della bella morte, ma non ci lasciamo cogliere impreparate: a cosa serve aver traslocato tante volte, se non si è imparato ad aver sempre a portata di mano una busta gigante Ikea?

Come due equilibristi arriviamo in cima. C’è poco spazio per una preghiera; ci stavano aspettando e non ci si sottrae a chi ha cura della persona più importante della tua vita, anche se non c’è più: sarebbe un anatema. Sembra tuttavia che non ne abbiamo indovinata una stamattina e, nonostante ci sia il sole, piovono critiche da ogni dove; niente paura, abbiamo gli ombrelli adeguati: il nostro inscalfibile buonumore.

A completare il quadretto pirandelliano, si avvicina un tizio; chiede chi sia quella donna davanti alla cui fotografia sono inginocchiata. Mamma! Ma tu lo sapevi che esistono “i guardoni da cimitero”? Noi no.

È tardi, fuggiamo, inizia la Messa. Un po’ di sana e quieta meditazione ci attenderà la prossima volta. Forse. Mamma non ci ha insegnato bene a dire di no; d’altronde lei stessa non lo sapeva fare, come avrebbe potuto insegnarlo a noi? L’incapacità di pronunciare questo monosillabo ci vede protagoniste, di lì a poco, in un happening post-messa tra vecchine, caffè e paste di mandorla. Siamo in leggero imbarazzo e le nostre vesciche stracolme reclamano un orinatoio, ma non osiamo chiederlo. Eppure dovremmo avere pochi liquidi in corpo: ne abbiamo appena versati una quantità infinita, in forma di lacrime, nell’ascoltare un’omelia che sembrava essere pronunciata da Gesù in persona.

Ogni volta che ascolto questo prete penso che vorrei clonarlo, portarlo a spasso con me attraverso le strade della mia aggressiva città, ed interrogarlo come un oracolo su tutte le domande a cui non so rispondere. Cioè, sempre. Me lo immagino, bellissimo com’è, con questo suo sorriso rassicurante che esibisce senza sfoggio anche sull’altare, diventare liquido, come una camomilla, e dirmi di berlo, tanto non c’è assolutamente niente di cui preoccuparsi. Tutto è funzione di qualcos’altro, basta saper attendere che cambi forma.

E mentre ti aspetto che torni dell’Eucaristia, che per la mia pigrizia e non per i miei peccati -almeno spero- non posso condividere con te, scopro che anche da adulti si possono desiderare le coccole. L’idea che sia più naturale farle che riceverle dopo una certa età, mi appare allora per quello che è: un regalo alle convenzioni, al tempo che scorre, ai ruoli disegnati e designati dalla società. In altre parole, una sfacciata bugia.

Provo ad intonare una canzone di cui ho imparato le parole da bambina, ma che mi disorienta ogni volta cambiando la melodia, e tu, che invece le conosci tutte, cantando cantando, con nonchalance mi riempi la testa di carezze. Mi sento un bambino che ha appena finito da solo tutti i compiti o un cane che ha riportato con maestria la pantofola, ma sono stata in silenzio e immobile, non so perché le sto ricevendo.

E in quell’istante capisco: alcune persone passano attraverso di noi, come Whoopi Goldberg in “Ghost” e trovano i gesti più adatti per farci sentire al sicuro. A volte sono carezze. Altre volte è un frigo al ritorno da lavoro pieno di pietanze pronte, che non abbiamo cucinato noi. Si passa anche attraverso i muri per amore, proprio come Whoopi.

L’autostrada scorre veloce e noi sbocconcelliamo una brioche di cui ci affanneremo senza successo a far sparire tutte le tracce. Francy ci scoprirà subito.
Mi tornano in mente quei sedili posteriori su cui ho svolto decine di temi al ritorno dalle vacanze anche per te, che avevi sempre un mal di stomaco e di curve che non te lo consentivano.

Lo sapevo che mentivi, sorella, te lo dico ora. Mi facevo ingannare perché sottraendoti mi stavi insegnando a scrivere. L’unica cosa che mi calma quando il pavimento vacilla.

Ah, non è l’unica: l’altra sono le tue carezze inaspettate, l’ho scoperto oggi.


Ti voglio bene.

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Pensieri

Stress

Amo profondamente tutte le persone e le cose che fanno parte della mia vita: le ho scelte.


Amo la mia famiglia. Tutti quelli che ci sono e soprattutto quella che non c’è più: mi sta vicino sempre col pensiero e col cuore, qualsiasi cosa mi accada. Per me c’è ancora, la sento.


Amo i miei alunni, uno per uno. Qualcuno mette e ha messo a dura prova la mia pazienza e la mia perseveranza, ma – se ci penso bene – sono quelli che amo e ricordo di più.


Amo tutte le madri dei miei ragazzi. Mi pongono a confronto con la madre che non sono stata, con quella che avrei potuto essere e con quella che ogni giorno provo a diventare con la fantasia.


Amo le mie sorelle: la vita me ne ha regalate cinque. Ognuna di loro mi ricorda che il sangue, quello vero e quello “trasfuso”, non smette mai di scorrere: rosso, fosforescente, vivo, generoso e zampillante, anche senza ferite.

Amo il mio lavoro: mi ricorda che l’ho scelto perché mi consente di divenire uno strumento per migliorare la società. Non avrei avuto nessun significato come essere umano se ne avessi scelto un altro.


Amo gli uomini che ho avuto e che ho. Qualcuno la sorte me lo ha donato senza meritarlo e a qualcun altro sono stata donata senza che mi meritasse, eppure tutti mi hanno insegnato qualcosa, e non ce n’è stato nessuno nelle cui braccia, anche solo per un attimo, non mi sia sentita al sicuro.


Amo i miei reni, pure se non funzionano bene: mi ricordano quei puzzle che da bambina non riuscivo a finire. Prima o poi arrivava il guizzo e la figura prendeva forma: reale, concreta, armonica, come un organismo perfettamente funzionante.


Amo i miei amici: quelli a cui confido tutti i miei pensieri e quelli a cui ne racconto pochissimi, a volte senza parlare. All’improvviso, di nascosto, non richiesto, arriva un caffè, un file o un sorriso che vuol dire solo: ti voglio bene.


Amo lo sport e le persone che mi insegnano a praticarlo. Qualcuno di loro lo sa già, qualcun altro deve ancora scoprirlo. Tutti mi hanno lasciato un movimento, una voce o una canzone che, ripensati, mi trasmettono vitalità.

Ogni singola cosa nella vita di qualcuno di noi è fonte di stress.
A volte è sotterraneo, altre volte si manifesta; in ogni caso serve a ricordarci che avvertiamo le cose in maniera profonda, che le ascoltiamo in maniera profonda, che le viviamo in maniera profonda, e che se fossimo superficiali non piaceremmo alle persone che siamo voluti diventare, e forse neanche a quelle che ci amano.


Voglio amare perciò anche lo stress. È il mio sforzo, il mio modo di stare al mondo, il mio tentativo di fare tutto al massimo delle mie possibilità, la mia insaziabile ricerca di essere la versione migliore di me.
Se ci sono riuscita o ci riesco anche in minima parte, non devo augurarmi che se ne vada, non devo chiedergli di scivolare via, ma piuttosto di restarmi appiccicato come un’ombra: ne imparerò a colorare i contorni affinché non mi appaia mai vestito di nero.

Prima o poi anche lui mi sorriderà.

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Pensieri

Sono quello bravo

Sono quello bravo.

Quello che non ha niente da fare e lavora anche per te

perché tu sei troppo impegnato.

Sono quello bravo.

Quello che si rende disponibile quando non tocca a lui,

perché tra le tue mani ci sono le sorti dell’umanità.

Sono quello bravo.

Quello che aspetta in un angolo che trovi un momento per lui,

perché tu hai mille figli, mille coniugi, mille padri, mille madri a cui badare.

Sono quello bravo.

Quello che è figlio unico, single, senza problemi, senza prole,

insensibile ai mali del mondo e ciononostante sempre in prima fila a risolvere problemi, i suoi e quelli degli altri.

Sono quello bravo.

Quello che sulla carta lavora mezza giornata, quello che si aggiorna,

quello che ha problemi di salute ma li tiene per sé,

perché tu sei più stressato e più malato di lui.

Sono quello bravo.

Quello che passa sulle offese serpeggianti, quello che fa finta di non vedere, quello che si lascia apparentemente gabbare,

perché ci sei già tu a lamentarti al posto suo, e a scatenare polemiche per ogni inezia.

Sono quello bravo.

Quello con i nervi che riemergono in sembianze strane perché alle rotonde gli piace rispettare le regole di precedenza; 

tu invece le ignori: hai delle priorità più importanti di quelle dettate dal Codice della strada.

Sono quello bravo.

Quello che non sa dire di no,

mentre tu, piroettando, ti sottrai a qualsiasi affare non riguardi squisitamente il tuo microcosmo.

Sono quello bravo.

Quello che ti cede il posto alla cassa, abbozzando un sorriso.

Che sbadato, non hai notato la fila: hai un appuntamento improrogabile.

Sono quello bravo.

Quello che non si sa difendere, quello vulnerabile, quello senza corazza,

perché tu gli hai rubato la tuta mimetica, la pistola e finanche l’elmetto.

Sono quello bravo.

Quello che in silenzio cerca di esaudire anche i tuoi desideri, mentre tu sei impegnato a sventolare placidamente la tua bacchetta magica.

Sono quello bravo che si è stufato di essere quello bravo.

ANCHE SOLO PER UN GIORNO,

DIVENTA L’ALTRO.

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Pensieri

Intermittenze

Scompari e riappari.

Riappari e scompari.

Raccontami ancora una storia, la stessa di sempre che ogni volta sembra diversa.

Strizzami l’occhio in quella maniera che mi strizza anche il cuore.

Perdonami se non riesco a venirti a cercare in quegli anfratti troppo bui,

ma apprezzami tutte le volte che la spelonca si apre e sono lì fuori ad attenderti.

Dispensami consigli: ne ho ancora bisogno.

Non mi lasciare a secco di ramanzine: mi servono per capire che non sono grande abbastanza.

Abbi il coraggio che manca a me quando traballo.

Resisti alla vita quando si improvvisa schiaccianoci.

Mostrami il mondo animale, che nessuno lo conosce meglio di te.

E quello delle piante, che muoiono non appena scompari per andare non so dove.

Abbracciami quando penso che nessun uomo lo abbia mai fatto davvero bene.

E bevi, quando hai sete, alla fonte della famiglia, che tanto quella non si prosciuga mai.

Non trascurare il potere che hai sui tuoi cari, anche quando pensi di non averne più nessuno.

Raccomandami di non correre e di non fare imprudenze: me lo ricorderò quando non ne potrò più di stare al volante.

Dai luce fissa alle intermittenze.

Sii mio padre, perché non potrò mai stancarmi di avere bisogno di te.

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Racconti

Persone di cioccolato

Ho sempre creduto alle stelle cadenti, forse perché mi è stato raccontato che nella notte del 10 agosto i miei genitori erano in spiaggia a cercarne una e, senza dirselo, avevano espresso entrambi lo stesso desiderio: che nascessi io.

Erano sposati già da diversi anni, ma un figlio non arrivava mai, così la mamma iniziò a mangiare sempre di meno, a parlare sempre di meno, a ridere sempre di meno… e i bimbi, si sa, per nascere hanno bisogno di calorie, di parole e di risate. Così pare che il papà abbia fittato quella palafitta sull’acqua, all’esterno della quale si erano dati il primo bacio. A quel tempo erano solo dei ragazzini, e di soldi per trascorrere la notte in quel luogo magico non ce n’erano abbastanza, così aveva rimediato. Aveva regalato alla mamma un vestito del colore del sole – nella foto mi acceca quando la guardo- e l’aveva presa in braccio per non farle bagnare i piedi: “Dobbiamo immergerci insieme dopo aver avvistato la più luminosa delle stelle!”, le disse.

Nella palafitta c’era una musica di violini e candele sparse in ogni angolo, sembrava che la stesse corteggiando di nuovo, e la mamma era finalmente tornata a sorridere, forse ero già io che le stavo tirando gli angoli della bocca, proprio come dice lei. Non sono mai entrati nel dettaglio di quello che successe dopo, ma deve essere stata una bellissima serata – chissà quante se ne contano così nella vita delle persone – e dopo nove mesi sono nata io, mi chiamo Stella. Come avrebbe potuto essere diversamente?

Ho i capelli dello stesso colore del vestito della mamma di quella sera, e gli occhi azzurri che tutti dicono riflettere il cielo da cui sono piombata giù.

Rido sempre perché da quella sera anche la mamma non ha più smesso di farlo e io la sentivo… i dottori che guardano nelle pance delle donne incinte non possono saperlo, ma noi sentiamo tutto quello che avviene lassù. Qualcuno dovrebbe dirglielo, così potrebbero mettere in guardia le mamme quando ci aspettano: “Mi raccomando, niente litigi, niente lacrime, niente parole ostili, altrimenti i bambini nascono arrabbiati con il mondo, e il mondo sta già messo parecchio male di suo!”.

Il mio sport preferito è la palla a volo e gioco nella squadra di scuola: non sono molto brava, sono bassina e arrivo a stento a muro, ma guardo tutte le partite della nazionale. Ho sognato più volte la mia giocatrice preferita, Paola Egonu; la scena è sempre la stessa: si abbassa e mi regala dei centimetri, in modo che quando la incontrerò dal vivo non avrò bisogno di uno scaletto per abbracciarla.

Ieri era la notte di San Lorenzo e sono andata con i miei amici a rinverdire la tradizione di famiglia: cercare le stelle. Sono grande ormai per stare attaccata ai miei genitori e poi il loro desiderio è già stato esaudito, ora tocca a me!

Sergio è poco distante e mi guarda a stento, non ha occhi che per Cristina e farei bene a concentrarmi sul fatto che ho sbagliato persona; quanto tempo se ne può inseguire una che non vuole essere catturata? Non sono mica Willy il coyote e anche se lo fossi, Beep Beep è sempre stato più veloce di lui.

Ora che ci penso, potrei chiedere alla stella cadente di fare come Cupido e di scoccare una freccia a Sergio e una a me, invece che a lui e a Cristina, ma mi ricredo: perché dovrei costringere una persona ad amarmi se non vuole? Che ragazzino becero e capriccioso doveva essere il figlio di Venere! Mica avere per madre la donna più bella della Terra ti assegna il diritto di decidere chi deve amarsi e chi no!

Mentre mi convinco che non sia il desiderio giusto, avvisto una scia luminosa, sarà lei, sono ore che la aspetto… eccola… allora… ti prego, ti prego, fa’ che la nazionale italiana domani vinca le Olimpiadi e che Paola segni la maggioranza dei punti, così la smetteranno di chiederle se è italiana. Si sa che chi vince non viene mai contestato. La ameranno tutti come la amo io!

Riapro gli occhi e vedo Sergio che si allontana con Cristina: la mia mente scatta una foto della scena, è disgustosa. Lui è a torso nudo – quando ha levato la maglietta?!?- e ha i capelli leggermente bagnati dalla brezza marina; lei indossa un bikini color bronzo e ha una mano appoggiata sul suo petto, come a dire: “Guardate tutti, è mio!”. Mi infastidisce quell’aria da ragazza viziata, ha lo sguardo di una che non ha mai dovuto lottare per conquistare qualcosa, tanto meno ora.

Sergio mi scorge e incrocia il mio sguardo deluso, non ho fatto in tempo a mascherarlo; ritorna indietro di qualche passo a recuperare il suo telo da mare e con quel pretesto mi accarezza la testa: “Stella, non è ora che rincasi? È tardi. Quando compirai diciotto anni, ti prometto che verrò a rapirti in sella a un cavallo bianco!”. Mi lancia uno sguardo malizioso e io vorrei urlargli: “Cretino, ne ho tredici ormai e certo non posso sapere dove sarò tra cinque anni! In compenso so benissimo dove sono ora, tu lo sai altrettanto bene?!”. Invece le parole non risalgono e uno smile deficiente si affaccia sul mio viso: lo sento, insieme al rossore, e penso che Madre Natura avrebbe dovuto regalarmi un altro colore della pelle, così non si vedrebbe. Una persona di cioccolato come Paola, così vorrei essere!

Sergio e Cristina si allontanano, ma io sono arrabbiata più con me stessa che con loro, e per distrarmi lancio lo sguardo all’orologio: cavolo, mancano solo dieci ore al match finale!

A mare oggi non vado: il telefono in spiaggia prende malissimo e Dario il bagnino non si decide a montare il maxi schermo se non in occasione delle partite della sua squadra del cuore… di calcio ovviamente. Spazio per altri sport non ce n’è, maledizione!

Resto a casa sdraiata sul divano e salto ad ogni punto della nazionale italiana: Paola è in formissima e papà mi ha promesso che appena la squadra torna in Italia mi porterà da lei; non ho chiesto nessun regalo per la promozione, anche se sono stata diligente quest’anno e ho preso parte al Parlamentino di scuola, un posto affascinante dove sorgono sogni piccoli piccoli con la speranza di vederli diventare grandi grandi ed arrivare tra gli scanni dei politici veri. Alle sedute abbiamo parlato di tutto: di come la prof ha messo a tacere quei due ragazzini che miravano alle merende dei più piccoli con una fionda artigianale; di quei soldi che sono stati rubati a Nielsen dalla cover del telefonino solo perché viene dal Perù; e dei disegni di Romeo e Giulietta: Ramsa ha disegnato Giulietta con i tratti orientali ed è stata dileggiata. La prof allora ha detto che noi possiamo disegnare i protagonisti dei romanzi, delle fiabe, dei cartoni animati e dei film come meglio crediamo, perché la fantasia degli altri non deve essere uguale alla nostra, altrimenti che fantasia è?

Mi sto distraendo e forse siamo al match point: non permetteremo agli Stati Uniti di colonizzare anche la palla a volo, lo fanno già con mezzo mondo, nello sport devono gettare la spugna! Ecco, Paola ha schiacciato, le americane ricevono ma non al meglio, ricreano l’azione, mirano al punto ma… Sììììììììììì!!!! La palla è fuoriiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiii!!!! Velasco è in campo, tutto il team è in campo! C’è chi salta, chi piange, chi esulta, e Paola è lì, stretta in quell’abbraccio bellissimo alla sua compagna, gli occhi chiusi e carichi di lacrime, i denti bianchissimi, quelle parole appena sussurrate che vorrei sentire…

“Papà, quando torniamo a Roma allora?”.

“Domani, amore, ho un impegno di lavoro, rientreremo qui martedì sera, ma appena le giocatrici tornano in Italia manterrò la promessa, ti ho dato la mia parola, non si transige! Ora va a festeggiare!”.

Colgo la palla al balzo anche se non sono in campo, e esco a far baldoria: qui ad Agropoli non c’è particolare esultanza, certo… hanno giocato in dodici, mica in ventidue… ma mi associo comunque in processione a qualche tifoso che sventola il tricolore; indosso la maglia numero diciotto e tengo in alto ben visibile la mia bandiera: raffigura Paola con le ali, le avrà di certo invisibili, non è possibile che riesca a saltare davvero così in alto!

È già mattina e Laura mi ha appena scritto: suo nonno non sta bene e sta trascorrendo le vacanze a Roma; è quindi la prima a vedere il murales realizzato da Laika in via Allegri sotto la sede del Coni, si trova a due isolati da casa sua. Non vedo l’ora di arrivare in città, voglio ammirarlo da vicino anch’io: dev’essere bellissimo! Mi piace anche la scritta italianità, mi fa pensare ad una nazione dove le persone di cioccolato non sono più ai semafori a vendere fazzolettini o nei campi di pomodori a raccoglierli per pochi spiccioli grondando sudore. Vorrei vederle in sala prof nella mia scuola, al posto di alcune cariatidi senza più passione, oppure nell’ufficio della banca dove lavora papà invece di quella signorina dai capelli con le meches che sta sempre incollata al telefono!

Ci siamo imbattuti in un bel po’ di traffico e si è fatta sera; papà dice che non possiamo tardare ancora di più per andare a vedere il murales, è tardi e lui è stanchissimo, deve riposare, domani ha la convention.

Non è vero che i padri non ci deludono mai, sono solo gli unici uomini che non abbiamo bisogno di perdonare, con loro la parola rancore non esiste.

“Ci andrai domani con Laura, Stella, non essere irragionevole, sono solo poche ore, il murales non ha mica le ali come la tua Paola, da lì non scappa!”.

E invece avevi torto, papà. Il murales è scappato! Sono qui di fronte e non c’è più, quello che sto guardando adesso è un imbratto, uno scempio, un orrore! Ti chiamo immediatamente, sono sola, Laura è dovuta correre in ospedale dal nonno che si è aggravato. Voglio dirti che è colpa tua, che non mi hai portato in tempo a vederlo, che ieri sera avremmo dovuto fare la guardia a Paola, che aveva bisogno di aiuto, che almeno noi…

“Stella, ma ti sei bevuta il cervello? Sarà stato qualche pazzoide, vedrai che lo sistemeranno entro breve, ora devo andare, ricordi quel meeting importante di cui ti avevo parlato? Sta iniziando”.

Papà attacca e la sua ultima frase è: “Sono cose che capitano!”.

E no, papà, non sono cose che possono accadere, non nella nazione in cui voglio vivere io e voglio generare i miei figli dopo aver scorto una stella cadente! Tu mi devi dire frasi come quelle degli illuministi: che il mondo è uno e lo abitiamo tutti, che le nazioni travalicano i confini delle persone e le persone quelle delle nazioni, come ha affermato Laika con la sua didascalia. E se non verranno ad aggiustarlo? E se questo obbrobbio di colore rosa dovesse soggiornare a lungo per strada, senza aver conquistato il diritto di cittadinanza? Nessuno lo vuole, vado a intervistare la gente, sono sicura che piace solo al codardo che l’ha fatto!

Vado casa per casa, nessuno ha visto niente, sono venuti nella notte. Hanno sfruttato il fatto che la giornata si colorasse di cioccolato per estirpare le persone di cioccolato. E quel signore in tv dal sorriso sghembo che idiozie sta dicendo? Che alcune persone non corrispondono ai canoni dell’italianità? E quali sarebbero, i suoi? Uomo dalla testa larga e dallo sguardo cattivo? Mai, mai e poi mai!

Papà stasera è tornato tardi, mamma è rimasta ad Agropoli con Giovanni: è piccolo e ha bisogno di attenzioni. “Tu ormai sei grande, se non ti annoi a star da sola tutto il giorno, ti do il permesso di tornare con papà, ma solo per andare a vedere il murales, non farci l’abitudine!”.

Lo sento e lo raggiungo in cucina mentre mangia gli avanzi della pasta all’insalata che due mani amorevoli ci hanno preparato all’alba.

“Domani è martedì, si riparte ma non prima del tardo pomeriggio.”

“Papà, potresti comprarmi della vernice?”.

È troppo stanco, non ha capito, né mi chiede spiegazioni.

 “Stella, è tardissimo, scendo alle sette domani mattina, dove vuoi che trovi un negozio di vernici aperto il 13 agosto a Roma? Dai, andiamo a dormire, che mi attende una giornata impegnativa”.

Non è vero che i padri non ci deludono mai, sono solo gli unici uomini che non abbiamo bisogno di perdonare.

Bene, dovrò cavarmela da sola.

Vado in stanza di Giovanni e rovisto tra le sue cose: nei cassetti c’è una cifra smisurata di pastelli, di tempere e di pennarelli, sta imparando a colorare senza uscire dai bordi, io invece nei bordi proprio non ci voglio stare, non mi sono mai andati a genio, sono come delle prigioni e io voglio evadere. Non diventerò come quegli animaletti ritagliati che si attaccano negli album al posto giusto: se proveranno mai ad assegnarmi una casella, mi solleverò da tutti e quattro i lati con ogni forza, lo giuro!

Mi sono procurata diversi pennarelli color cioccolato, posso procedere. Aspetterò il crepuscolo, così darò meno nell’occhio.

Impugno il primo e comincio dalle gambe, restituisco loro il colore originario, quel cioccolato che le persone con il cuore lavato con la varichina non potranno mai assaporare. Ci pensi se al posto delle lavanderie industriali per gli abiti ci fossero delle lavapensieri? Basterebbe estirpare le idee nefaste dalla mente dei malvagi, infilarle nelle macchine, ripulirle per bene con tanto di ammorbidente, eliminare le scorie residue con la centrifuga e restituirle al mondo immacolate. E immacolate mica vuol dire per forza bianche! Significa pulite, tutto qui: pulite dalla lordura e dalla malvagità.

Sono passata alle braccia, non vedo l’ora di arrivare al volto, voglio disegnare anche il piercing, così sarà ancora più veritiero. Mi sento però tutt’a un tratto afferrare da dietro, e mi arriva un urlo, lacerante: “ MA COME DIAMINE STAI…”.

Mi immobilizzo, ho paura di girarmi, non lascio cadere il pennarello, ma il braccio rimane paralizzato a mezz’aria: “Mi scusi, la prego, mi scusi! Lo faccio per l’Italia: è un paese meraviglioso, non può essere rappresentata da un gesto così gretto; lo faccio per Paola, non si fanno soffrire in questo modo le persone che ci hanno regalato tanto; lo faccio per la gente qui intorno: ho bussato ad ogni porta, nessuno è d’accordo con un tale gestaccio; lo faccio per l’italianità: non ha confini, non ha colori, non ha…

Il signore molla la presa e dice soltanto: “Stella, ma come diamine stai colorando? Io e la mamma ti abbiamo detto milioni di volte che si devono rispettare i contorni, stare dentro i bordi, altrimenti la figura del disegno si perde! Dammi qua!”.

Papà prende di scatto il pennarello cioccolato dalle mie mani e inizia a colorare nei bordi, seguendo il perimetro del disegno di Laika. Sorride e io sono salva, non sono venuti ad arrestarmi, forse stanno inseguendo il tizio che ha rovinato tutto col colore rosa.

Non è vero che i padri non ci deludono mai, però sono più bravi di chiunque altro a colorare restando nei bordi, e se ci insegnano a inseguire la giustizia non è detto che la giustizia smetta di giocare a nascondino, ma noi saremo comunque in grado di scovarla in ogni dove. Sempre.

Vai Paola, sei libera ora.

A chi ha imbrattato il murales per Paola Egonu. Ti dedico il mio racconto, quanto deve essere miserabile la tua vita.

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Pensieri

Crac

Alla voce crac nel vocabolario si legge: “di origine onomatopeica, riproduce e indica il rumore di qualcosa che si rompe, che cade improvvisamente”. Ci sono poi numerosi esempi, desunti da immagini quotidiane, concrete e figurate, ma niente che si riferisca ai sentimenti. Strano. Sarebbe assai pertinente invece.

Quanti di noi sono in grado di riconoscere il suono di un crac nella propria vita? È nitido o bisogna usare uno stetoscopio?

Quando il cuore fa crac fingiamo spesso di non averlo avvertito. Ci mettiamo in piedi in allerta, come tutti abbiamo imparato a fare in tempi di frequenti scosse sismiche, e restiamo così per qualche secondo.

“Tanto poi passa” e tutto torna alla normalità. Tua moglie ti chiama per qualche incombenza; la tua migliore amica ha preso i biglietti del cinema per vedere quel film che avete desiderato tanto; tuo figlio ti aspetta in piscina per ritornare a casa dopo gli allenamenti.

Non c’è tempo per i crac, le valigie sono già dinanzi alla porta. Se ne parla la prossima volta. Forse.

Un crac ignorato è la genesi di un altro crac. Ci alziamo in piedi, restiamo vigili per qualche secondo e poi ritorniamo alla routine: la vita scorre… uguale a ieri e anche a domani.

Fin quando un giorno i crac non li avvertiamo neanche più: sdoganiamo l’impensabile, mastichiamo cicoria cruda come se fosse una zigulì, e facciamo dei nostri desideri un cumulo di macerie, che tanto la polvere va via con un semplice canovaccio.

E la aspettiamo, questa grandinata impetuosa che strazia il più bello dei giardini; un po’ di attesa, se ne va e tutto rifiorisce.

Sarebbe opportuno prendere delle decisioni quando captiamo i crac; provare a rimescolare le carte ad esempio, non sia mai che il settebello capiti proprio a noi e ci indirizzi verso il sole, tanto la pioggia prima o poi arriva comunque per tutti.

Sarebbe necessario scrivere di getto quando percepiamo i crac, come ci consiglia il terapista dopo un sogno arrivato nel cuore della notte che altrimenti non ricorderemmo mai: “Alzati, impugna la penna, scrivi, memorizza, rileggi”.

Nella descrizione dettagliata dei nostri crac ci sarebbero tutte le motivazioni necessarie a cambiare rotta in tempo, prima che giunga il terremoto vero e proprio. Dopo quello – si sa – è tutto più complicato.

Però noi non abbiamo riletto: “È tempo perso!”, “Va bene così!”.

O forse non abbiamo mai scritto: “Ma che sono queste cose da sentimentali?”, “Non mi piace leggere, figurati scrivere!”.

E poi ci sei TU che magari stai leggendo, e che i crac li hai descritti tutti alla perfezione, li conosci a memoria e li hai addirittura riletti più volte, però sei dannatamente ostinato nel tuo ottimismo: “Le cose si sistemeranno, la casa ha fondamenta solide, cosa vuoi che sia una trascurabile crepa nel muro?”.

E quindi una mattina che ti sei sbarbato fischiettando, le scarpe nuove ai piedi, e quel profumo che ti piace tanto, senti un crac fortissimo: l’intonaco si stacca e il cuore diventa bianco… ma come? Non lo disegnano tutti rosso fuoco?

La casa è crollata.

Ah? Come dici tu che ridacchi nell’ultima fila là in fondo? Da te è tutto ancora in piedi? Devo dirti una cosa importante, non farmi urlare, accostati, tendi un orecchio, ecco così… ora stai in silenzio, ascolta…

CRAC!

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Racconti

Spezzacatena

Esistono nomi facilmente riconducibili ad una regione, come il mio: Pasquale. Pasquale fa pensare ai vicoli assolati del sud; a un pallone scagliato con forza tra i meandri dei quartieri popolari; a una tavola attorno alla quale sono sedute almeno venti persone: i bisnonni, i nonni, gli zii, i nipoti, i genitori, i figli, tutti pronti a lottare per l’ultimo crocchè. E invece no, io non sono del sud.

Mio nonno lo era ed io ne porto il nome, gli occhiali e il sorriso. Ho 15 anni e non l’ho mai conosciuto. Mamma mi ha raccontato  che una notte di vent’anni fa è uscito con la barca e non ha fatto ritorno. Dicono che cercasse la pesca fortunata, doveva essere la svolta per la sua famiglia, ma il mare non era d’accordo e lo ha inghiottito. Da quando me lo hanno raccontato, sento l’immenso blu nemico, è come se ne avessi timore. So che non dovrei, non lo ha fatto di proposito, ma io penso che avrebbe potuto almeno lasciarmelo conoscere, se non altro presentare. Invece è come se mi avesse aperto un’onda nel petto, che a volte diventa uno tsunami e non mi lascia dormire.

Forse è anche per questo che mi piace Luna; ha un’onda tatuata sul collo e quando si solleva i capelli quell’onda si propaga e arriva dritta fino a me, in qualunque punto della classe mi trovi. La marea, in quel momento, come per miracolo, trova una stasi. Viaggia e scavalca i compagni annoiati, le spiegazioni mai briose dei prof, i pizzini che girano con le soluzioni sbagliate di quelle equazioni che a nessuno riescono mai, tantomeno a me, che sono intento a non farmi bagnare dalla mareggiata. Ciononostante, gli schizzi mi arrivano dritti in volto e penso a come sarebbe bello guardare Luna al quadrato: da una parte astro lucente in cerca delle sue fasi, dall’altra figura umana incorniciata da lunghi capelli biondi e occhi neri come la notte. Mi sono sempre piaciuti i contrasti di colori e lei sembra portarli tutti dentro di sé, come un paesaggio che cambia ad ogni istante.

Ultimamente sono parecchio silenzioso, è l’età – dicono – ma non so se essere d’accordo o meno. Mica siamo tutti uguali noi quindicenni, e meno male direi. Non mi trovo molto a mio agio con i ragazzi di classe. Ieri ho sentito Marco che narrava le sue imprese a letto con Mena, la migliore amica di Luna; era lì a dare dettagli sulla sua nudità, sulle posizioni che avevano visto su Internet e imitato, e sulle remore di lei a farlo per la prima volta, si sentiva insicura. Lui allora le ha detto che se non voleva concedersi l’avrebbe lasciata, perché in tante gli correvano dietro e non poteva certo perdere il tempo a corteggiare lei, che non era nemmeno così carina! Mena invece secondo me è bellissima: ha i capelli corti corti e può permetterseli solo lei che ha un profilo da copertina, e denti bianchissimi che sembrano provenire da un altro continente. Ha un po’ di chili in più, ma a me piacciono: le donano rotondità, non appare mai spigolosa. Ha un seno generoso che Marco sta mostrando in foto, brandendo come un’arma il suo cellulare, e allora mi allontano. “Che c’è Spezzacate’? Le nudità femminili ti ripugnano? Pazienta ancora un po’, che adesso arrivano le immagini della mia mazza, quelle ti piacciono sicuro! Dove vai, Spezzacatè? Stavo giocando, lo so che ti piace la figa, se no mica te stavo a mostra’ ‘ste foto! È che c’hai poco coraggio, perciò Luna non te la bomberai mai! Se non ti dispiace, un giorno di questi ci provo io! Ma che fai? Lasciami subit.., ti faccio nero!”.

Non lo lascio, vedo rosso. Immagino le foto di Luna in circolo per tutta la scuola e lei che piange. Parto come un toro verso il drappo vermiglio, ma il torero è più forte, anzi no, è un branco di toreri e io ora vedo solo rosso. Non ho raggiunto il drappo: è il mio sangue fluente che scorre caldo. “Questa me la paghi, Spezzacate’!”.

Mi avvio verso casa, elaborando delle giustificazioni credibili da rifilare a mia madre per il mento che continua a gocciolare, e allora penso ai cinquanta euro che ho nelle tasche: era il mio compleanno ieri e nonna me li ha dati, accompagnando gli auguri sempre nello stesso modo. La cifra è aumentata, ma il ritornello resta identico negli anni: “Pasquale, questi sono da parte mia e del nonno. L’ho sognato, dice che ti stai facendo grande e che ogni giorno che passa gli somigli un po’ di più”. Non mi piace dire le bugie, ma non posso raccontare la verità a casa: mia madre si preoccuperebbe troppo e io non voglio, ha già troppi pensieri per la testa da quando ha ricominciato a litigare con papà ogni sera. Vorrei fare come quando ero piccolo e tuffarmi tra di loro riempiendoli di baci tutte le volte che uno dei due urla, ma sopprimo l’istinto: ho quindici anni, mi sentirei ridicolo! E poi chi sono io per pretendere da loro che si amino ancora se insieme non sono più felici?

Sfilo perciò la banconota dalla tasca sinistra dei miei jeans e la straccio. Sì, lo so che è da idioti strappare i soldi e che avrei potuto nasconderli, ma io detesto dire le bugie. In questo modo, raccontando che dei ragazzi sulla via di ritorno a casa mi hanno accerchiato con un coltello e derubato, è come se non ne dicessi propriamente una. In fondo è vero: i cinquanta euro non li ho più. Dirò che ho fatto resistenza e che le ho prese di santa ragione. Mamma mi rimprovererà per aver rischiato succedesse qualcosa di peggio, pretenderà di andare insieme a fare la denuncia e io dirò alla polizia di non ricordare il volto degli aggressori. Ero troppo scosso, impossibile prestare attenzione alla loro fisionomia, mi crederanno.

Mamma si agita, la sua furia contro ignoti si leva fino al cielo e io mi sento un pochino in colpa, ma alla fine ho raggiunto l’obiettivo: si beve la storia, disinfetta la ferita accarezzandomi i capelli e mi spedisce a riposo. Quando fa così, mi fa sentire ancora un moccioso; come faccio a farle capire che sono grande ormai?

Il giorno dopo ho un gran timore di andare a scuola, ma mi rassereno. Marco e gli amici non badano a me e pare che la tempesta si sia esaurita velocemente, come gli acquazzoni di fine estate. A Luna è arrivata voce del pestaggio e delle motivazioni: mi lancia uno sguardo fugace e mi dice: “Sei la mia onda!”. Sono molto felice per questa cosa e la notte sogno di essere in sella ad un wind surf; accanto c’è lei che si tiene stretta a me e insieme siamo in equilibrio perfetto, cadremmo solo se uno dei due si spostasse; siamo talmente in sintonia quando siamo vicini, che lontani proprio non sappiamo stare.

Stamattina mi imbatto in un contrattempo: sto cercando i miei jeans rossi e sono in terribile ritardo, c’è la verifica di latino e non posso consentirmelo: la Iascone non concede tempi di recupero, deve aver imparato a contare solo fino a sessanta: sessanta minuti esatti, non uno di più. Chissà se era così intransigente anche prima di saltare il fosso che separa alunni e docenti. Sembra una belva affamata di secondi, soprattutto al momento della consegna, immagino sempre che prima di correggere i compiti li maciulli e poi li divori. Come riprendano forma cartacea, non saprei dire, d’altronde tutti i prof hanno un segreto! Mi piacerebbe che ce ne raccontassero almeno uno, ma niente… Credono che alzare muri e creare distanze sia la strada giusta per conquistare credibilità, invece basterebbe prendere un piccone e fracassarle quelle distanze… allora sì che conquisterebbero la nostra fiducia, altro che credibilità!

Spero di incontrare un’insegnante come la Borraci. Noa mi ha raccontato che il primo anno di Liceo soffriva di tricotillomania e si strappava peli e capelli come se non le servissero. La prof se n’è accorta e un bel giorno li ha portati tutti in giardino; ha disposto le sedie in circolo e ha posto una semplicissima domanda: “Chi di voi è felice?”. Nessuno ha annuito: chi guardava a destra, chi a sinistra, chi fischiettava, fin quando lei non ha detto. “OK, comincio io!”. Ha aperto agli studenti una finestra sulla sua vita che loro ritenevano perfetta; scoprire invece che non lo era li ha avvicinati. C’è voluto un po’, ma ora Noa ha smesso di sentirsi diversa. Non ha più quelle strane chiazze sul capo, che sembravano pozzanghere vuote di acqua e di senso e ogni settimana c’è una sedia per lei posta in circolo nel giardino di scuola, la vedo sempre quando passo. Dio, quanto la invidio!

Mi sto distraendo e i pantaloni rossi non sbucano da nessuna parte. Potrei prendere quelli blu, ma i rossi li indosso a tutte le verifiche da quando sono arrivato alle superiori, e non ne ho mai sbagliata una; mi sono convinto che valgano come una sorta di mantello portafortuna. Mi ci copro e divento infallibile.

Ok, ci rinuncio: sveglio mamma, anche se oggi ha il turno di pomeriggio. Lei solo può sapere dove sono. “Paco, sono nel ripostiglio in attesa di essere donati. Scusami, mi dispiace, lo so che sono come un amuleto per te, ma ieri devo aver sbagliato qualcosa nel lavaggio e si sono stinti, son diventati rosa, non credo che vorrai indossarli così!”. “Mamma, ma che dici? Sono bellissimi, io adoro il rosa!”. Intono la canzoncina di Pink Panter e lei inizia a cantarla con me: sorridiamo all’unisono. “Ricordi? Mi concedevi di vederne una puntata prima di andare a dormire, impazzivo per le sue avventure!”. Metto così a tacere le sue perplessità con fare convinto, anche se non lo sono affatto. Marco e i suoi amici mi prenderanno in giro, ma non posso partire sconfitto in partenza. Le schiocco un bacio sulla guancia – a breve dovrò dar fine anche a questa dolcissima abitudine, sono adulto! – e mi avvio verso scuola.

“Wow, avete visto la nuova alunna di 3 C?”. Non sono neanche arrivato e già sento l’alito di Marco addosso. “Pare sia la sorella del nostro compagno di classe. Si fa chiamare Pasqualina, ma gira voce che le piaccia più il nome Checca. E noi siamo famosi per le nostre doti di accoglienza: Checcaaaa, Checcaaaaa, Checca! Vieni qui e facci ammirare questi pantaloni della stagione Primavera/Estate fanciulle! Che bello stile! È esattamente della stessa tonalità delle coccarde che si appendono alle porte quando nascono le femmine! Di’ un po’ … e tuo fratello dove lo hai lasciato? Si è per caso trasferito in una di quelle scuole piene di frocetti che sono verso i Parioli? Ah, non lo sai? Eppure vivete insieme, vi somigliate come due gocce d’acqua, anche se tu hai addirittura più peli di lui!”.

In quel momento passa Luna e muoio di vergogna. Non voglio soccombere e allora mi lancio verso Marco e Diego con tutte le forze che ho, in cerca di una virilità che non ho mai sentito il bisogno di esibire. Colpisco Diego all’occhio e sembra che stia avendo la meglio, quando una specie di sibilo moltiplica i lottatori. Sono in sei e io da solo; neanche il tempo di rendermene conto e sono già al reparto di ortopedia con il naso fratturato. Cerco di trovare il lato positivo e, mentre mi medicano, penso alla verifica di latino saltata e alla Iascone che stavolta non potrà sbrindellare il mio compito prima di assegnargli una sufficienza stentata, che suona comunque come un miracolo.

Mamma ha gli occhi lucidi stasera; in ospedale le hanno raccontato tutto e sento su di me lo sguardo della delusione. Pare che dica: “Perché non me ne hai parlato? Avremmo trovato un modo per sistemare le cose!”. Come faccio a dirle che a 15 anni anche sorseggiare un caffè con tua madre al bar è un’onta imperdonabile; che darle preoccupazioni mi fa sentire ancora più inadeguato; che non voglio sentirla più piangere la notte, NON per causa mia.

Papà è andato via di casa dieci giorni fa; la tentazione di andare a infilarmi nel suo letto è forte, ma non posso, ho un’età da ossequiare. Nessuno di noi due chiude occhio e la mattina il messaggio di Luna mi raggiunge appena in piedi. “Paco, non aprire i social, non abbiamo bisogno di loro, non abbiamo bisogno di niente e nessuno io e te, solo di un’onda da cavalcare insieme!”. Sono parole bellissime, ma la curiosità mi domina sin dalla nascita e ovviamente apro i social. Su facebook c’è una pagina intitolata “Il ragazzo dai pantaloni rosa” e la foto profilo è la mia. Ho il naso rotto e sanguino. Sotto si rincorrono commenti monotematici: dall’appellativo di “Checca” a “Magari tutto questo sangue ti fa tornare rosso quel pantalone, brutto frocio che non sei altro!”. “Stai alla larga da noi, la frociaggine è contagiosa!”. “Che dici, ora cambi scuola? Qui non ti vogliamo, sei peggio dei lebbrosi!”. Qualche post dopo ce n’è uno in cui appare una foto di me e di Luna: siamo in palestra e lei mi siede accanto con un’espressione dolcissima. Sotto scrivono: “Persino la ragazza più bella della scuola ha compassione di te, ti guarda come un cagnolino abbandonato, dopo che hai provato a farla godere, ma non ti si è alzato! E certo, a chi mai verrebbe duro imprigionato dentro a dei pantaloni rosa?”.

Mi sento svenire e non respiro bene. Mio nonno mi viene in soccorso e penso al mare. Quel mostro blu tanto temuto stavolta mi calma e vado comunque a scuola, ma non mi riesce neanche di terminare il viale alberato che la circonda, che già studenti di ogni classe mi indicano: qualcuno ride in maniera spudorata; qualcun altro si tocca l’orecchio con insistenza, mentre i più ostentano con malcelato esibizionismo i loro pantaloni scuri e i teschi che decorano le t-shirt all’ultimo grido.

Ho capito, torno a casa, non sono in grado di affrontare una giornata così. Luna mi vede fare retromarcia e mi raggiunge, ma sono fuori di me e le dico cose irripetibili, voglio restare solo. So bene che così la allontanerò, ma almeno lei così sarà salva, non permetterò che mi voglia bene per compassione.

A casa non c’è nessuno: mamma ha accompagnato Luigi a scuola, è piccolo, frequenta ancora le elementari, piangerebbe subito se mi vedesse così. Sono sollevato che non ci sia. Ieri sera a cena li ho ingannati bene entrambi: ero allegro, come sempre, anche se a un certo punto ho notato che la mamma mi fissava il braccio sinistro; non credo si sia accorta dei tagli, avevo la felpa, e poi non mi avrebbe mai lasciato andare a dormire senza un interrogatorio. 

Luna mi raggiunge con un messaggio: “Le onde non sono fatte per arrendersi. Non ti infrangere. Mantieniti alto insieme a me. Ps: domani appuntamento insieme da Marzia alle 16? Sono arrivati gli smalti arcobaleno, mi sembrano l’ideale dopo questa pioggia torrenziale!😉”.

Non rispondo. Vedo tutto nero oggi, altro che arcobaleno! Nonno,  che dici,  vengo a cercarti al mare,  mi aspetti?

Mi stendo sul letto e la sciarpa è lì, mi fissa. No, inutile proviate a farmi credere che gli oggetti inanimati non abbiano vita, è una grande bugia.

È blu.  Se mi troveranno con questa al collo non diranno più che sono gay,  è un colore maschile. Che cosa avranno di tanto sbagliato i gay, da generare quest’alluvione di odio?  Proprio non lo capisco! Ma poi che ne so io a 15 anni della sessualità?  Sull’argomento c’è un silenzio assoluto: a casa, a scuola… ne ho parlato di più persino con Stefano, al mare, forse perché sapevo che non lo avrei rivisto. Che paradosso: ci si sente più al sicuro con dei perfetti sconosciuti che con degli imperfetti conosciuti. Forse perchè la distanza aiuta: offre la garanzia dell’inviolabilità dei segreti.

Sono molto stanco. Non fisicamente, è dentro che mi sento spezzato, lacerato. Come si fa a possedere un’identità se tutti intorno provano ad affibbiartene una? È così importante essere qualcosa di definito, non possiamo esistere e basta? Non siamo mica dizionari. Però ora sento di doverle spezzare queste catene, non possono imprigionarmi, nessuno di noi è nato per restare legato in eterno, meno che mai ad una visione sfocata di sé stesso.

Afferro la sciarpa del nonno, mamma l’ha donata a me, mi sembra il modo più adatto per ricongiungerci. Ieri ho provato con la busta degli indumenti sottovuoto, ma con quelle si trova sempre la maniera di sgusciare via dalla plastica e ricominciare a respirare.  La sciarpa invece posso legarla stretta alle scale di casa, manterrà. Ora ho 15 anni, non posso avere paura della morte. Devo chiudere questa pagina,  così chiuderanno anche quella sui social. 27 like sono pochissimi, ma a me ne sarebbero bastati la metà per sentirmi come mi sento. Non ho paura, ora che ci penso bene. Dove andrò la gente ride di cuore, non per schernire qualcun altro. Dove andrò, mamma, papà, Luigi e Luna non ci saranno, ma neanche i miei compagni di scuola e questa cosa mi solleva più di quanto le altre assenze mi angoscino.

Là terrò la sciarpa con me, blu come il colore dei maschi, blu come il colore del mare, blu come il colore del nonno. Racconterà delle mie origini, che saranno anche il mio approdo.

Spero che i jeans non si stingano ancora: ho cercato su Internet, non sanguinerò, diventerò solo grigio, non c’è pericolo che cambino colore anche loro, dunque.

Sono felice, sto andando a fare giustizia. La vedo bene già da quaggiù, riesco a leggerne i contorni: sono rosa.

Parlate di me, di quelli come me. Tenete occhi vigili e mani puntate sulla giustizia. Siate sempre pronti a spezzare ogni tipo di catena, non importa come, l’importante è essere liberi.

Pasquale

Ad Andrea, a Giovanni, ad Amanda, a Carolina, ad Alessandro, a Gabriele, a Vincent, a Megan. A tutti i ragazzi che ogni giorno incrociano le nostre vite e che non siamo in grado di aiutare. Tanta comprensione, tanto amore.

Che il cielo vi sia più soffice della terra. 

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La torre di Pisa parla

Sì, mamma, c’ero anch’io tra quegli studenti. Scusami, lo so che ti ho detto una bugia, non sono andato a scuola stamattina. Ho approfittato di quel tuo convegno a Roma… sei partita presto e speravo di parlartene stasera; tu saresti tornata tardi, stanca come spesso accade, ma sono sicuro che mi avresti ascoltato lo stesso. Avevo deciso già da giorni insieme a Luca, Sofia, Giordana e Giovanni, che non avremmo fatto finta anche stamattina che sia tutto normale. Non mi piace per niente questo mondo che ci state lasciando: si muove al contrario rispetto alle fiabe che mi leggevi da bambino, ti ricordi come ridevamo alla fine, quando il Bene trionfava? E invece, perché al di fuori di quei libroni colorati, in questo mondo che è sempre più in bianco e in nero, il Bene soccombe tutte le volte? I poveri in quelle storie diventavano ricchi; gli orfani trovavano una famiglia; i maltrattati venivano ricoperti d’amore, e invece ora? Dov’è il lieto fine? Com’è che lo abbiamo fatto scomparire, tu me lo sai spiegare?

La Torre mi guardava stamattina: sono sceso presto, poco dopo che sei partita, e ho fatto il giro largo. Ci sono passato davanti e poiché ho immaginato che fosse meno stanca di te – è pur sempre di marmo – ho posto questa domanda a lei e … non ci potrai credere, mamma, ma sono sicuro che si sia piegata ancora di più! Sì, lo so che gli studiosi dicono che è inclinata da sempre, che è colpa della geologia e che le tonnellate dei contrappesi di piombo l’hanno vista sopravvivere alla seconda guerra mondiale e a numerosi terremoti, ma secondo me quello che stiamo vivendo oggi deve aver scosso persino lei. Ha basi solide certo, tutti i colossi ne hanno bisogno, ma il troppo è troppo, mamma. Voleva dirmi questo stamattina, chinandosi ancora. Tu sostieni sempre che sono un idealista incapace di calarsi nella realtà, ma non è vero. Oggi l’ho dimostrato, anche la Torre mi ha dato la sua approvazione.

Fiero di questo segno, sono andato all’appuntamento con i miei amici, faceva freddo, era molto presto. Abbiamo fatto colazione al bar di Gino, anzi, scusami… passeresti a pagarlo domani? Avevo dimenticato il portafogli e volevo offrire io: oggi è il mio onomastico e io lo voglio festeggiare il motivo per cui mi chiamo Livio. Papà mi racconta sempre che ero bluastro quando nacqui, come quasi tutti i bambini prematuri, e che tu cambiasti all’ultimo il nome che avevate già deciso – Manuel – nella speranza che il mio colorito non rispondesse all’etimologia e mi donasse un carattere non astioso né livido, ma sereno e gentile. È proprio quello che è successo, mamma, e io sono sicuro che sia avvenuto per merito delle favole e dell’amore con cui sono stato cresciuto. A me non è mai mancato nulla e ho sempre dato per scontato che fosse così per tutti i bambini del mondo. Però, da quando mi lasciate usare Internet, e sono anni ormai, io lo so che non è così.

Sì, le guardo ancora le immagini della pagina Instagram di “Eye on Palestine”, mi dispiace di averti raccontato un’altra bugia. Mi rendo conto solo ora che sono già reo confesso di più menzogne, ma io gli occhi su questa cosa li voglio tenere aperti, mamma! E se ci sono delle persone con degli eyes che vedono più di me, perché devo coprire i miei e anche i loro? Tu non l’avevi questa possibilità di conoscere a fondo le cose, ma credi che sia un motivo giusto per negarla anche a me? Non devi preoccuparti se a volte non riesco a dormire per quello che vedo: io ne sono orgoglioso; credo che perdere qualche ora di sonno sia il giusto prezzo da pagare per chi è colpevole. Anche se non ho fatto niente di male, io mi sento proprio così: colpevole. In fondo io so solamente guardare, non faccio altro.

Stamattina ho voluto rimediare, perciò sono andato a manifestare. Volevo trovare un po’ di conforto in quegli slogan; anche se sono solo slogan, mentre li urlo sento che la mia voce arriva fino alla striscia di Gaza e la fa allargare un po’. Ho pianto tanto quando alle scuole medie mi hanno mostrato “Il bambino dal pigiama a righe” e allora la prof per farmi calmare mi disse che il passato non può ritornare perché gli uomini hanno imparato dalla storia, ma mi mentiva anche lei. Perché hanno ammonito Ghali quando ha detto a Sanremo la parola genocidio eh, mamma? Perché non si può dire questa parola in Tv? Tu sei innamorata delle etimologie, lo sai bene cosa significa, e sai anche che è il termine esatto da usare in questa circostanza, e allora perché discutono se promulgare una legge in cui gli artisti non possono parlare di politica? E da quando la pace è un affare politico? Non è il concetto più nobile, più prezioso e insieme il più fragile che esista? E allora se è indifeso io lo voglio proteggere, mamma, come mi hai insegnato tu e mi ripete sempre il mio professore di storia. È cambiato quest’anno, è un uomo fiero e degno, non come quella donna ossuta dagli occhi spenti dei primi due anni, che ci metteva a leggere per farci stare buoni, mentre lei puntualmente sfogliava “Libero” on line. Io LIBERO lo voglio essere davvero, e tutti i poveri di sogni lo devono essere insieme a me.

Non ho capito bene perché sono finito a faccia a terra, mamma. Avevo uno straccetto bianco tra le mani, l’ho preso a casa tra quelli per la polvere, scusami, ora è tutto rosso e non mi ricordo se le macchie di sangue vanno via, ne hai altri, vero? Ci avevo disegnato sopra la parola pace, ma non sono riuscito a sventolarlo a lungo. Giovanni era davanti a me e urlava forte : “Palestina libera” ma non mi risulta che i decibel siano armi. O forse lo sono diventati? È nella stanza accanto alla mia, pare che una manganellata gli abbia rotto il setto nasale, a me è andata meglio: il ginocchio mi sanguina ma mentre mi mettevano i punti sono stato bravo, non ho versato neanche una lacrima, ho pensato alle bombe che hanno portato via gli arti ai bambini di Gaza e mi sono detto: “Che vuoi che sia!”.

Immagino che tu stia piangendo ora. Papà mi sta venendo a prendere, non è arrabbiato: al telefono mi ha detto che sono stato coraggioso, ma lo sai, lui è di poche parole. Vorrei che tu mi parlassi a lungo invece, per questo ti sto scrivendo e non ti chiamo subito; voglio darti il tempo di metabolizzare le notizie, di riflettere, altrimenti mi inonderai di parole e di preoccupazioni, ma non è per me che le devi spendere, mamma: io sto bene, c’è chi ne ha più bisogno in questo momento e purtroppo non abita nei nostri paraggi. Tu però mi hai insegnato che la casa del mondo è condivisa; che il mare è una culla e non può diventare una tomba; che non bisogna interessarsi solo di quello che ci tocca da vicino; che il dolore degli altri va preso sulle nostre spalle per dimezzarlo; che se qualcosa non ci sembra giusto occorre agire per cambiarlo. E allora agisci insieme a me, mamma. Ti prego, anche se sei stanca, anche se hai paura, vieni stasera con me. Indosseremo delle lenzuola bianche sul capo e vi scriveremo STOP alla guerra, STOP alle armi, STOP al genocidio. Piazza del Cavaliere era vicina, ma la polizia non ci ha fatto arrivare, io non lo so il perché, forse lo sapevano i manganelli, devo provare a chiederlo a loro: magari parlano, come la Torre.

Non mi chiedere di stare a casa, non ce lo chiedete più, mamma. Vogliateci nuovi, attivi, veri, consapevoli, critici, saldi di fronte al dolore, impavidi dinanzi ai divieti che non condividiamo. Non chiedeteci solo di non essere più schiavi dei telefoni, ma anche di non essere mai più schiavi della guerra. Se da adulti non ne avete il coraggio, lo troveremo per noi e anche per voi.

Ps: ho deciso che se le guerre finiranno, da grande farò una figlia e la chiamerò FUTURA, come la tua canzone preferita. Sarà di buon auspicio, esattamente come il mio nome lo è stato con il mio carattere.

Livio  

BIP – BIP – BIP: “Sono ancora in azienda, amore. Ho una riunione che ho appena deciso di saltare, corro in stazione e prendo il primo treno. Ho visto tutto: qui c’è uno schermo gigante e ho riconosciuto la tua felpa verde. Ci vediamo in Piazza del Cavaliere alle 20. Sono fiera di te. Se non sapessi che è tua, pregherei affinché questa lettera l’avesse scritta mio figlio. Ti voglio bene.

Mamma