È molto strano ritrovarsi d’improvviso a descrivere sé stessi, soprattutto se scrivi con facilità auguri e ringraziamenti su commissione e ben documentati per tutti, dalla prozia agli estranei.
“Crei immagini con le parole” il complimento più frequente, e insieme il più amato. Forse è questo allora che sono. Una che da bambina contava le lettere delle parole sparse per la città, quando il papà la lasciava a guardia della macchina incustodita. Quella a cui oggi lanci una parola tra le righe e sa dirti velocemente come si agganciano vocali e consonanti, con il naso all’ingiù a cercarne l’etimologia. Quella che poi lo solleva, e si perde a guardare un frammento qualsiasi di universo che la sorprende ancora. Quella che si commuove sui quaderni dei propri ragazzi, perché hanno capito che le date servono a ben poco se non abbiamo la magia di farle diventare indimenticabili. Quella che si siederebbe per terra a giocare coi Lego di Andrea molto prima di fargli capire che le doppie sono importanti ma non indispensabili, se sappiamo costruire con dei mattoncini colorati mondi fantastici che odorano di ingenuità. Quella che promette a Sergio che lo incollerà sulla sedia se si alzerà di nuovo, e dopo dieci minuti stampa gigantografie di “Lilo e Stitch” per colorarle insieme.
Una mia amica, la cui assenza è pesata talvolta come un macigno, mi chiama Ela. Accanto a questo nomignolo mette dei numeri. Ho perso il conto di quanti ne ha creati. Sostiene che sono milioni di persone contemporaneamente, e forse è vero. Qualcuno potrebbe dirmi che non è poi una cosa così esclusiva, e gli darei ragione. Però mi piace. Mi piace pensare di dover aderire a una serie di etichette e di avere al contempo il potere di sconvolgerle; pagare bollette di giorno e addormentarmi sul divano vestita alle tre di notte dopo una sbronza con le amiche; andare a lavoro in tailleur e rivoluzionare il mio ruolo, cercando – ma forse non sempre riuscendoci, chissà – di restituire gioia e dignità alla parola cattedra. Stare attenta quotidianamente alla salute e poi divorare in un raptus una busta di taralli per cena; traslocare e non avere la minima idea di come si faccia ad arredare una casa; aver perduto quello che più nella vita credevo assomigliasse all’amore e continuare comunque a capitolare dinanzi ai battiti di un cuore che non ubbidisce mai. Parlare con dei fiori su una lapide, ma sapere che la persona che ho amato sopra ogni cosa mi sta aspettando da un’altra parte; partire sapendo solo con chi e per dove, senza la certezza di quando tornerò e in quale modo; saper bastare a me stessa, nonostante il concetto rasenti un egoismo che non mi è mai appartenuto e che un po’ mi repelle.
Credo che nella vita precedente io sia caduta da un albero. Devo essere atterrata sul morbido e aver avuto sorte più benevola di mia nonna. Quella caduta deve però avermi reso bacata, come una mela planata troppo velocemente al suolo e presa d’assalto dai bigatti. Il che spiegherebbe diversi errori e forse li giustificherebbe, ma d’altronde – come dice Nic, a cui spesso rubo – “Noi siamo la somma di tutte le persone che sono transitate nella nostra vita.” Nel bene e nel male. Le addizioni mi hanno lasciato come totale la resilienza. Sì, lo so che è un concetto abusato nei tempi recenti, ma non m’interessa. Cosa ci turbi, cosa ci affanni, cosa ci pieghi e cosa ci spezzi, noi tutti sappiamo. Ma quello che ci rimette in piedi, e in mezzo alle tempeste ci fa tornare come prima, certo… diversi, più maturi, più consapevoli e mille più blablabla… beh, quello io lo chiamo miracolo. Non puoi consentirti di dubitare che esista da qualche parte un qualche dio – Simy mi perdonerà la voluta minuscola – se assisti al miracolo della resilienza. Quando si compie, l’epifania del sovrannaturale scende su di te. Non c’è niente di umano nello spezzarsi e ritornare dritti. Niente.
Con la schiena di nuovo dritta ho ripreso a raccontare storie, commistioni imperfette di realtà e fantasia. Favole speranzose e insieme cronache di gente che si piega perché della vita “vuole succhiare il midollo” e non ha paura di restarne affogato.
Per chi è perfetto o crede di esserlo, non si trova nel blog giusto. Qui si coltivano imperfezioni.
Ps: Grazie, FRANCY: hai raccolto un’idea con le mani e col cuore di chi non ha mai smesso di credere che i sogni possano tramutarsi in realtà.
Ti voglio bene.