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Filofobia

Mi chiamano “il vento”, ma il mio nome è Filippo.

Appurata l’insensibilità dei miei genitori verso la tradizione tipicamente meridionale per la quale il primogenito deve portare il nome del nonno paterno – che altrimenti si vendicherebbe dall’Oltretomba o dalla vita reale per aver subìto il più immotivato dei torti – mi sono messo alla ricerca della sua etimologia. Quella reale non mi soddisfa: niente di personale contro i cavalli, ma spererei in qualcosa che rendesse maggiore giustizia alla mia complessa personalità. Non mi ci vedo redivivo in groppa ad un equino a scansare il disagio in cui spesso sprofondo. Sono arrivato, pertanto, ad una conclusione: il mio albero affonda le radici nel termine filofobia. Paura delle relazioni amorose, a voler chiedere aiuto al greco.

Mi avvicino ai quaranta, ormai, e il pubblico affettuoso mi ricorda che dovrei pensare a metter su famiglia. Ma poi perché? “Fil, perché lo fanno tutti!”. “Vuoi forse morire da solo?”. “Ti serve una donna: casa tua sembra l’opera di un minimalista: certo, chic, ma vuota, vuota, vuota. Si sa: son le donne che donano un’anima alle abitazioni”. “Ma non ti secca rincasare dopo il lavoro e trovare tutto spento e muto?”. NO! In verità proprio no! Mi piace la mia compagnia; accendere la musica a tutto volume e ascoltare ciò che desidero; fare la doccia e cucinare quando ne ho realmente voglia; non dover rispettare le tradizioni forzatamente, né andare al cinema a vedere film lacrimosi che non sceglierei mai. Certo… se andasse qualche volta un’ipotetica lei a controllare che la mia auto non si apra, nonostante abbia più volte pigiato il tasto della chiusura centralizzata a distanza, sarebbe comodo, ma non posso mica iniziare una relazione per questo.

Ieri ho visto una donna magnetica: aveva i capelli d’oro fluenti e ha chiuso la sua vettura dandole le spalle; dominava tre borse con un equilibrio distratto, per nulla ragionato. L’ho immaginata al mare mentre gioca con i suoi figli a frisbee: sarebbe capace di intercettarne il lancio con un solo dito, meravigliandosene ma non più di tanto. Credo di averla amata per un attimo, quella donna sfuggente e misteriosa. Non lei, certamente, ma la sua indipendenza dalle manie di controllo sì. Aveva un’espressione dipinta negli occhi che diceva: “Se si è chiusa, bene. Altrimenti pazienza!”. L’avrei seguita, rischiando una denuncia, solo per chiederle come si fa.

Non mi sono mai innamorato finora. “L’amore è dei principi” e non se ne vede tanto in giro per il mondo. È di chi è nobile di cuore, di chi insegue ancora i sogni; di chi non si siede mai alla tavola del cinismo; di chi non ha bisogno di un doppio stipendio che nutra le rate del mutuo; di chi può rompere i piatti di casa perché i bambini sono usciti con la babysitter; di chi cerca di far pace subito perché non sopporta di andare a dormire col broncio. L’amore è degli spontanei; di chi può consentirsi di rifuggire i compromessi; di chi lo sceglie, senza sapere nemmeno il perché. L’amore è una decisione, ok: è assodato, ma sarò libero di non sceglierlo? Ammesso pure che sia la cosa giusta… avrò il diritto di sbagliare? Tuttavia, cado vittima del “buonsenso dilagante” e della percezione degli altri che spesso determina quella che abbiamo di noi stessi, e quindi ci riprovo. Mi sforzo lentamente, perché in fin dei conti ho paura, e quale folle correrebbe incontro alle proprie paure invece che calpestarle come scarafaggi, sperando che non siano esseri umani reincarnati? Stavolta è diverso, comunque. Sì, lo so che lo dico sempre, ma sento che è così, altrimenti mia sorella non avrebbe soprannominato Gaia “la regina”. Non sbaglia un colpo, pazzesco. Ha perfettamente inteso la mia natura da Grinch e studia le mosse accomodata a un tavolo di scacchi. Mi piacerebbe che fosse davvero come si presenta, ma non esistono donne così. Che dormono con te e spariscono l’indomani mattina all’ora precisa in cui non le vuoi più tra i piedi; che ti baciano sull’uscio e poi scompaiono per qualche giorno, salvo ritornare quando stai cominciando a chiederti che fine abbiano fatto, ma comunque non le cercheresti. Che parlino di loro, ma non troppo; che chiedano di te, ma non troppo, e che non lamentino situazioni complicate che non tollereresti neanche per un quarto d’ora. Se non avessi così esperienza con le donne, penserei di averLA trovata, ma non esistono rappresentanti dell’universo femminile di tal fatta, è impossibile. Ho comprato comunque una corona-giocattolo su Internet. No, non è per lei: la donna preferisce essere ingannata e credersi l’unica, appoggiandosi ad un muto consenso; non puoi farle percepire che è sul podio, ma che prima di farla salire l’hai paragonata a  mille altre. Capirebbe, in quel caso, che è solo un topolino da laboratorio, necessario per testare la tua respingenza all’amore. L’ho comprata per me, invece; guardarla fare capolino dal fondo della cabina armadio, mentre scelgo cosa indossare per andare a lavoro, mi tiene ben concentrato sull’obiettivo.

“La regina” c’è. Sono io il re? “L’amore”, in fondo, “è dei principi”.

Anche lei d’un tratto cade. Nel più banale dei modi. Come un birillo per un colpo ben piazzato, non necessariamente da strike. È il 16 dicembre e a Roma non fa freddo. Natale è disegnato in tutti i profili della capitale e si deve essere insediato anche nell’animo di lei, che a tradimento, ancora sudati nel letto, mi chiede: “Cosa facciamo a Capodanno?”. Devo aguzzare i sensi, ma non posso dirle di ripetere, e allora provo a interpretare il suo sguardo. “Oh, No. E’ LUI: è lo sguardo del NOI, quello della prima persona plurale del pronome, sono fregato: è finita. Mi esibisco in uno dei miei migliori silenzi con aggrottamento di sopracciglia incluso, e dopo sette minuti precisi di orologio “la regina” imbocca la porta. “Niente carbonara stasera, ok. Disdico. Lascia che ti accompagni però, almeno”. “Non ce n’è affatto bisogno, Filippo. Chiamo un taxi”.

La porta si chiude e resto da solo. Nel corridoio c’è uno specchio enorme, unico vezzo che ho concesso alla casa, e mi ci vado a posizionare di fronte. Vedo mancanze. Le cerco nelle donne, gliene addebito infinite, ma forse sono solo le mie. Questa situazione inizia a stancarmi.

Chiamo Francesco e Daniela, correranno: non ci siamo mai separati da quel viaggio fortunato che me li ha regalati. Arrivano, ma vengono pur sempre da altre città, e quindi sono trascorse già due settimane dall’uscita scenica “della regina”. Andiamo a cena sul Lungotevere; ho voglia di svagarmi con due persone che non sanno che farsene dell’amore tradizionale. Daniela ha il sorriso di chi ancora ci crede, ma lo ostenta con un atteggiamento da superuomo che fa fuggire chiunque la incontri; non ha ancora capito che a noi maschi non piace essere prede, dobbiamo sentire di avere il comando.

Francesco resta invece aggrappato ad un amore che non esiste più, ma da cui ha paura di separarsi: difficile, strano a dirsi, essere gay nel XXI secolo; non sentirsi diverso in una società retrograda al pari di quella dell’Ancien régime; rimettere in circolo la propria sessualità, cercando qualcuno che la prenda e la appoggi sul proprio cuscino, spaventandone i timori.

Il locale in cui siamo diretti si chiama “Porto Fluviale” ed è davvero cool. Riproduce lo stile industriale della New York degli anni ’50: ci sono tubature a vista e travi di cemento, finestre enormi e sedie tutte diverse. Su un divano di pelle all’ingresso c’è seduta una ragazza che ho visto in tv: non è particolarmente bella, ma i suoi spettacoli sono accattivanti e lei seducente, quindi la riconosco subito. Ci scambiamo uno sguardo fugace e la perdo nell’ambiente fumé; Francesco e Daniela se ne accorgono e ammiccano: “Hai colpito ancora, Fil”. Quando mi alzo per andare in bagno la cerco consapevolmente, ma non la trovo: è andata via. Le scrivo allora un messaggio dei miei, rintracciandola velocemente su Instagram. “Che fine hai fatto, Alma? Sei andata via e non hai neanche salutato!”. Non mi aspettavo una risposta repentina, ed è per questo che l’adrenalina sale quando mi chiede, dopo la visualizzazione subitanea: “Ciao. Ma quando, e soprattutto dove?”. “Eh, ormai sei andata via”, le rispondo. “Sai, è un Porto fluviale: c’è chi viene e c’è chi va.” “E tu perché non mi hai avvicinata? Sei forse un marinaio?”. Ho l’assist, sono pronto a segnare in rovesciata. “No, sono un ferroviere, e i treni passano una volta sola”. Chiudo. Al tavolo i miei amici mi aspettano. Siamo diretti in un locale di musica latino-americana per ricordare i suoni colombiani del nostro primo incontro, e all’uscita trovo dieci messaggi di Alma. Non le rispondo; volevo solo vedere se riuscivo a conquistarla, non mi piacciono i riflettori, sai che fastidio vivere con una donna il cui sorriso diventa l’obiettivo di orde di uomini? Non ci penso neanche.

Forse dovrei vedere uno strizza, ma non mi va. Sì, lo so che è un concetto sdoganato ormai, ma io continuo a pensare a quest’epiteto, e a preferire la spremuta di arance a quella di cervello. Non berrei sostanze di colore grigio, mi farebbero repulsione, figurati se sapessi che provengono dalle mie idee sventurate.

Torno a casa da solo: Daniela e Francesco hanno preso una stanza in un b&b nei pressi della stazione; peccato, mi avrebbe fatto piacere continuare a parlare con loro. Daniela ha aperto un blog ultimamente, e dice che scriverà un racconto su di me, ma poi non lo pubblica mai. Sebbene mi definisca il suo alter-ego, credo ritenga il mio un caso senza speranza; non si rende conto che sceglie tizi impossibili e disadattati anche lei, rifuggendo tutti quelli che assomigliano alla “regina”. Le cosiddette persone sane, quelle che sorprendono inviandoti i tappi delle birre bevute insieme davanti a un tramonto di mesi prima, e da cui hai avuto un istintivo e irrefrenabile desiderio di fuggire. Quelle sì che potrebbero essere considerate un addendum, ma noi no, non ci fermiamo: siamo il vento, non abbiamo fissa dimora, guai a placarsi.

Vado in bagno. Mi tolgo le scarpe, avendo cura di non sporcare per nessun motivo al mondo il tappetino che giace ai piedi del lavabo. Mi infilo sotto la doccia: ho voglia di dormire profumato stanotte. Tiro via le gocce dalle porte di vetro con uno strumento che ho comprato ad hoc su Amazon: c’è troppo calcare nell’acqua di Roma. Mentre sono in procinto di distendermi sotto le lenzuola, e già assaporo la mia posizione a quattro di bastoni, mi sovviene che non ho controllato di aver chiuso la macchina. Cazzo! “Dormici su, mi dico”. Non ci riesco ovviamente, e quindi scendo. Di parcheggio non ce n’era nei pressi di casa, e sono costretto a percorrere una lunga porzione di strada malvolentieri. Una volta a destinazione, mi avvicino alla portiera e provo ad aprirla, ma ovviamente è chiusa. Sono un idiota! Sulla via di ritorno, mentre elaboro a fondo questo concetto che mi infastidisce appena appena, come tutte le cose che non riesco a dominare, d’improvviso incrocio nel buio una sagoma femminile: è Alma, ne sono sicuro, e sembra provenire da una visione notturna. Devo essermi addormentato, sto sognando: quante possibilità ci sono che abiti nel mio quartiere? Roma non è mica Fiuggi! Mi riconosce e procede verso di me: prodigi delle foto profilo sui social e delle relazioni virtuali. Non mi dice niente, se non che ha voglia di stare con un ferroviere, e allora la faccio salire sul treno. Beviamo vino rosso e chiacchieriamo nel mio salotto minimal, le piace – afferma – e io devo aver ricevuto qualche strano sortilegio perché perdo il mio spirito brillante e insieme la parola. Allora si alza, ringrazia in maniera ironica e dopo poco se ne va. Mi bacia fugacemente sulle labbra e scompare, come nella peggiore prosecuzione del sogno da poco cominciato.

Chiudo nuovamente la porta dietro di me, e sospiro. Resto così per qualche minuto e poi in un baleno mi è tutto chiaro. Vado dritto verso il telefono e cerco il contatto di Alma su Instagram. La blocco. Poi apro Facebook e faccio la medesima cosa. Fortunatamente questa casa non è mia, tra due mesi scade il contratto; lei non può saperlo. Se fosse entrata in camera da letto avrebbe visto gli scatoloni, ma non lo ha fatto, né tantomeno io ve l’ho indirizzata. Anzi, a dirla tutta, non ho avuto neanche il coraggio di sfiorarla con un dito; sembrava fosse di vetro e che potessi infrangerla da un momento all’altro.

Non mi troverà mai, sono al sicuro.

Mi rassereno e smetto di sudare, il cuore rallenta.

Ci sono andato troppo vicino stavolta, non deve mai più ripetersi, maledetto destino!

Devo cercare un’app che mi ricordi di controllare la macchina un attimo dopo averne bloccato la serratura; se esiste un tostapane per selfie, avranno di certo brevettato anche questa: è di gran lunga di maggiore utilità.

Gli imprevisti sono campi minati, e io odio le armi: sono un pacifista.

Filofobia, dicevamo… sì, ora ne sono certo: l’etimologia è quella giusta.

5 risposte su “Filofobia”

Quelle sì che potrebbero essere considerate un addendum, ma noi no, non ci fermiamo: siamo il vento, non abbiamo fissa dimora, guai a placarsi.
💖

Il vento ha molti poteri e molte anime:
può spazzare via le nuvole o addensarle,
può essere un forte soffio che gonfia le vele o un dolce sospiro che accarezza i capelli,
può gonfiare il mare, scavalcare colline e fare musica fra gli alberi,
in lungo ed in largo, sorvolando o scendendo, può contemplare e sfiorare la bellezza,
può attirare sguardi ed ammirazione.
Solo gli è proibito fermarsi a godere tutto ciò.
Non tentare di fermarlo: se il vento si ferma, non esiste più.

Bellissimo. Lo metterei in calce al racconto rubandone la paternità, se fossi disonesta, ma non lo sono.
Complimenti a te.
🧡

Non ruberesti nulla. Ogni parola del mio commento nasce ed è ispirata dalle tue. Complimenti a te.

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