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Ricomincio dal -30%

“Cos’è successo? Perché siete tutti accalcati-accaldati al di qua e al di là del cancello?”.

Queste le uniche parole “geniali” che trovo, quando arrivo al luogo dell’appuntamento inzuppata di sudore e come sempre in anticipo, a causa di un’atavica avversione verso il ritardo.

“La serratura elettronica non funziona, è andata via la corrente.”

Una ragazza mi risponde così, in maniera gentile, tra la folla.

“E usare le chiavi è fuori moda? Scappa invece a me in maniera decisamente troppo ironica. “Magari! Mi fa eco lei; sono anni ormai che usiamo solo quella, nessuno sa più dove siano le chiavi!”.

Sento apparirmi in viso uno sguardo perplesso; penso che farò tardi, che ho dovuto aspettare una settimana per ottenere una visita al mio orecchio malmenato dai bagordi di Ibiza, e quindi esclamo d’istinto, noncurante del disagio generale: “Ma io dovrei andare dall’otorino!” La ragazza sorride, senza indispettirsi, forse anche lei detesta arrivare in ritardo. Mi guarda attentamente e strizza l’occhio, voltandosi verso l’interno del palazzo: “È lui l’otorino!”.

Sobbalzo. Rinchiuso al di là da me, c’è il medico deputato a scavare nella grotta dei Ciclopi in cerca di chissà quale inganno. Mi rassereno perciò immediatamente; niente ritardo: medico e paziente sembrano uniti dalla stessa sorte grottesca. Il professore mi è stato consigliato dalla mia migliore amica, Bianca: cuore puro, mani preziose, risata ardente, natura polimorfa: mezza donna e mezza motorino sin dalla tenera età, e pertanto avvezza alle otiti come ai raffreddori. Il professore ha un cognome di quelli altisonanti che mettono soggezione, soprattutto se al: “Chiamalo subito, Santolin è un guru dell’orecchio!”, Bianca aggiunge: “Ti avviso però, non ride mai, deve avere origini tedesche!”.

Resto perplessa e m’interrogo sulle motivazioni oscure per le quali, secondo noi meridionali, i tedeschi non conoscono leggerezza. Cosa ne è stato nel nostro immaginario dell’OktoberFest, che già di per sé assicurerebbe il diritto ad esser felici a vita? Rivedo il dito del medico puntato contro Troisi e lui, spalle al muro, cedere rassegnato all’etichetta di emigrante. Risento quell’accento imperativo che mi ha sempre provocato grande ilarità e che oggi potrebbe invece catapultarmi in un film di Dario Argento, ma poi mi rilasso: Bianca mi conosce come le sue tasche, non mi avrebbe mai mandato da uno che parla in quel modo.

L’otorino non sente ovviamente il mio monologo interiore e neanche la conversazione con la ragazza; questo dovrebbe impensierirmi, ma sono distratta dal modo elegante in cui persevera nella sua occupazione. Ha in mano un mazzo di chiavi che ha tutta l’aria di essere uscito dall’uso quotidiano da un bel po’: impensabile custodire in tasca o in borsa un ammasso di ferraglia così voluminoso. Le prova tutte per aprire dall’interno e da subito mi accorgo che è la persona più distinta e anche più pacata della momentanea congrega. Volo via per un attimo e penso alla saggezza degli anziani, che conservano, conservano, conservano. “Può sempre servire!” mi sembra che abbia appena detto il professore, ma la voce che ho nella testa è quella di papà. I giovani hanno facilmente imparato a buttare, buttare, buttare. Loro invece, gli anziani, conservano, sistemano, riparano, creando bellezza con le schegge, diventando artisti del Kintsugi, perché dalla rottura di un vaso può nascere una migliore e più brillante armonia, esattamente come nella vita. Non è un caso che, tra queste trenta persone, l’unica a possedere le chiavi – FORSE – di quella che ormai ha le fattezze di una prigione, sia proprio questo alto e sobrio signore, che prova senza mai perdere la calma a liberare gli ostaggi, tra l’impazienza della gente che cresce e che comunque – noto – non muove un muscolo per cercare a casa propria quelle chiavi di cui sicuramente deve essere in possesso.

Quando a un certo punto vedo Santolin infilare la mano nella cancellata, indomito, e provare ad aprire la serratura dall’esterno con il braccio scomposto, balzo in avanti e quasi gliele sfilo: “Permette, posso? Provo io che sono dalla parte giusta!”.

Il medico mi guarda e tituba, ma solo per un secondo; sta già sorridendo mentre mi cede il testimone, e io mi scopro a riflettere: “Bianca mia, secondo me non è tedesco!”.

Al passaggio di consegne, un uomo della cricca esclama: “Benissimo, la signora ha le mani fatate!” e a me viene un po’ da maledire e un po’ da lusingarmi; da maledire per il “signora”, perché continuo a sentirmi ostinatamente ragazza, anche se ragazza non lo sono più da un bel pezzo, e da ridere perché so che se avessi avuto gli occhi storti e i denti mancanti, le mie mani avrebbero prodotto – nell’immaginario del tipo di cui sopra – pozioni da pentolone di strega, altro che dita affusolate da bella addormentata!

Nel provare la prima chiave, sento un brivido di emozione: c’è l’ipotesi che sia quella giusta, sarebbe la rivoluzione; la gente scalpita, cerca l’eroe, il Masaniello di turno! Ma niente da fare: la prima non è, la seconda nemmeno, la terza non entra, la quarta non gira, la quinta… Sono in un attimo passata dal tripudio del podio alla mira degli archibugi, quando la sesta scatta: LIBERI TUTTI! Le persone scompaiono alla velocità della luce e la mia fantasia le trasforma velocemente nei polli di un allevamento intensivo liberati dagli operatori di Animal Equality.

Il signore che mi ha chiamato “mani di fata” mi abbraccia, esclamando: “Ha visto? Lo avevo detto che faceva la magia!” e tutti se ne vanno complimentandosi, mentre io resto a chiedermi, non senza un fremito di malcelata soddisfazione, cos’avrò mai fatto per salire sul palcoscenico di questo grande teatro all’aperto che è la mia città.

L’unico a non dileguarsi è lui, Santolin, che rimane  immobile come un vigile nel più intricato degli ingorghi, a indicare la direzione ai fuggitivi. Quando ormai siamo rimasti solo noi due lo ringrazio, varco il portone e dico: “Professore, io vengo da lei!”, e allora esplode in una risata pienissima ma non sonora – ha troppa classe – e i luoghi comuni gli regalano all’istante i natali in Sudamerica: “Bianca mia, lo vedi che non può essere tedesco?”.

Nella sala d’aspetto per il momento ci sono solo io, e ho paura di doverci restare a lungo, visto che Santolin mi ricorda che non funzionano le apparecchiature per lo stesso motivo della nostra appena scampata prigionia.

Io mi siedo buona buona ad aspettare; ho con me Michele Serra in forma rettangolare e Bianca già al telefono a tenermi compagnia, non posso esser preda della noia!

Dopo due minuti mi raggiunge e dice: “Iniziamo a vedere l’orecchio!”. Dentro di me esulto: ha parlato, ha una bella voce calda, chiara e roca allo stesso tempo.

“I suoi dolori” – prosegue – “dipendono probabilmente dalla mascella, ora vediamo” e io sospiro; ho vergogna di dirgli che sono appena tornata da Ibiza e che ho dimenticato per circa una settimana l’esistenza dei  termini: riposo, phon, opportuna distanza dalle casse audio nei locali sulla spiaggia. Gli confido, dunque, un viaggio generico alle Baleari; temo, non so perché, il giudizio di questo signore, da cui mi sento sbugiardata sin dal primo istante e che ride ancora, stavolta allargando anche gli occhi.

È la mia prima visita da un otorino, e dunque sono impreparata a questi multiformi oggetti che usa con la stessa disinvoltura con cui perdo le mie cose ogni giorno. Resto ferma su una sedia comodissima: ha un poggiapiedi che ovviamente non centro al primo colpo e su cui mi deve posizionare lui, occhi al cielo.

La corrente è tornata ed entro in una sala strana: mi sembra di essere nella cabina di comando di un aereo. Sono tentata dal premere tutti i comandi, come quando da ragazza ero in metro e bloccai la scala mobile solo per vedere a cosa servisse il pulsante rosso, mentre a Monia ne usciva uno uguale in viso per la vergogna. Memore dell’imbarazzo che ne conseguì, preferisco non toccare nulla e metto il filtro alle mie azioni. Aspetto le indicazioni e alzo la mano quando avverto i suoni riecheggiare in queste cuffie strane che trovano impaccio nella mia coda massiccia.

Non c’è un filo di aria dentro questo microcosmo e non vedo l’ora di uscire, ho sentito quasi tutto… certo, qualche suono pareva venisse dal Paleozoico, ma sarà una cosa da niente.

Mentre mi fiondo fuori dall’abitacolo al primo segno utile del tecnico, sento raggiungermi una strana domanda: “Com’è possibile che lei ci senta meglio del 2019?”. Allora mi oppongo, è la “mia prima volta!”. Lui insiste e ripete nome e cognome: sono proprio io, e  mentre sto per arrendermi al fatto che la mia memoria si stia velocemente avviando sul viale del tramonto, arriva la domanda giusta: “Data di nascita?”. Sono salva e la mia memoria con me, almeno per ora.

Ritorno nello studio; approfitto di qualunque movimento del professore che non richieda la mia diretta attenzione per guardarmi intorno: ho visto tanti libri solo nello studio del nonno di Mario; provo ancora tristezza per non averli potuti accettare quando propose di regalarmeli, ma lo spazio è una divinità davanti alla quale siamo tutti costretti a sacrificare qualcosa.

In questa stanza si respira cultura: leggo una targa di riconoscimento da parte dell’Associazione OTOSUB e improvvisamente vedo Santolin con pinne, maschera e bombole: adora il mare, ho deciso: “No, Bianca, da’ retta a me, proprio non può essere tedesco!”

Con la stessa espressione che ha tenuto per tutto il tempo, mi comunica che ho avuto un’otite importante, esterna e media, e che a sinistra sento il 30% in meno. Non è una buona notizia: che ne sarà del mio orecchio bionico, disperazione gioiosa dei miei alunni? Tuttavia, l’informazione scivola dolcemente tra le rughe moderate di quest’uomo gentile: un viso tale non può essere portatore di catastrofi.

Si siede quindi alla scrivania per appuntare una serie di medicinali che si aggiungeranno ai pregressi con non poco fastidio, e io continuo a guardare tra i libri; noto degli strani macchinari opportunamente conservati, che sembrano  appartenere ad un’altra epoca.

Conservare, conservare, conservare. Ecco di nuovo la voce del mio papà.

Decido a quel punto che dev’esserci, lì intorno, qualche prova della sua nazionalità: una foto dell’esultanza di Tardelli  o della gioia piena ma compíta di Pertini; l’immagine di Bearzot che abbraccia Pablito, qualche frame delle partite con le regine sudamericane sottomesse. Non ce ne sono. Indizi inutili a pensarci bene, ormai ho deciso!

Sebbene fare domande intelligenti fosse il diktat del giorno precedente, sono pur sempre geneticamente pletorica e tradisco me stessa esclamando: “Prof, sbaglio ad usare i cotton fioc? Quando ero piccola, mamma mi puliva le orecchie con un panno di lino, ma io non lo faccio più: le avrò forse molestate?”. Lui solleva gli occhiali, mi guarda e con calma mi risponde: “Le orecchie non vanno pulite, sono autonom…”, ma io non gli do la possibilità di finire la frase, come se mi avesse appena colpito un anatema, ed esplodo in un: “Sono sporche!”. Stavolta si arrende: la sua risata diventa grassa mentre mi spiega scientificamente perché la mia affermazione è un’eresia, e io incasso, ricordandomi di non essere un otorino e meno che mai un medico di qualsivoglia specie.

Il suo dito non intima, anzi: rimane fermo al suo posto, oserei dire nascosto.

Mi congedo: ho appena deciso che quest’uomo sarà il protagonista di un racconto, ha troppa personalità non esibita, non posso lasciarlo andare via dalla mia memoria così, devo trattenerne il ricordo su carta.

Dopo aver pagato la visita, mi ricordo di non aver posto la domanda più importante e con l’avallo della segretaria, rientro. Lui è chino e concentrato sulle carte, come immagino stesse Galilei dopo aver abiurato, in cerca del modo migliore per gabbare la chiesa, bigotta ed autoreferenziale; gli chiedo: “Prof, posso andare a mare?”. Lui, senza scomporsi, alza lo sguardo e gli occhiali: vuole forse capire se ha appena visitato un’idiota? Non lo so, ma alza nuovamente gli occhi al cielo, risponde educatamente alla domanda e ride, stavolta scuotendo la testa con una dose ben visibile di tenerezza.

Richiudo la porta e me ne vado con una convinzione:  non so se sentirò mai più come il giorno precedente al 4 luglio, ma…

“No, Bianca mia, non scherzare proprio, quest’uomo non è tedesco!”.

6 risposte su “Ricomincio dal -30%”

…Il racconto scivola via che è un piacere, leggero (estivo, come la domanda se è possibile andare al mare con il mal d’orecchio!) e ti stampa un sorriso gentile, partendo da quell’atrio che diventa piazza, quasi si vede spuntare un cavalluccio rosso, il dito teutonico ci fa tornare indietro nel tempo, il medico è uomo d’amore o di libertà? Con tutti quei libri e quel garbo la risposta è facile. I luoghi comuni si possono anche solo sfiorare, senza essere Pletorici, complimenti!

Grazie!!! Non so chi tu sia, ma sono certa che “conosci pure tu a Lello Sodano!!!”😉

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